Non interveniamo davanti alle tragedie altrui perché crediamo lo facciano gli altri, e sbagliamo - THE VISION

Il 29 luglio Alika Ogochukwu è stato picchiato a morte a Civitanova Marche sotto gli occhi dei passanti che, invece di tentare di intervenire in qualche modo attivo, pur essendo in tanti, sono rimasti a guardare e a filmare la scena, apparentemente indifferenti. Questo episodio di violenza non ci è estraneo: un evento di cronaca simile che fece molto scalpore negli anni Sessanta negli Stati Uniti vide coinvolta una ragazza, Kitty Genovese, che alla periferia di New York venne aggredita e infine uccisa da un uomo, tutto ciò mentre almeno 38 persone erano affacciate alle finestre delle proprie abitazioni senza intervenire. Le violenze si protrassero per più di mezz’ora e nessuno telefonò nemmeno alla polizia.                                                                          

Alcune delle spiegazioni del mancato intervento sul caso Ogochukwu parlano di razzismo e sessismo; altre, sul caso Genovese, parlarono di “condizione di anomia”, ovvero la mancanza di punti di riferimento e morali collettive che porterebbe a un indebolirsi del sistema di valori nella società contemporanea e renderebbe l’individuo sempre meno sensibile ai bisogni e alle esigenze altrui. Eppure, Latané e Darley, due psicologi della Columbia University, nel 1968, dimostrarono come queste interpretazioni del comportamento umano siano visioni troppo semplicistiche e affrontarono il problema in termini diversi, cioè partendo dal presupposto che fosse più importante studiare e indagare le relazioni che si instaurano tra gli “spettatori” invece delle caratteristiche della personalità dei potenziali soccorritori. Secondo i due studiosi, per spiegare fenomeni complessi come quelli implicati nell’offerta di aiuto sarebbero richiesti modelli articolati in più fasi.

Innanzitutto, il potenziale soccorritore deve rendersi conto che qualcosa di anomalo sta succedendo intorno a lui. Successivamente, una volta che l’evento è stato percepito, occorre che venga interpretato come una situazione d’emergenza – e purtroppo non sempre le situazioni sono strutturate in modo tale da permetterne una facile percezione. Quest’ultima fase richiede tempo e cautela, è necessario raccogliere tutte le informazioni per escludere possibili interpretazioni alternative. La decisione di intervenire comporta infatti un rischio personale, nonché la necessità di porsi al centro dell’attenzione nel caso sulla scena fossero presenti altri spettatori: se sul luogo si è da soli il problema non si pone, ma nel momento in cui altre persone assistono, la situazione si complica, non essendo più chiaro chi abbia la responsabilità di intervenire. Ci si pone poi il problema circa le modalità di intervento. Infine, se sono stati compiuti tutti i passaggi precedenti, le decisioni prese devono essere rese operative, ovvero trasformate in azioni concrete.

Per dimostrare come la presenza di altre persone possa inibire l’ispezione dell’ambiente e ritardare, se non addirittura impedire, la consapevolezza che qualcosa di anomalo stia accadendo intorno a noi e necessiti di un nostro possibile intervento, Latané e Darley, nel 1968, condussero il loro famoso esperimento su un campione di studio scelto tra gli studenti della Columbia. In laboratorio, ciascun soggetto fu invitato ad accomodarsi in una stanza e a compilare un questionario. Ciò che veniva manipolato era il numero dei partecipanti: alcuni soggetti, infatti, si trovarono da soli nella stanza, altri invece trovavano due “complici” degli sperimentatori, oppure due soggetti anch’essi ignari, ovvero semplicemente invitati a partecipare all’esperimento. Alcuni minuti dopo l’inizio della compilazione del questionario, in entrambe le condizioni sperimentali (da soli o in presenza di altri soggetti), attraverso una feritoia veniva fatto uscire un fumo abbondante e denso, ma non tossico. I risultati mostrarono come i soggetti che si trovavano soli nella stanza si accorsero nel 63% dei casi della presenza del fumo entro 5 secondi dall’emissione; nello stesso arco temporale, solo il 26% dei soggetti sperimentali, in presenza di altre persone, diedero segno di accorgersi che qualcosa di inusuale e anomalo si stava verificando. Questi dati spiegano come il semplice fatto di trovarsi in compagnia di altre persone possa inibire l’ispezione dell’ambiente che conduce all’identificazione di una situazione di pericolo.

