Sono state centodiciotto le donne vittima di femminicidi in Italia nel 2021, di cui settanta avvenuti per mano del partner o ex partner, mentre dall’inizio del nuovo anno se ne contano già dieci, anche se il numero potrebbe essere sottostimato. Ieri, a Pontecagnano Faiano, in provincia di Salerno, è morta Anna Borsa, ragazza di trent’anni uccisa con dei colpi d’arma da fuoco dall’ex compagno all’interno del negozio di parrucchiere in cui lavorava. Queste sono notizie alle quali purtroppo ormai siamo avvezzi, cronache che purtroppo riempiono i telegiornali. A perdere la vita sono le donne, a toglierla gli uomini, spesso familiari e conoscenti.
Nel 2019 l’88,3% delle donne vittime di femminicidio sono state uccise da una persona conosciuta: quasi la metà dal partner e l’11,7% da un uomo con cui erano state legate in passato, il 22,5% da un familiare e il 4,5% da un conoscente, un amico o un collega. Come emerge dal report periodico dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale anche nel periodo che va dal primo gennaio al 22 agosto del 2021, su 178 omicidi registrati in totale, 74 hanno visto come vittime delle donne, di cui 65 uccise in ambito familiare o per mano di una persona che conoscevano bene. Di queste ben 46 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. Analizzando i dati sulla nazionalità dei soggetti interessati, infine, notiamo che il 79% degli autori sono cittadini italiani, così come più del 78% delle vittime, nonostante la retorica di destra cerchi sempre di far passare informazioni fuorvianti tentando di far montare un odio ingiustificato contro gli stranieri.
Nonostante il fenomeno sia endemico i media non hanno ancora imparato a parlarne nel modo corretto e soprattutto non esistono protocolli restrittivi per gli individui che mostrano atteggiamenti e attitudini violente e abusanti verso le proprie compagne o ex compagne. Il codice rosso – misura introdotta nel 2019, che impone alla magistratura e alle forze dell’ordine di dare priorità ai reati che rientrano nell’ambito della violenza domestica o di genere – che dovrebbe consentire una giustizia più rapida per le donne, non viene sempre applicato e non è stato in grado di arginare il fenomeno. Inoltre, le pene previste sono uguali a quelle dell’omicidio: la legge ha delle falle, manca la vera messa in sicurezza delle donne che denunciano e che continuano a dover attraversare un calvario giudiziario fatto di servizi sociali e case famiglia mentre il carnefice spesso resta comodo ai domiciliari.
Sul fenomeno dei femminicidi si è espressa anche la ministra per la Famiglia e le Pari Opportunità Elena Bonetti che rispondendo alle domande della stampa ha detto che solo con la piena parità di genere si potrà eliminare questa aberrante tragedia. Per la ministra è necessario il contributo di tutti: dagli enti locali alle forze dell’ordine fino al mondo della sanità. Ha detto che vanno sostenuti con convinzione i centri antiviolenza e che bisogna rendere strutturale il loro finanziamento, ma intanto il nuovo piano antiviolenza non è ancora stato rinnovato.
Il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne, ovvero il documento che illustra e coordina tutte le politiche di contrasto alla violenza di genere nel nostro Paese è infatti scaduto ormai più di sei mesi fa. Non è stato però rinnovato e non sembra fra le priorità del governo farlo dal momento che non è ancora stato nemmeno scritto un testo o un provvedimento che lo sostituisca. Una negligenza che pesa soprattutto sulle donne vittima di violenza e sui centri che se ne occupano, come sostenuto più volte da D.i.Re, la rete nazionale dei centri antiviolenza e delle case delle donne italiane, costrette a sospendere le attività già sostenute con estrema fatica e con una quota enorme di volontariato, mentre i femminicidi e le violenze sulle donne non accennano a diminuire. Sarebbe ora che il governo intervenisse, soprattutto perché vanta un’ampia convergenza politica.
La condizione della donna nel nostro Paese è evidentemente qualcosa di mediaticamente e politicamente sconveniente, qualcosa di cui occuparsi solo nella misura in cui diventa inevitabile o solo quando si tratta di criticare la condizione delle donne negli altri Paesi, e neanche più di tanto visto e considerato che l’Italia fa affari d’oro con Stati nei quali le donne non possiedo diritti fondamentali in tema di matrimonio, divorzio e tutela dei figli. E così, nell’anno in cui i talebani prendono il potere in Afghanistan e le donne diventano macchine per procreare, in Italia ne vengono uccise sette in pochi giorni e sempre da uomini. Sono vittime della stessa prevaricazione maschilista e della stessa volontà malata di dominio e possesso. Questo problema ha ormai i contorni dell’emergenza pubblica, ma nessuno fa niente.
Sono necessarie nuove leggi, che oltre a fare da deterrente tutelino le donne. Questo problema andrebbe affrontato contemporaneamente in vari ambiti e sotto vari punti di vista. Per quanto riguarda gli aspetti giuridici e logistici, ultimamente si è tornato a parlare dell’introduzione l’obbligo del braccialetto elettronico per chi riceve segnalazioni, oppure misure più restrittive come il divieto di soggiorno. Ma bisognerebbe anche istituire, oltre alle misure di sostegno dei centri antiviolenza, anche un reddito di autodeterminazione per uscire dalla violenza. Il lavoro da fare è tanto, lunghissimo e capillare, che parte dalla scuola, dall’educazione affettiva e sessuale con la necessità di smontare e decostruire l’immaginario che finisce per far accettare sotto una patina di romanticismo le relazioni violente.
Oltre che proteggere le donne bisognerebbe assistere gli uomini. Il padre di Vanessa Zappalà, la ragazza uccisa con sette colpi di pistola alla testa il 23 agosto scorso, ha detto che la figlia poteva essere salvata, con misure diverse, con una giustizia più tempestiva e ha sottolineato anche la necessità di centri di riabilitazione per gli stalker per tentarne il recupero. Antonio Sciuto, ex fidanzato e colpevole del femminicidio di Zappalà, era stato infatti già stato denunciato per stalking e Zappalà aveva ottenuto un ordine restrittivo, ma quei trecento metri di distanza non consentono certo un intervento delle forze dell’ordine in tempi utili, e soprattutto non sono bastati come deterrente per impedirgli di uccidere. Lo stesso Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, è intervenuto, affermando che occorrerebbero dei centri di riabilitazione con l’obbligo di frequentazione per monitorare gli stalker e tentare, nei limiti del possibile, di recuperarli dai loro disturbi, alcuni dei quali legati a problemi culturali e psicologici.
È fondamentale non disperdere gli investimenti per la rieducazione dei colpevoli – anche se spesso questi percorsi vengono seguiti perché di solito corrispondono a un vantaggio sul piano processuale – e cominciare ad affrontare la questione anche dal punto di vista maschile, con la volontà di risolvere un problema complesso, chiamando in causa modelli culturali radicati e interiorizzati per reciderne le radici.