Il tirocinante sfruttato è ormai entrato nell’immaginario collettivo di un’intera generazione. Basti pensare a film come Gli Stagisti di Shawn Levy o a pezzi satirici come la canzone Unpaid Intern di Bo Burnham. In Italia, la serie TV di culto Boris vede come protagonista Alessandro, uno stagista sottopagato di un set televisivo che, episodio dopo episodio, arriva ad accettare un sistema che inizialmente avrebbe voluto combattere. Un’accettazione che sa più di rassegnazione davanti alla mancanza di alternative, per Alessandro come per centinaia di migliaia di giovani, soprattutto italiani, che ogni anno si trovano nella sua stessa situazione.
Innanzitutto, è bene ribadire che stage e tirocinio sono sinonimi, traduzioni differenti (dal francese o dall’italiano) della parola inglese internship. La differenza significativa nel nostro ordinamento sta invece tra l’apprendistato e lo stage. Il primo è un vero e proprio contratto di lavoro che, salvo recesso o licenziamento, dovrebbe trasformarsi poi in un contratto a tempo indeterminato. L’apprendista è seguito da un tutor e il percorso mira a formare figure specializzate. L’apprendista ha diritto a uno stipendio e, in base al contratto, alla tredicesima e alla quattordicesima. Il tirocinio, invece, non è un contratto di lavoro formale e non garantisce neanche i fondamenti minimi di un qualsiasi welfare aziendale. Giorni di malattia, ferie, permessi di maternità o di paternità sono previsti dal contratto di apprendistato, ma non dal tirocinio. Eventuali assenze devono quindi essere concordate con il datore di lavoro, andando a creare un’asimmetria di potere enorme. Se come sostengono i giuslavoristi Antonio Aloisi e Valerio De Stefano lo scopo del diritto del lavoro è “razionalizzare, limitare e costituzionalizzare i poteri datoriali”, nel tirocinio vediamo come questo equilibrio venga totalmente a mancare. Il tirocinante è infatti costretto a lavorare per acquisire esperienza o per adempiere a degli obblighi universitari, mentre il datore di lavoro è sostanzialmente libero di gestire il lavoratore a piacimento, poiché quest’ultimo è privato delle tutele dei regolari contratti. Ma una cosa è fare la cosiddetta gavetta, un’altra è essere sistematicamente sfruttati come accade oggi in Italia.
Il tirocinio si divide in curricolare, se attivato in partnership tra l’azienda e un’università o un altro ente competente, ed extra-curricolare, se svolto al di fuori dei precedenti canali. In base alla normativa italiana, il tirocinio extra-curriculare deve essere retribuito. Il livello minimo di retribuzione varia da regione a regione: 800 euro nel Lazio, 500 in Lombardia, 300 in Sicilia. Facendo una media tra i vari sistemi regionali, ci si assesta intorno ai 450 euro mensili. Una cifra che potrebbe anche andar bene se, in seguito a pochi mesi di tirocinio e a un adeguato percorso di formazione guidato da un tutor, seguissero l’assunzione e l’aumento di stipendio, con tutte le garanzie che un vero contratto di lavoro include. Il problema è che questo nella maggior parte dei casi non avviene. I tirocini vengono utilizzati dalle aziende e dalle istituzioni come strumento per pagare poco o niente i lavoratori, limitando al minimo i costi. Basta cambiare un tirocinante dopo l’altro, di sei mesi in sei mesi, senza mai assumerne uno. Zero spese o quasi, massimo sfruttamento. In questo modo i tirocinanti passano di stage in stage, in una vita che è sempre più fatta di precarietà, costante reperibilità e insoddisfazione per un lavoro che diventa privilegio. Il tirocinio dovrebbe essere una parentesi nella vita del lavoratore, un momento di formazione di massimo un anno (come prevedono le Linee guida governative del 2017) a cui segue l’assunzione e l’ingresso a tutti gli effetti nel mondo del lavoro. Ma nella realtà dei fatti diventa un sistema di precarietà normalizzata e necessaria per tutti quei giovani (e sempre più spesso anche meno giovani) che non trovano alternative per acquisire esperienza.
A fianco dei tirocini extra-curricolari vi sono quelli curricolari, che invece per legge possono non essere retribuiti. Essendo poi il rimborso spese facoltativo, il più delle volte gli studenti sono addirittura costretti a sostenere le spese per i trasporti e i pasti, trovandosi nella situazione di dover pagare per lavorare. Potenzialmente, i tirocini universitari sarebbero uno strumento prezioso. Da una parte forniscono allo studente una formazione molto più completa, che va al di là della teoria dei libri di testo. Dall’altra parte sono uno degli strumenti più efficaci per entrare nel mercato del lavoro e inserirsi in un contesto aziendale. Purtroppo, questo vale molto spesso solo in teoria o nelle zone economicamente più virtuose del Paese, dove si vanno a creare collaborazioni proficue tra università e aziende. Nella maggior parte dei casi, però, i tutor universitari se ne disinteressano e nessuno all’interno delle aziende si preoccupa seriamente di seguire il percorso formativo dei tirocinanti.
