C’è un tabù in ottima forma, in Italia: la tortura. Il nostro Paese non è ancora riuscito a dotarsi di una legge che definisca, vieti e punisca ogni atto di tortura commesso da pubblici ufficiali. Un atto che, oltre a essere una barbarie inaccettabile in uno Stato di diritto, è considerato come inutile e controproducente da diversi studi e da diversi agenti della Cia che hanno ammesso di averne fatto uso nel corso degli anni: pur di evitare la sofferenza, un uomo sotto interrogatorio è disposto a confessare qualsiasi cosa, vera o falsa che sia, fino ad ammettere reati mai compiuti.
Eppure, il “trattamento inumano e degradante”, in Italia specialmente quando è opera delle forze dell’ordine, è a volte ignorato dai principali esponenti politici, a volte negato, altre minimizzato. È successo questa settimana a Torino, quando un poliziotto e un medico sono stati accusati di aver sedato un arrestato; oppure ad Arce, in provincia di Frosinone, dove cinque persone sono state raggiunte da un avviso di garanzia per la morte nel 2001 di Serena Mollicone, avvenuta all’interno della caserma dei Carabinieri; e soprattutto a Roma, in seguito alla pubblicazione della foto di Gabriel Natale-Hjorth, arrestato per l’omicidio del carabiniere Mario Rega, tenuto in manette e bendato mentre si trovava sotto la sorveglianza dei militari dell’Arma.
Non si sono fatte attendere le dichiarazioni sulla vicenda dei due vicepremier. Il primo a parlare è stato Matteo Salvini: “A chi si lamenta della bendatura di un arrestato, ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un uomo, un figlio, un marito di 35 anni, un Carabiniere, un servitore della Patria”, ha scritto il ministro dell’Interno. Per l’uomo da cui dipende la Polizia di Stato, il presunto omicida non merita di essere tutelato dallo stato di diritto. In spregio a ogni dovere istituzionale, il leader della Lega ha assecondato l’opinione diffusa tra il suo elettorato, riassumibile nel mantra “quel ragazzo se l’è meritato”.
Il ministro dell’Interno è stato contraddetto a distanza di poche ore dai vertici dei Carabinieri stessi, che hanno dimostrato una sensibilità istituzionale all’altezza del loro ruolo riconoscendo che è illegale bendare una persona in stato di fermo in qualsiasi momento, ed è altrettanto illegale ammanettarla in un momento che non sia quello del trasferimento da o verso il luogo dell’interrogatorio per evitarne la fuga. Preferendo l’esempio del collega di governo a quello del Comando dei Carabinieri, Luigi di Maio ha sostenuto invece che “Parlare quasi più del ragazzo bendato che del nostro Carabiniere ucciso significa buttarla in caciara”.
La posizione di Di Maio è quella più sorprendente, visto il passato del M5S. Sin dai suoi primi anni, il blog di Beppe Grillo e poi il Movimento stesso sono stati tra i maggiori presidi di informazione e attivismo contro gli abusi delle forze dell’ordine. Il blog di Grillo ha giocato un ruolo di primo piano nella diffusione del caso Aldrovandi e si è battuto per anni in favore dell’introduzione del numero identificativo per le forze dell’ordine. Il M5S si è poi sempre impegnato nella battaglia per l’introduzione in Italia del reato di tortura, ribadendo questa volontà persino nel programma per le elezioni del 2018, con un paragrafo dedicato alla modifica del reato.
Nel nostro Paese il reato di tortura è un tabù con una storia di 30 anni, da quando nel 1998 l’Italia ratifica la Convenzione Onu che obbliga gli Stati aderenti a prendere “provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari per impedire gli atti di tortura e per introdurre il reato nel suo diritto penale”. La prima proposta arriva in Parlamento già nel 1989 e viene subito affossata. Il secondo tentativo va attribuito al governo Amato del 1992, ma è un altro fallimento. Ogni legislatura ha visto presentare delle proposte di legge che non hanno neanche avviato il loro iter parlamentare. Quelle che si sono avvicinate di più a ottenere l’avallo del Presidente della Repubblica risalgono al 2006 e al 2012. La prima è naufragata a causa della risicata maggioranza del Governo Prodi, mentre la seconda per la caduta del governo Monti. In totale, dal 1988 al 2015, sono state censite quasi 70 proposte, tutte archiviate.
Nel frattempo, decine di italiani sono morti mentre si trovavano in custodia dello Stato. Padri di famiglia come Aldo Bianzino, arrestato nel 2007 per possesso di marijuana e morto all’interno del carcere perugino di Capanne 48 ore dopo l’arresto. O ragazzi di 31 anni come Stefano Cucchi, spentosi dopo sei giorni di agonia in seguito a un arresto per spaccio di droga. Altri sono invece rimasti vivi, perché sottoposti “soltanto” a trattamenti inumani e degradanti. Come Emmanuel Bonsu, arrestato nel 2008 dalla polizia municipale di Parma con l’accusa di spaccio e massacrato di botte durante il trasporto al commissariato e l’interrogatorio, con tanto di insulti razzisti. O come Luciano Isidro Diaz, fermato per non aver rispettato l’alt a un posto di blocco e pestato nella caserma dei carabinieri di Voghera al punto da perdere un occhio.
