Un esperimento del ’68 mostrò che le nostre prestazioni dipendono da cosa gli altri pensano su di noi - THE VISION
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Il 4 aprile del 1968, il corpo privo di vita di Martin Luther King viene trovato sul balcone del Lorraine Motel di Memphis. A ucciderlo è stato un proiettile calibro 30-06, esploso da un fucile di precisione, che lo ha colpito in testa. L’omicidio del leader del movimento per i diritti degli afroamericani, premio Nobel per la pace nel 1964, è ciò che spinge Jane Elliott, educatrice antirazziale, femminista e attivista LGBT+, a condurre l’esperimento Blue eyes/Brown eyes, passato alla storia per aver spiegato il meccanismo della discriminazione e i sui effetti devastanti sull’autostima e le prestazioni dell’individuo.

Dr. Martin Luther King Jr., Washington DC, 1963

Al tempo dell’assassinio di King, Jane Elliott lavorava come insegnante in una scuola elementare di Riceville, una cittadina di mille abitanti nello Stato dell’Iowa. Per gli studenti di Elliott, tutti bianchi, il tema della discriminazione razziale era qualcosa di sconosciuto, che non li riguardava da vicino e che faticavano a comprendere. Il giorno dopo l’omicidio, Jane Elliott tenne in classe una lezione sul razzismo, ma presto si accorse di quanto fosse difficile guidare quei bambini verso una profonda comprensione di ciò che gli afroamericani pativano. “Potevo vedere che non stavano interiorizzando nulla. Facevano quello che fanno i bianchi.”, scrisse Elliott. “Quando i bianchi si siedono a parlare di razzismo, quello che fanno in realtà è condividere la propria ignoranza”. Elliott decise di dar vita a un vero e proprio esperimento: propose ai suoi studenti di provare sulla propria pelle cosa volesse essere discriminati per una caratteristica fisica, così da entrare in contatto con la realtà della segregazione e della discriminazione razziale.

L’esperimento si sviluppò attorno al paradigma del gruppo minoritario, con lo scopo di dimostrare agli studenti che qualsiasi piccola differenza tra loro – se usata come pretesto per assumere comportamenti ghettizzanti – avrebbe potuto scatenare forti reazioni emotive, sortire effetti sulle capacità cognitive e sulle prestazioni individuali, scatenare ostilità reciproca e spaccarli in due gruppi contrapposti: le vittime e i carnefici.

Il primo giorno dell’esperimento, Elliott si presentò in classe indicando tutti i bambini con gli occhi castani come “gruppo inferiore”. Agli studenti con gli occhi azzurri consegnò dei collari di colore marrone che avrebbero dovuto mettere al collo dei compagni con gli occhi castani come simbolo della loro “inferiorità”. Durante questa prima fase, per i bambini con gli occhi azzurri erano previsti dei privilegi: furono fatti sedere nelle prime file in classe – mentre chi aveva gli castani fu relegato in fondo –, ebbero diritto a una doppia razione di cibo a pranzo, fu concesso loro un intervallo più lungo e l’accesso alla nuova palestra dell’istituto. I bambini con gli occhi azzurri furono incoraggiati a giocare solo tra di loro, emarginando quelli dell’altro gruppo, cui fu intimato di non accedere alle zone riservate al gruppo “geneticamente” superiore. Al gruppo degli emarginati fu vietato di bere alla stessa fontanella dei bambini superiori: se avessero avuto sete, sarebbero stati costretti a utilizzare un proprio bicchiere e a bere solo con quello. Ma ad avere il maggiore impatto negativo sull’umore dei bambini del gruppo considerato inferiore furono le svalutazioni e le attestazioni di disistima che arrivavano dall’insegnante. Per tutto il giorno, Jane Elliott sminuì le capacità dei bambini con gli occhi castani, ribadì di non avere fiducia in loro, li scoraggiò nello svolgimento delle attività quotidiane e dei compiti, lodando al contempo le abilità superiori del gruppo contrapposto. I risultati arrivarono presto.