Anche qualora le persone siano in grado di individuare la presenza di una situazione “atipica”, prima di intervenire è necessario che esse siano in grado di qualificarla come una situazione di emergenza. Le emergenze infatti sono situazioni inusuali rispetto alle quali le esperienze delle persone nel corso della loro vita sono minime o addirittura assenti e questo rende più complesso di quanto si potrebbe credere riconoscerle. Inoltre, le situazioni di emergenza sono costellate da elementi di ambiguità che complicano ulteriormente la loro analisi e il loro riconoscimento. Anche in questo caso, la presenza di altre persone influenza l’interpretazione di situazioni ambigue: ogni qualvolta una situazione si presenta aperta a molteplici interpretazioni, gli individui esaminano attentamente non solo la situazione in sé, ma osservano soprattutto le persone intorno a loro per cogliere informazioni sul modo in cui interpretano tale situazione. In questo caso si parla di “influenza informativa”: in una condizione di incertezza e di difficile interpretazione siamo più propensi a fare affidamento sugli altri, a considerare un’informazione proveniente da un’altra persona o da un gruppo di persone come prova di verità.

Immaginando che tutti i soggetti presenti si comportino in questo modo, impegnati nel tentativo di comprendere cosa stia effettivamente accadendo e cercando negli altri informazioni con cui interpretare la realtà, il risultato finale sarà una situazione di stallo e di non operatività. Questo fenomeno è stato denominato dalla psicologia sociale “ignoranza pluralistica”: poiché nessuno offre chiari indizi su come interpretare la situazione, la conclusione che viene tratta è che la situazione stessa non debba essere particolarmente drammatica o necessitante di intervento, perché se così fosse qualcuno darebbe sicuramente segni di agitazione e preoccupazione.   

Nell’esperimento di Latané e Darley, i due ricercatori, oltre a rilevare il tempo necessario per accorgersi della presenza di fumo, verificarono anche quanti soggetti nelle varie condizioni sperimentali si alzassero dalla loro postazione per andare a segnalare l’anomalia. I risultati mostrarono che i soggetti che si trovavano da soli nella stanza riportavano in misura significativamente superiore la presenza di fumo rispetto a quelli in compagnia di altre persone – il 75% contro il 38%. Questi ultimi non intervennero non perché la presenza degli altri fosse in qualche modo rassicurante o non gli interessasse il rischio di un potenziale incendio, ma perché la stessa presenza di altre persone li portava a negare l’eventualità di una situazione di pericolo. Dati contesti ambigui, il processo attraverso il quale le situazioni di gruppo possono sfavorire gli interventi di aiuto è quello dell’influenza sociale.

Gli avvenimenti intorno a noi vanno sempre decodificati. Le persone credono di essere completamente razionali e non influenzabili, ma la presenza di altri individui può invece incidere in maniera non indifferente sulla loro interpretazione (e il più delle volte non ne sono consapevoli): nel caso di una possibile emergenza, l’influenza esercitata dagli altri porta a ricostruire l’evento escludendo o minimizzando le sue componenti di pericolosità. Intervenire in una situazione di emergenza, poi, presenta indubbiamente dei costi, primo fra tutti il rischio per la propria incolumità fisica. In secondo luogo, può richiedere l’esecuzione di manovre e comportamenti mai realizzati in precedenza (come per esempio la respirazione bocca a bocca). Al netto dei costi che un intervento diretto comporta, le persone possono optare per strategie cognitive più semplici, ovvero dare un diverso significato a quanto sta accadendo.

