Insegnare la parità di genere ai propri figli è il primo passo verso la creazione di una società più giusta
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Nella nostra società i bambini sono spesso terreno di scontro e di conquista fra gli adulti. Lo si capisce molto bene quando si parla di educazione e di scuola e quando si tenta di introdurre nelle ore di insegnamento temi come la parità di genere, l’uguaglianza e il rispetto per le differenze. In alcune città italiane genitori e sindaci sono infatti riusciti a impedirne l’introduzione, impugnando il diritto di far scegliere alle famiglie cosa, come e quando affrontare determinate questioni con i propri figli. Come se l’educazione all’uguaglianza fosse un’attività facoltativa alla pari dell’ora di religione, della seconda lingua o del nuoto, o ancor peggio qualcosa di oltraggioso da cui è lecito prendere le distanze. Ciò accade soprattutto perché ormai quando si nominano “parità” e “genere” nella stessa frase, si finisce inevitabilmente con l’evocare il fantasma della “teoria gender” e di tutte quelle tematiche incandescenti che riemergono ciclicamente nel dibattito pubblico quando qualcuno prova ad includere anche altri modelli socio-culturali.

Nel 2020 a Roma, la consigliera regionale della Lega Laura Corrotti è riuscita a far annullare l’evento di lettura di fiabe e racconti sull’inclusione organizzato e promosso dall’associazione Cittadini del mondo in alcune scuole della capitale. È stata anche la prima cosa fatta a Venezia dal sindaco Brugnaro (lo aveva messo nel programma elettorale) quando nel 2015, appena eletto mise all’indice pericolosi volumi come Piccolo uovo  e  E con Tango siamo in tre, un libro sulla famosa storia, vera, di un cucciolo di pinguino allevato da due esemplari maschi nello zoo di New York. La scrittrice Bianca Pitzorno denunciò su Facebook quanto accaduto a Carpi nel 2016 quando una coppia di genitori ha poi chiesto al preside di una scuola elementare di rimuovere diversi libri dalla biblioteca scolastica con l’accusa di propagandare la teoria gender e la stessa cosa è accaduta a Verona e a Pordenone. La cosa più eclatante è avvenuta però nel 2014, quando un gruppo di militanti di estrema destra fece irruzione in diverse librerie di Treviso, Trieste e Verona per intimare la rimozione di titoli accusati di essere anch’essi armi della fantomatica teoria.

La cosiddetta “teoria gender” e la parità di genere però sono due cose molto diverse. Tanto per cominciare la prima è un’invenzione della destra ultracattolica. Una teoria cominciata a circolare nel 2003 quando il Vaticano ha pubblicato il Lexicon, in cui fa la sua prima comparsa il concetto di “gender”, descritto come un cocktail di marxismo, estremismo femminista e perversione gay, e il cui scopo sarebbe quello di eliminare le differenze biologiche e confondere la mente dei bambini, per portarli ad abbandonare la propria identità sessuale in favore di un genere “indefinito”, minando così le basi della società retta sulla famiglia naturale. Anche se come è stato ampiamente dimostrato il “gender” inteso in questo senso non esiste, la teoria continua a fare proseliti nel mondo, tant’è che dal 2010 il movimento anti-gender ha riempito le piazze in Francia, Germania, Polonia, Croazia, Slovacchia e Italia, dove ha trovato terreno fertile fra le fila della destra e quelle della propaganda del Family Day e delle associazioni pro vita. Alcuni illustri sostenitori della sua esistenza sono per l’appunto Diego Fusaro, Simone Pillon, Mario Adinolfi – che l’ha paragonata al nazismo e al comunismo – Massimo GandolfiniGiorgia Meloni e Matteo Salvini

L’allarmismo suscitato dalla teoria gender è dovuto al fatto che mescola orientamento sessuale, identità, ruoli e stereotipi di genere con pregiudizi sessisti e omofobi, ottenendo esiti  che non hanno niente a che spartire con le reali ricerche prodotte nel campo accademico degli Studi di genere. Gli studi di genere, arrivati a fatica anche nel nostro Paese, sono nati in America fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta e fanno parte del campo degli Studi culturali. Ciò che hanno fatto emergere è che l’identità di genere non coincide sempre con il sesso biologico ed è anche una cosa diversa dall’orientamento sessuale. Mentre il sesso è l’insieme delle caratteristiche fisiche (genetiche, ormonali e anatomiche) che definiscono l’appartenenza a un determinato sesso, e l’orientamento sessuale è ciò che definisce l’attrazione sessuale o romantica di una persona verso altri individui, l’identità di genere è invece qualcosa di molto più complesso. È l’insieme delle costruzioni, determinate da variabili psicologiche e culturali, del proprio senso di appartenenza con il genere con il quale ci si identifica. Riguarda cioè la percezione che ciascuno ha di sé in base a quelle categorizzazioni che hanno attribuito nel tempo ai maschi e alle femmine specifiche caratteristiche (come forza e virilità per gli uomini, e dolcezza e sensibilità per le donne).

