Gli anni passano e io rimango sempre più affascinato da come il Governo israeliano cerchi di nascondere la polvere sotto il tappeto, o, tradotto, da come le istituzioni provino a mascherare l’occupazione illegale di un territorio con immagini meno crudeli e più digeribili.
L’esempio più recente è quello del ministero degli Affari strategici, che qualche mese fa ha deciso di compiere un altro passo nella lotta contro la propaganda anti-israeliana, lanciando un’applicazione che ti permette di “dire al mondo intero la verità su Israele”. Questa campagna, lanciata con lo slogan “ferma l’odio”, è un tentativo di creare sul web dei “soldatini” che possano fare da muro alle critiche rivolte al Governo. Immagino l’Elon Musk del Knesset mentre fantastica su una realtà in cui persone sparse per il mondo, nel buio della loro stanza o col vento tra i capelli, semplicemente tramite un telefono e una coscienza morta, possano dare una mano a diffondere la Verità. Quella vera naturalmente, mica la solita roba.
Tramite l’app si possono condividere notizie positive su Israele, segnalare contenuti su Facebook o su Youtube, firmare petizioni e perfino mandare un’email al Direttore generale dell’UNESCO per chiedere di “mettere fine alla loro faziosità nei confronti d’Israele”. Tutto ciò potrebbe risultare un po’ infantile, allora provo ad aiutarli, magari raggiungiamo un risultato più serio e credibile: come prossimo step si potrebbe imporre l’utilizzo dell’applicazione agli aspiranti partecipanti al Birthright. Gli utenti che avranno raggiunto un certo punteggio – sì, ogni post segnalato o petizione firmata regala dei punti –, potranno partire per una delle principali iniziative attraverso cui Israele cerca di ripulire in modo isterico la propria immagine. Pensate all’atmosfera di sana competizione che si andrebbe a creare.
Il programma Taglit-Birthright si occupa infatti di organizzare “viaggi educativi” gratuiti in Israele destinati ai giovani ebrei provenienti da tutte le parti del mondo: dieci giorni in cui esplorare il Paese, incontrare i soldati dell’IDF e immergersi in un ambiente che renda psicologicamente indottrinabili. Dal 1999 a oggi più di 500mila ragazzi hanno preso parte all’iniziativa il cui obiettivo, recita la pagina web, è quello di “rafforzare l’identità ebraica, le comunità ebraiche e la solidarietà con Israele”. Per questo si costruisce il mito di un Paese che non esiste, di cui i ragazzi possano sentirsi parte e accettarne, in modo incondizionato, le politiche. La perfetta manifestazione dell’ideologia sionista. Michael Steinhardt, uno dei fondatori del Birthright, parla infatti di come alla base dello sviluppo d’Israele ci siano i valori di quel movimento nato alla fine del XIX secolo tra gli ebrei residenti in Europa, per affermare il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato.
Nei suoi diari il padre del sionismo Theodor Herzl scrive che in Palestina “sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e con attenzione”. La stessa discrezione adoperata dalle istituzioni israeliane per occultare minuziosamente al mondo le dinamiche realmente in atto in quei territori.
YouTube pullula di video di ragazzi che raccontano di come quest’esperienza indimenticabile abbia cambiato le loro vite. Seduti davanti alla webcam parlano di quanto sia stato tutto meraviglioso: l’esitazione arriva solo quando cercano di pensare al loro momento preferito. Ci sono immagini girate mentre sorridono e si divertono, cantano in coro sugli autobus che li portano da una meta all’altra: Israele è la loro casa, un luogo in cui sentirsi al sicuro, parte di una grande famiglia. Si cerca di convincerli a trasferirsi lì, a sposarsi tra loro – per evitare i matrimoni interrazziali –, a unirsi all’IDF. Le guide parlano loro di palestinesi terroristi, demonizzano gli arabi ed evitano accuratamente di raccontare loro ciò che succede nei territori occupati. Dalla Striscia di Gaza li tengono ben lontani, quasi ci fosse la peste.
«Venendo qui – sono le parole pronunciate da Netanyahu durante un evento legato al programma –, vi unite ai soldati israeliani nell’aiutare ad assicurare il futuro d’Israele. Voglio che registriate tutto ciò che vedete e lo condividiate con gli altri. Parlategli del miracolo d’Israele, di questa rara e fiorente democrazia del Medio Oriente». Tornate a casa e diffondete il verbo. Raccontate di quanto siamo buoni, di come qui non succede nulla di male. E per chi non può e non vuole scomodarsi, siamo comunque sull’App Store.
Due anni fa ho intervistato una donna palestinese che aveva perso la vista dopo essere stata ferita nell’Operazione Piombo Fuso, avviata a cavallo tra il 2008 e il 2009 dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza. Mi ha raccontato della condizione misera in cui viveva il suo popolo, tra mancanza di elettricità, acqua inquinata e malattie. Mi ha parlato dei ragazzini di 14 anni che ha visto morire e di cosa significasse vivere sotto un costante assedio. Ma in Italia ci sarebbe sicuramente qualcuno disposto ad accusarla di antisemitismo perché no, non si parla male d’Israele, “Israele è uno stato democratico”, come probabilmente riaffermerebbe Adinolfi. Non si parla male del Governo che prima ti ha reso invalida e poi ti ha costretto a lasciare il tuo Paese.
Se non riusciremo a cancellare ciò che hai visto, cercheremo almeno di non farlo vedere agli altri. Ci libereremo dell’immagine di quell’uomo che sanguina, ma terremo le riprese degli alberi, perché il verde rappresenta la vita. Diremo ai soldati di sorridere, di posare per qualche selfie, di abbracciare i ragazzi. Di stringerli forte finché non penseranno: “Io ci sono stato lì, le cose brutte di cui parlate non succedono”.
Scarta la scena della guerra.
Anche quella dell’occupazione.
È il ventunesimo secolo e l’oppressione di un popolo è un film da trasmettere in fascia protetta.