Un altro importante fattore implicato nell’offerta d’aiuto è l’individualizzazione delle rispettive responsabilità. Un secondo meccanismo, oltre all’influenza sociale, in grado di ostacolare gli interventi di soccorso è la “diffusione di responsabilità”. Il concetto è molto semplice: un individuo che si trovi da solo a fronteggiare una situazione di emergenza dove è richiesto un intervento, alla domanda se tocchi proprio a lui intervenire non può che rispondere in modo affermativo, perché la colpa di un’eventuale omissione di soccorso sarà completamente sua. Nei casi in cui, invece, si è consapevoli della presenza di altri soggetti, la risposta diventa più problematica, dato che le persone, in situazioni di emergenza, sono più propense a ritenere che la responsabilità di intervenire ricada su qualcun altro. Laddove tutti condividono questo pensiero, la conseguenza è nuovamente una situazione di stallo e inazione generalizzata. Possiamo quindi affermare che, data una situazione di chiara e inequivocabile emergenza, la consapevolezza che altre persone stiano assistendo fa diminuire la responsabilità che ciascun individuo sente di doversi assumere, rendendo di conseguenza meno probabile prestare effettivamente aiuto.

Ci si domanda allora se e come sia possibile destrutturare questi meccanismi favorendo e incentivando un comportamento prosociale. Il primo step è, innanzitutto, accorgersi che qualcosa stia accadendo. Le persone sono spesso impegnate a gestire una vita frenetica e prestano poca attenzione ai segnali e ai contesti in cui si trovano, è dunque necessario promuovere l’esercizio dell’osservazione, sensibilizzandole a riconoscere le situazioni nelle quali la presenza di altri spettatori inattivi possa generare una condizione di ignoranza pluralistica, riconoscere pertanto le situazioni emergenziali al fine di ridurne l’ambiguità. Conoscere e riconoscere tali meccanismi è un primo tentativo per poterli affrontare e superare. Una seconda strategia è quella di assumersi la responsabilità dell’aiuto nel caso in cui notassimo o interpretassimo un evento come una situazione di emergenza: sentirsi responsabili e sentire che prendersi cura degli altri è un dovere che ci riguarda personalmente conduce a una maggiore probabilità di intervenire.

Le persone apprendono le norme sociali e strutturano la loro identità nei contesti in cui sono inserite e attraverso l’interazione con gli altri: impegnarsi in attività che svolgono funzioni di servizio, oltre a permetterci di imparare ad agire prosocialmente, ci permette anche di introiettare norme che servono da guida per affrontare le diverse situazioni quotidiane che ci si propongono. Quando il contesto sociale veicola tali norme, e le persone si sentono parte significativa di quella comunità, questa appartenenza incoraggia l’adozione di comportamenti di solidarietà e di aiuto, anche e soprattutto in situazioni di emergenza in cui è richiesto intervento immediato. Alcune ricerche hanno dimostrato che esiste una correlazione diretta tra senso di comunità e varie forme di impegno sociale e civico, primo fra tutti il cosiddetto Volunteer Process Model, che ha messo in relazione attività di volontariato e senso di comunità. Quest’ultimo – in quanto legame di appartenenza, connessione e investimento tra membri di uno stesso gruppo – sembra avere effetti positivi e di rinforzo sull’azione prosociale, incrementando sentimenti di sostegno, responsabilità e intervento collettivo.

È importante educare a un’azione collettiva affinché si superino quel senso di pericolo e minaccia che subentrano nei casi di soccorsi individuali. Inoltre, spesso le persone, nonostante l’intenzione di aiutare, finiscono per non prestare soccorso perché nel decidere come farlo si sentono confuse e capaci di riuscire effettivamente a compiere ciò che ritengono sia necessario. Per questo motivo sarebbe importante prepararsi preventivamente, imparare come e a chi rivolgersi in casi di emergenza per ottenere aiuto laddove non ci si sente in grado di prestarlo direttamente. In questo periodo storico, e all’interno di un tessuto sociale tanto eterogeneo, è necessario più che mai rafforzare la risposta empatica, in particolare in adolescenza e nella prima età adulta, momenti ottimali se non addirittura esclusivi per intervenire su questa dimensione.

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