Se all’inizio i bambini con gli occhi castani mostrano resistenza nel convincersi che i loro compagni dagli occhi azzurri fossero migliori di loro, dopo poche ore si lasciarono persuadere dall’insegnante. Elliott, per rendere più efficace l’esperimento, spiegò che la melanina aveva un effetto diretto sull’intelligenza degli individui e sulla loro capacità di svolgere compiti e risolvere i problemi. Questa spiegazione, di pura fantasia, fu così convincente che i bambini del gruppo minoritario iniziarono a convincersene. Anche quelli che, in condizioni normali, mostravano un temperamento socievole e sicuro, cominciarono ad assumere comportamenti timidi, remissivi e di sottomissione verso i compagni del gruppo superiore. Presto iniziarono a manifestare insicurezza sia nelle relazioni con gli altri che nello svolgimento dei compiti e, a fine giornata, ottennero punteggi molto bassi  notevolmente al di sotto dei loro standard  nei test somministrati. Le loro prestazioni e  l’autostima erano crollate in poche ore a causa delle discriminazioni che avevano subito. Di contro, i bambini del gruppo maggioritario avevano assunto comportamenti sicuri, fiduciosi nelle proprie potenzialità, talvolta sconfinando in atteggiamenti spavaldi e arroganti – alcuni sembravano provare addirittura soddisfazione nel discriminare i compagni “inferiori”. “Ho visto quelli che erano stati bambini meravigliosi, cooperativi e premurosi trasformarsi in piccoli bambini di terza elementare cattivi, viziosi e discriminanti in uno spazio di quindici minuti”, dichiarò Elliott. Anche i più timidi rivelarono doti da leader e, grazie all’incoraggiamento dell’insegnante, riuscirono a svolgere i test e i compiti con estrema facilità, ottenendo punteggi più alti rispetto ai loro standard. 

Il giorno dopo, Elliott ribaltò la situazione, attribuendo ai bambini con gli occhi azzurri il ruolo di gruppo inferiore e discriminato. Le reazioni e gli effetti registrati confermarono ciò che l’insegnante prevedeva: al di là del proprio temperamento e delle capacità individuali, i bambini che venivano lodati e incoraggiati dagli altri erano capaci di prestazioni superiori rispetto a coloro che venivano ghettizzati e giudicati inferiori. Per riflettere sull’esperimento, Elliott chiese ai bambini di scrivere cosa avessero provato nel corso di quelle due giornate e cosa sentissero di aver imparato. 

Gli esiti dell’esperimento, insieme alle riflessioni degli studenti, furono pubblicati sul quotidiano locale Riceville Recorder, e costarono a Jane Elliott aspre critiche. In particolare, molti contestarono la scelta di sottoporre dei bambini così piccoli a un’esperienza che metteva così a dura prova la loro emotività e autostima e i cui effetti negativi avrebbero potuto perpetuarsi negli anni successivi. Ciononostante, i risultati ottenuti da Elliott, che dedicherà la sua vita al tema dell’educazione antirazziale e della sensibilizzazione verso ogni forma di intolleranza, furono di interesse planetario; l’esperimento fu riproposto più volte, nel 1970 alla presenza dei fotografi. Nello stesso anno, ABC produsse il documentario The Eye of the Storm su Jane Elliott e i risultati del suo lavoro di studiosa antirazziale. Nel 1985, il film A Class Divided raccontò gli effetti di Blue eyes/Brown eyes attraverso le voci dei protagonisti, ormai adulti ma memori di quell’esperienza. 

Jane Elliott in un fotogramma dal documentario “The Eye of the Storm”, 1970

I risultati dell’esperimento di Elliott servono ancora oggi per comprendere la pericolosità dei comportamenti discriminatori e di qualsiasi forma di emarginazione o ghettizzazione sociale – basate su pregiudizi o stereotipi – che procurano ferite profonde agli individui che ne sono vittime e sortiscono effetti devastanti sulla loro autostima. Blue eyes/brown eyes ha dimostrato che le nostre prestazioni, la nostra capacità di credere in noi stessi e di risolvere problemi dipende solo in minima parte delle nostre abilità o da un particolare talento su cui non abbiamo influenza diretta; al contrario, la buona riuscita delle nostre attività dipende in larga misura dal fatto che gli altri credano o meno in noi e nel nostro potenziale, e da quanto chi ci circonda ci sproni a far meglio o al contrario ci demoralizzi. Jane Elliott ha dimostrato che dire a qualcuno di essere inferiore, e trattarlo come tale, ha il potere di convincerlo che sia davvero così; per questo motivo chi è vittima di discriminazione o di comportamenti svalutanti, sia esso un individuo o un gruppo di persone che condividono la stessa condizione, sarà portato a convincersi di non valere nulla, a sviluppare atteggiamenti timorosi e insicuri, a sottomettersi agli altri e a non sentirsi all’altezza in ogni sfida che dovrà affrontare. Non è un caso che i giovani vittime di bullismo, emarginazione o discriminazione da parte di coetanei, o di comportamenti abusanti e maltrattanti da parte di adulti, sviluppino molto più frequentemente disturbi come depressione, angoscia e bassa autostima: il giudizio e l’atteggiamento degli altri interferisce più di ogni altra cosa sulla strutturazione dell’identità sociale e della personalità. Jane Elliott dichiarò di aver scoperto come potrebbe essere la società se tutti avvertissimo sulla nostra pelle le ferite della discriminazione, poiché i suoi studenti a fine esperimento dissero di sentirsi vicini gli uni agli altri “come in una famiglia”, condannando l’idea di infliggere agli altri la sofferenza sperimentata in prima persona.

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