Il picco è stato raggiunto con il G8 di Genova del 2001, il blitz alla scuola Diaz e le violenze alla caserma di Bolzaneto. In nessun tribunale italiano quegli atti brutali delle forze dell’ordine sono stati definiti come “tortura”. Per leggere quella parola in un documento ufficiale è servita la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che nel 2015 ha dichiarato che quei maltrattamenti devono essere “qualificati come tortura”. Chi l’ha denunciata però non ha potuto ottenere giustizia perché in Italia non è previsto il reato. Per questo, i giudici hanno invitato il Parlamento a dotarsi di strumenti giuridici adeguati. Due anni dopo, la stessa Corte dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per i fatti della scuola Diaz e della Caserma di Bolzaneto. Per molti degli imputati nei nostri tribunali era intanto scattata la prescrizione in sede penale. Quanto accaduto è una doppia beffa, tenuto conto delle raccomandazioni dell’Onu a esentare il reato di tortura dai limiti di prescrizione, esattamente come accade per il terrorismo o l’associazione mafiosa.
Sempre nel 2017 è diventata legge una versione annacquata del ddl presentato quattro anni prima dall’allora senatore del Pd Luigi Manconi, elaborato con le associazioni Antigone, A buon diritto e con il supporto di Amnesty International. Il testo, nella sua stesura iniziale, determinava la tortura come un “reato proprio”, quindi commesso da un pubblico ufficiale, e la definiva come “qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.
Il ddl, preciso nel seguire le indicazioni dell’Onu, nel corso di quattro anni di anni di calvario è stato sottoposto a tante modifiche e diluizioni da uscirne stravolto rispetto al senso originario. L’ostruzionismo più forte è stato quello dei partiti di destra e delle associazioni sindacali di poliziotti e Carabinieri, secondo cui la norma limiterebbe il raggio d’azione degli agenti (“Gli legherebbe le mani”) e li esporrebbe a “denunce strumentali da parte dei professionisti del disordine e dei criminali incalliti”.
Matteo Salvini, tra gli esponenti politici più attivi contro l’introduzione del reato, nel 2015 è sceso in piazza insieme al sindacato di Polizia di destra Sap: “Idiozie come questa legge espongono le forze dell’ordine al ricatto dei delinquenti”, ha detto in quell’occasione il futuro vicepremier.” Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi”. A sostenerlo si trovava anche il segretario del sindacato Sap e futuro deputato della Lega Gianni Tonelli: “Il reato di tortura porta con sé un pesante fardello di disprezzo ideologico, il desiderio mai sopito di ‘dare una lezione’ alle forze di polizia e agli operatori, una sorta di vendetta da parte di chi le divise non le ama e non le vuole”.
Di fatto, i due hanno vinto. Nel 2017 l’iter parlamentare ha talmente stravolto il ddl da non essere votato in Senato neanche dal suo primo firmatario Manconi, che lo ha definito un testo “mediocre” e “brutto”, incapace di definire veramente il reato di tortura e di ridurlo a un mero atto di crudeltà che può essere commesso da chiunque. Gli stravolgimenti più importanti sono stati tre. Il reato di tortura è passato da “proprio” a generico. Il fatto che a commetterlo sia un pubblico ufficiale (per esempio, un carabiniere) non è stato più considerato un elemento costitutivo del reato, ma solo un’aggravante. Peraltro, ad oggi, le imputazioni per il reato di tortura sono state ascritte e cittadini comuni (giovani autori di atti di “bullismo” e sevizie) e non a operatori di polizia. Inoltre, affinché ci sia tortura, adesso il fatto deve essere commesso mediante “più condotte”. In pratica, se qualcuno torturasse con il waterboarding una persona sottoposta a fermo una sola volta, potrebbe non venire incriminato. Infine sono stati tolti quei passaggi che allungavano i termini di prescrizione del reato. Dal 2017, contrariamente a quanto suggerisce la Corte di Strasburgo e la stessa Convenzione Onu, la tortura è un reato prescrivibile.
A opporsi alla nuova normativa sono stati anche i magistrati che si sono occupati dei processi riguardanti gli abusi durante il G8 di Genova, i quali hanno definito la legge “inutile”. I fatti di cui si sono occupati, hanno sostenuto, potrebbero “non essere punibili come tortura secondo la diversa e contrastante definizione che il Parlamento ha fin qui prescelto”.
Serve una nuova legge che introduca per davvero il reato di tortura in Italia, seguendo la definizione della Convenzione Onu e non quella di forze politiche che a volte possono apparire quasi conniventi con la violenza sistematica di alcuni membri delle forze dell’ordine. A giudicare dalle parole di questi giorni di Di Maio e Salvini, è difficile che quella legge arrivi adesso o nell’arco dei prossimi anni, forse per paura o per quella “sorta di complesso di inferiorità e sudditanza psicologica” dei partiti nei confronti delle forze di polizia, denunciata da Manconi. Un’altra possibile motivazione è che in questo periodo storico la battaglia di civiltà sul reato di tortura non rappresenti un vantaggio elettorale per nessun partito, tanto al governo quanto all’opposizione. Considerando le parole dei due vicepremier, il tabù è destinato a vivere ancora molto a lungo, decretando l’ennesima sconfitta del nostro ordinamento democratico.