La morte degli altri è sempre più irrilevante, come quella di Kenny in South Park. Ed è gravissimo. - THE VISION

Per chi, come me, non ha mai mancato l’appuntamento con le puntate di South Park, l’esclamazione “Oh mio Dio, hanno ucciso Kenny! Brutti bastardi!” rappresenta un refrain malinconico che non annunciava soltanto l’ennesima morte di quello che è sempre stato il mio personaggio preferito della serie, ma segnava anche la fine dell’episodio, lasciando spazio ai titoli di coda. Se c’è una cosa che devo agli ideatori di South Park – chi sale sul red carpet della notte degli Oscar strafatto di LSD è decisamente una personalità da studiare – è l’avermi insegnato quali sono i momenti in cui è assolutamente necessario piazzare una volgarità, un termine scurrile o una risposta aggressiva. La reazione dei bambini di Fairplay, Colorado, agli incidenti che coinvolgono il loro amico, uccidendolo, infatti, non è delle più posate e non dimostra alcuna partecipazione emotiva. Anzi, si risolve in due brevi battute pronunciate in tono tutt’altro che sconvolto, con un cinismo che fa sembrare la morte di Kenny del tutto irrilevante.

È vero che nel contesto della serie questo evento in particolare non ha nulla di eccezionale o traumatico, perché Kenny muore ripetutamente dal primo leggendario episodio della stagione d’esordio di South Park, “Cartman si becca una sonda anale” – dove viene calpestato da una mandria di mucche e poi investito dall’Agente Barbrady – fino al tredicesimo episodio della quinta stagione, intitolato proprio “Kenny muore”, –  in cui sembra andarsene in maniera permanente a causa di una malattia terminale – ma il modo in cui la sua uccisione rimane qualcosa di neutro, che non sposta di un millimetro gli equilibri della narrazione, è una vera e propria rottura degli schemi di rappresentazione che siamo soliti associare alla scomparsa di un personaggio che amiamo. Anche in occasione della sua ultima morte, quella definitiva, infatti, non c’è dolore o struggimento per la sua perdita, né alcun tentativo di dare all’accadimento un significato ulteriore. Al contrario, come hanno dichiarato gli stessi autori, Trey Praker e Matt Stone, era semplicemente diventato troppo faticoso trovare altri modi fantasiosi per farlo fuori.

South Park

La morte di Kenny, quindi, si ripete nella totale irrilevanza, senza toccare gli altri personaggi né tantomeno lo spettatore, perché avviene all’interno di una costruzione narrativa capace di eliminare il dolore, lo sconvolgimento e il trauma dalla sfera semantica associata alla mortalità. Il personaggio di Kenny, da questo punto di vista, è una sfida al senso comune, perché muore e basta, senza conseguenze emotive di alcun tipo, mostrando uno scenario che è in assoluto contrasto con tutto lo spettro di sentimenti che tendiamo spontaneamente ad accostare alla morte, sia se ci colpisce nella realtà, sia se va ad alterare le dinamiche di un universo di finzione al quale siamo particolarmente affezionati.

L’atteggiamento che negli anni recenti abbiamo assunto nei confronti della morte non è del tutto dissimile da quello dei protagonisti di South Park, anzi, si sta avvicinando sempre di più alla loro mancanza di interesse nei confronti di ciò che accade a Kenny. Spesso, infatti, ci comportiamo come se la morte non esistesse più, come se l’avessimo espulsa dall’area delle tematiche che mettono in crisi l’essere umano. Questa forma di comportamento non riguarda la progressiva estinzione del complesso di riti e credenze – religiose o meno – che la nostra cultura ha da sempre intrecciato con l’evento della morte. Si tratta di una percezione di irrilevanza della mortalità umana che ha invaso il nostro modo di vivere e, ancor di più, l’evento concreto della morte. Non si tratta, dunque, di un sentimento astratto, che si limita a cambiare il nostro approccio a uno degli interrogativi universali che tormentano l’uomo da sempre. Questa categoria della trascurabilità, dell’ininfluenza viene applicata sempre più spesso anche alle morti tangibili, reali, quelle che ci toccano perché accadono vicino a noi.

L’impressione dell’irrilevanza della morte è qualcosa con cui abbiamo a che fare da sempre, soprattutto per quanto riguarda le minacce che sentiamo molto lontane da noi, come tutte quelle storie di guerre e catastrofi collocate in un imprecisato non-so-dove che riempiono i telegiornali. Questa percezione di irrilevanza, però, sta ampliando sempre di più il suo raggio d’azione, con una brusca accelerazione a seguito della pandemia, che ci ha sottoposto a bollettini dei morti quotidiani, con centinaia di numeri di vittime proposte in serie, a cui era davvero difficile dare un significato, una misura, mentre passavano sullo schermo del televisore o formavano la linea di un grafico da consultare attraverso lo smartphone, per capire se la settimana successiva saremmo stati in zona rossa o arancione. Nei mesi dei lockdown successivi e delle restrizioni, infatti, il pericolo di ammalarsi – e magari stare male davvero, o addirittura morire – si collocava appena fuori di casa, al supermercato, sull’autobus, non in una zona remota del Medio Oriente, e questa vicinanza della morte ci ha assuefatti al suo pensiero, tanto da arrivare a fare finta che il timore per la nostra vita non esistesse. La paura, dunque, è il primo elemento che ci ha spinto a restringere il campo della riflessione, impedendoci di prendere davvero in considerazione la morte, per “difenderci” dall’instabilità di questo momento storico attraversato da eventi traumatici.

