Venerdì 20 settembre, 4 milioni di persone – di cui la maggior parte studenti – hanno marciato in 185 diverse nazioni per chiedere misure più efficaci contro il cambiamento climatico. Secondo le stime ufficiali, si è trattato della più grande manifestazione per il clima nella storia del movimento ambientalista. Le iniziative sono proseguite il venerdì successivo per l’evento finale, che si stima abbia portando in piazza altri due milioni di persone in tutto il mondo.
I Fridays for Future, con la loro presenza continua nel discorso pubblico, sembrano ormai una realtà del nostro presente. È difficile pensare che un movimento di queste dimensioni abbia avuto origine solo 13 mesi fa, con lo sciopero di una singola ragazza di 15 anni nel cuore della Svezia.
Eppure, Greta Thunberg è oggi il volto di un’iniziativa globale fatta di giovani attivisti, tanto rilevante da poter parlare liberamente all’Assemblea delle Nazioni Unite, accusando i leader mondiali per la loro inettitudine nell’affrontare il cambiamento climatico. Sarebbe già notevole se Thunberg fosse stata un’adulta con alle spalle un’esperienza e una credibilità consolidate, il fatto che non sia nemmeno grande abbastanza per votare rende la sua storia quanto mento straordinaria.
Non deve risultare strano, quindi, che la sua figura abbia creato una vera e propria polarizzazione nell’opinione pubblica, tra chi è affascinato dalla sua storia e dalla passione per la battaglia che combatte e chi, invece, prova diffidenza nei suoi confronti – con parole spesso anche apertamente ostili. In particolare, Greta Thunberg e i giovani attivisti dei Fridays for Future sembrano avere un particolare effetto su un determinato gruppo demografico – composto in generale da maschi di mezza età tendenzialmente conservatori.
In Italia, le manifestazioni hanno contribuito a sollevare – oltre a un dibattito sul clima – altre questioni convergenti, come la proposta dell’ex premier Enrico Letta di estendere il diritto di voto ai sedicenni – e quindi il discorso più generale del ruolo e delle responsabilità dei giovani nella società. L’idea di Letta – che appare quantomeno strumentale ai fatti di cronaca del momento – ha già provocato qualche perplessità anche interna al Partito Democratico, come nel caso della Deputata Giuditta Pini, che ha fatto notare come questa proposta non estenda però altri diritti e doveri agli interessati.
Letta però non è il primo che sembra utilizzare il fenomeno degli scioperi per il clima in modo vagamente strumentale. In tempi non sospetti, quando la figura di Greta Thunberg non era ancora nota come oggi in Italia, il neo eletto segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti aveva dedicato proprio la sua vittoria del 4 marzo scorso a lei e ai giovani attivisti che la seguivano.
Zingaretti ha da allora trasformato il suo sostegno per la causa ambientalista in una vera e propria bandiera, riciclando sia la retorica e l’attivismo dei Fridays for Future che il Green New Deal dei socialisti americani – un’altra iniziativa che ha il volto di una giovane donna, Alexandria Ocasio-Cortez.
La ragione di questo interessamento è facile da immaginare. L’attenzione dell’opinione pubblica per l’ambiente e il clima è ai massimi storici al momento, soprattutto tra gli elettori più giovani. L’improvvisa crescita dei Verdi alle ultime elezioni europee e la partecipazione di circa un milione di persone ai Fridays for Future italiani di venerdì scorso fanno pensare che ci sia un importante fetta della popolazione particolarmente sensibile a questi temi. Per questa ragione, la priorità della politica sembra essere, al momento, quella di avvicinare quell’elettorato alla propria piattaforma per un ritorno elettorale.
È però interessante notare come, in questi ultimi sette mesi, il Partito Democratico abbia fatto ben poco per proporre qualcosa di tangibile a cui questi attivisti si possano avvicinare. La parola “green” ricorre spesso nei comunicati e nelle interviste dei due partiti all’interno della maggioranza, ma è difficile farsi un’idea di quali siano effettivamente le policy proposte in materia economica ed energetica. Questo sembra però essere un problema comunicativo che altri Paesi europei stanno affrontando al momento.
Lo stesso Green New Deal americano ha raccolto nell’ultimo anno diverse critiche, anche dal mondo scientifico, per la sua vaghezza d’intenti e la difficoltà a prendere in considerazione risorse storicamente impopolari tra gli ambientalisti, come l’energia nucleare. La ragione, probabilmente, è che mantenere il discorso su un piano generale aiuta a non scontentare gli eventuali interlocutori, da sempre diffidenti nei confronti di certe soluzioni.