Tutti gli individui dovrebbero avere la libertà e la possibilità di scoprire ed esplorare la propria identità di genere, senza condizionamenti e senza sentirsi giudicati. Quello che in alcune scuole si è tentato di fare è stato introdurre, attraverso laboratori, giochi e letture, e soprattutto compatibilmente alla capacità cognitiva dei bambini, alcuni elementi affinché i bambini potessero essere in grado di esprimere senza timori o inibizioni la propria identità di genere.

Fare educazione di genere significa, ad esempio, leggere ai bambini e alle bambine storie non stereotipate senza principesse da salvare e principi coraggiosi, o lasciare che i bambini giochino con quello che preferiscono, e non con bambole e pentole se sono femmine e trattori e bulloni se sono maschi. L’educazione di genere dovrebbero seguirla anche i genitori e gli insegnanti, ad esempio per capire che ripetere costantemente a una bambina “non comportanti da maschiaccio” e a un bambino “piangere è da femminucce” avrà ripercussioni importanti – di solito dannose – sulla loro identità. Tutte queste cose, infatti, non fanno altro che perpetuare e rafforzare una visione rigida e distorta della realtà, in cui a tutti gli effetti non viene lasciato spazio all’esperienza di alcuni bambini, che così finiscono per crescere con la convinzione di essere sbagliati.

L’educazione di genere serve a creare una società più libera ed equilibrata, a creare individui più tolleranti e ad evitare che altri vivano la propria condizione con difficoltà, come qualcosa di problematico, solo perché non corrisponde a ciò che viene accettato e considerato come “normale”. Gli effetti drammatici di questi pregiudizi emergono spesso dalle cronache e dai casi di adolescenti che si tolgono la vita perché non si sentono capiti o perché presi di mira dai compagni in quanto diversi. L’eteronormatività è quella cosa che per tanto tempo ha portato insegnanti e genitori a dire “non si fa” quando vedevano ad esempio un bambino indossare abiti femminili e che tracciando una linea netta ha diviso il mondo in “noi” e “gli altri” producendo violenza e disuguaglianze. È un regime che agisce in modo repressivo sin da quando si è piccoli, mettendo di fatto ai margini una larga fetta di popolazione.

Le accuse che vengono mosse più spesso all’insegnamento della parità di genere, oltre a “confondere i bambini”, sono quelle di intromettersi nell’educazione dei genitori, cambiando i valori all’interno delle famiglie, ma se i valori di certe famiglie sono l’intolleranza e la paura del diverso forse sarebbe giusto che le istituzioni contribuissero a modificarle. Decostruire dannosi binari che si rivelano dannosi non è creare confusione,  serve invece a spezzare il circolo vizioso che produce il bullismo, la violenza di genere e l’omofobia. Si tratta di capire che all’uguaglianza si viene educati, proprio come si viene educati alla matematica, alla geografia o all’educazione civica. Tutte materie a cui nessun genitore verrebbe in mente di opporsi. L’educazione di genere è una tematica di cui devono necessariamente occuparsi le scuole, così come l’educazione sessuale, altra grande bistrattata dal nostro sistema. Anzi, è fondamentale che siano le scuole a fare perché è a scuola che si creano i cittadini del futuro e il suo compito deve essere quello di gettare le basi per una società inclusiva in cui nessuno venga escluso o si vergogni di essere quello che è.

In Spagna, a gennaio 2020, di fronte alla proposta del “Pin parental”, un documento promosso dal partito di estrema destra Vox che darebbe la possibilità ai genitori di negare il consenso alla partecipazione dei propri figli ad attività complementari nel caso in cui vadano “contro i loro principi morali”, la ministra per l’Uguaglianza, Irene Montero, ha parlato di censura educativa, affermando che anche i figli e le figlie di genitori omofobi hanno lo stesso diritto di tutti gli altri a essere educati al rispetto, alla promozione dei diritti umani e alla capacità di amare chi vogliono. Essere informati, infatti, è un diritto umano e i diritti vengono prima dei “credo”: per questo a nessun genitore e a nessuna associazione cattolica dovrebbe essere concessa l’arroganza di stabilire cosa deve e cosa non deve essere insegnato nelle scuole. Ma probabilmente basterebbe anche soltanto essere più consapevoli di quanto l’educazione dei bambini sia fondamentale, e capire anche quanto, e realmente, si voglia salvaguardare il loro benessere.

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