Accanto alla paura, ad allontanare la morte dal dominio del pensiero contribuisce l’ossessione postmoderna per la giovinezza, la bellezza e la forma fisica in generale. Questo ideale – che non ci assilla più soltanto durante le interruzioni dei programmi Mediaset, intervallati dalle immancabili televendite del cinturone elettrostimolatore per addominali d’acciaio di Media Shopping, ma ogni volta che diamo un occhio al feed di Instagram – fa dell’invecchiamento e della morte due fallimenti intollerabili, che non solo non vale la pena elaborare, rappresentare, raccontare, ma per cui è bene provare anche un pizzico di vergogna. In questo senso, oltre alla morte, temiamo lo “stare morendo” – magari in solitudine o piegati da una malattia – ovvero il naturale processo di invecchiamento che ci mette davanti alla nostra mortalità ogni giorno, attraverso i piccoli cambiamenti che vediamo nel nostro riflesso allo specchio.

La morte, dunque, è diventata impensabile innanzitutto perché, ora che si presenta come una minaccia quanto mai vicina anche per chi è nato dal lato giusto del mondo, fa ancora più paura; ma anche per vergogna, dal momento che viene associata sempre più spontaneamente al fallimento, all’esito conclusivo di una lenta e impietosa degradazione del nostro corpo. Così, relegandola in uno spazio sempre più angusto della mente, ci stiamo dimenticando che l’irrilevanza della morte ricadrà necessariamente sulla percezione del valore della vita, rendendola altrettanto irrilevante. Il malessere generalizzato a cui si assiste a livello sociale, quella voglia di stare tutto il giorno rintanati sotto il piumone, perché tanto nulla di ciò che sta accadendo fuori importa davvero, è un disagio legato alla nostra crescente incapacità di elaborare i traumi, uno su tutti la morte. Per questo, per imparare a vivere, in sostanza, dobbiamo prima imparare a morire, riportando l’attenzione sulla consapevolezza rispetto alla morte che era, per Seneca e per tanta filosofia, uno strumento di liberazione del pensiero.

Guerra in Ucraina, 2022

Non basta più recuperare la filosofia sempreverde del “Carpe diem”, scoprendo il tatuaggio fatto sul polso quando avevamo diciassette anni. Il rischio, infatti, è che la percezione di irrilevanza della morte non intacchi soltanto il modo in cui decidiamo di utilizzare il tempo che abbiamo da vivere a livello individuale, ma che tronchi definitivamente ogni prospettiva sulla qualità dell’esistenza sul piano culturale, portandoci ad accettare qualsiasi violazione della stessa. Dove la qualità della vita non ha più alcuna importanza, infatti, nulla è più inviolabile e qualsiasi abuso nell’ambito dei diritti – dai ritmi lavorativi insostenibili, alla crescita delle disuguaglianze, passando per la discriminazione delle minoranze – finisce per sembrare accettabile, o addirittura normale.

È esattamente questo lo scenario di fronte al quale veniamo messi di fronte quando guardiamo un episodio di South Park: un luogo in cui la morte non conta nulla e dove ogni aspetto della vita viene eroso a partire da questa insignificanza della mortalità. Lo svuotamento di valore a cui è sottoposta la morte nella serie animata, infatti, diventa una metafora della negazione assoluta dell’umanità, per questo la cittadina di Fairplay rappresenti l’abisso del nichilismo, l’habitat naturale della crudeltà spinta fino all’assurdo. Il nazismo di Cartman in “La passione dell’ebreo”; la vendetta che costringe il bullo Scott Tenorman a mangiare i suoi genitori; le sparatorie a scuola che restano soltanto un sottofondo inascoltato nella puntata “Bambini morti”; sono rappresentazioni ipertrofiche della soglia dell’irrilevanza che si alza – “come succede con la droga o la pornografia” – abituandoci ad accettare e poi a normalizzare anche ciò che compromette intimamente i canoni del rispetto e della dignità dell’esistenza.

In questo senso, nonostante l’intento tutt’altro che formativo degli autori, South Park è un ammonimento potente, uno sguardo cinico e visionario su ciò che rischiamo di diventare se escludiamo dal dominio del pensiero tutti gli elementi che ci turbano, a partire dalla morte: la peggiore delle versioni di Eric Cartman. Per sventare questa possibilità, la società in cui viviamo ha un estremo bisogno di tornare sulle tematiche che ci toccano nel profondo, soprattutto quelle che più ci inquietano e che spesso estromettiamo dalla riflessione per paura o per vergogna, perché la lotta all’irrilevanza prevede proprio di riscoprire la legittimità del timore, della morte, del dolore, consentendo agli eventi della vita di metterci in crisi. Proprio quando questo smarrimento sembrerà troppo difficile da superare da soli, ci si potrà aprire alla possibilità di condividerlo, alla compartecipazione, che è esattamente ciò che rende rilevanti i momenti della nostra esistenza.

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