I politici italiani che sostengono il movimento di Greta Thunberg, quindi, sembrano al momento preoccupati esclusivamente di poter utilizzare il suo “brand” per ragioni di consenso. Le lodi ai giovani attivisti, che si intensificano durante gli scioperi, non sono mai seguite da proposte, programmi o iniziative reali. In tutto questo, il mondo accademico delle università italiane resta alla finestra, stranamente poco interessato a questo fenomeno sociale rispetto ai suoi corrispettivi stranieri.
Se quindi una parte dell’opinione pubblica – di cui fanno parte anche alcuni accademici – tratta il fenomeno dei Fridays for Future come il prodotto di un gruppo di ragazzini manipolati – e non ci sono prove che lo siano – un’altra parte sembra solo interessata a lodare il movimento in modo strumentale, responsabilizzando nel processo i ragazzi senza fornire loro e concretizzare gli strumenti per poter affrontare la questione del cambiamento climatico al di fuori delle manifestazioni pubbliche.
Il rischio, per un’iniziativa come quella nata dall’attivismo di Greta Thunberg, è infatti quello di banalizzare il dibattito, perdendo un’importante occasione di cambiamento. Di fatto, quello che i giovani attivisti chiedono è una presa di responsabilità da parte degli adulti. Nel loro sito non c’è nulla che possa essere considerato come un piano di decarbonizzazione a lungo termine. Quello che viene ripetuto costantemente da Greta Thunberg, nei suoi discorsi pubblici, è quello di ascoltare “la scienza” e “gli scienziati”.
“La stragrande maggioranza [dei membri] non ha ancora finito il primo ciclo di studi. Per buona parte siamo studenti delle superiori” spiega un ragazzo di 19 anni, tra i primi organizzatori delle manifestazioni dei Fridays for Future di Livorno. “Noi non possiamo avere un ruolo propositivo. Non spetta a noi. […] Sarebbe sbagliato, perché di fatto non abbiamo né le conoscenze né le competenze adatte. […] Ognuno ha un ruolo, e il nostro è quello di essere dei megafoni per la scienza”.
Questa fede nella scienza come un’entità super partes in grado di guidare la società nella transizione energetica ed ecologica è però, secondo Darrik Evensen dell’Università di Edimburgo, alla base del limite retorico del movimento. La scienza è uno strumento che usiamo per comprendere la realtà. Non fornisce necessariamente soluzioni ai problemi che stiamo affrontando nell’immediato presente, perché le dinamiche umane sono legate a ragioni di tipo culturale, economico e geopolitico.
La lotta al cambiamento climatico è fatta di necessari trade off, compromessi con i Paesi coinvolti e scelte sia normative che politiche. Il discorso sul clima dovrà prendere in considerazione non solo la realtà del cambiamento climatico con le sue soluzioni offerte, ma anche temi di giustizia sociale legata al clima, di diplomazia con gli altri Paesi – soprattutto quelli in via di sviluppo – e di rappresentanza delle voci marginalizzate – come lo sono anche i ragazzi che marciano ogni venerdì per il clima e il loro futuro, ancora troppo giovani per votare.
Le scelte future a lungo termine dovranno quindi essere messe sul tavolo da politici, policy makers ed esperti e non dagli attivisti, che comunque sembrano avere già ben chiaro il loro ruolo rispetto ai loro interlocutori. La funzione delle manifestazioni non è quella di dire agli adulti come affrontare il cambiamento climatico, ma sembra più che altro un’azione utile e necessaria per segnalare l’evidenza del problema e la sua urgenza e permettere inoltre ai giovani partecipanti di riconoscersi in un gruppo, a memoria del fatto che, anche nella catastrofica prospettiva di non poter influenzare il corso degli eventi, non sono soli.
Partecipare così giovani ad attività di impegno civico e volontariato getta le basi per una comunità di adulti responsabili, solidali e consapevoli. Questo tipo di attivismo dovrebbe essere incoraggiato e guidato, non certo denigrato o sfruttato in modo vuoto per un tornaconto elettorale. Greta Thunberg, in fin dei conti, è solo una sedicenne che ha a cuore una tematica importante. Il suo linguaggio è in linea con il modo di vedere il mondo di un adolescente con tutti i limiti e le potenzialità che questa cosa porta con sé, ma non per questo è sbagliato. Il cambiamento climatico, comunque lo si guardi, è una preoccupazione reale.
Dagli “adulti” ci si aspetterebbero idee e proposte per guidare questa grande mobilitazione sociale in azioni effettive. Invece, queste persone si scagliano contro di lei e quello che rappresenta – o si nascondono nella sua ombra, negando le proprie responsabilità.