A questo si deve aggiungere la mancanza di sistemi di monitoraggio e di verifica per i periodi di tirocinio, spesso trattati con superficialità dalle stesse università. Questo conduce a una mancanza di dati e informazioni sul tema. Se, per esempio, gli ultimi numeri disponibili indicano che nel 2019 erano stati attivati 355.802 tirocini extra-curricolari, non vi sono numeri ufficiali ma solo stime per i tirocini curricolari. Secondo Eleonora Voltolina de La Repubblica degli Stagisti, per esempio, questo numero potrebbe variare tra i 150mila e i 200mila all’anno, per un totale di 500mila giovani precari che, ogni anno, vengono sfruttati per ricevere in cambio poco o niente.
La mancanza di dati è problematica sotto più punti di vista. Innanzitutto, comporta la difficoltà nel comunicare il problema all’opinione pubblica. Se infatti mancano stime ufficiali aggiornate, difficilmente il problema dei tirocini può essere trattato dai media, diventare argomento di discussione ed essere affrontato dalla politica. In secondo luogo, è difficile agire su un problema di cui non si conosce esattamente l’estensione. Senza dati non si può che fare affidamento sulle storie personali, come ha fatto su Instagram Possibile o la pagina “Lo stagista frustato”, che hanno raccolto varie testimonianze quotidiane di tirocinio e sfruttamento. C’è chi ha passato tutta la vita a svolgere lavoretti per pagarsi il master per poi arrivare a trent’anni a passare da uno stage all’altro, senza possibilità di raggiungere alcuna forma di stabilità. C’è chi lavora 11 ore al giorno per 500 euro al mese, con la formazione prevista dal tirocinio che viene accantonata e che si limita ai superiori che consigliano di formarsi “guardando video su YouTube”.
Tutto ciò è segno di un sistema economico arretrato, provinciale e incapace di guardare sul lungo periodo. Il tirocinante, infatti, è un lavoratore che ha necessariamente scarse competenze. Un’economia fatta di stagisti (non) formati da diverse aziende, precari e sfruttati, non può che essere un’economia a basso rendimento e bassa produttività, incapace di reggere la competizione con gli altri Paesi sullo scenario internazionale. Non è un caso che tra i maggiori Paesi europei l’Italia è quello in cui la produttività è aumentata meno rispetto al 2015. La sfida per un’economia moderna e competitiva, veramente al servizio delle persone e non del mero profitto, passa prima di tutto da un lavoro di qualità, che necessita di investimenti in formazione e nel capitale umano, cosa che un sistema di sfruttamento di massa come il nostro non può assolutamente garantire.
Un’intera generazione cresciuta a tirocini e lavoro gratis non potrà mai trovare stabilità economica e lavorativa, andando a esacerbare alcune tendenze negative che rischiano di compromettere il tessuto democratico del nostro Paese. L’impossibilità di avere un lavoro stabile e ben retribuito, infatti, comporta un sempre maggior ritardo nella costruzione di una vita autonoma da parte dei giovani. A volte, nonostante la volontà sia presente, è semplicemente impossibile dal punto di vista economico andare a vivere da soli, o mettere su famiglia con il proprio partner. Secondo Eurostat, l’Italia è il Paese dopo la Croazia e la Slovenia in cui i giovani diventano autonomi ed escono di casa più tardi, intorno ai trent’anni. Questo aggrava gli indici di denatalità. Le stime per il 2021 parlano di circa 400mila nuovi nati (rispetto al milione degli anni Sessanta). Se questi numeri fossero confermati anche nei prossimi anni e non ci fossero consistenti nuovi ingressi in termini di immigrazione, la popolazione italiana rischierebbe quasi di dimezzarsi nell’arco di un secolo, con conseguenze catastrofiche sul sistema previdenziale e sociale. Tirocinanti sfruttati e sottopagati sono poi sempre più delusi e amareggiati, fino a perdere la fiducia nelle istituzioni e in un sistema politico che negli ultimi anni è stato silenzioso spettatore se non complice della precarizzazione del lavoro. Aumenta la sfiducia e cresce la rabbia, con il rischio che quest’ultima venga canalizzata verso il capro espiatorio di turno da parte di leader politici demagogici e sempre meno democratici.
Esistono però alcune proposte per invertire questa tendenza. La più discussa oggi è quella presentata dall’onorevole Chiara Gribaudo del Pd alla Camera dei deputati, ed elaborata dai Giovani Democratici di Milano. La proposta prevede una riforma dell’attuale sistema. Il tirocinio curricolare e quello extra-curricolare andrebbero accorpati, limitandoli esclusivamente al percorso formativo o ai mesi immediatamente successivi, come suggerito dalla proposta di legge depositata alla Camera del deputato di Italia Viva Massimo Ungaro. Il tirocinio dovrebbe durare al massimo 3 o 6 mesi in base al tipo di funzione, e dovrebbe essere obbligatoriamente retribuito. Questo permetterebbe di evitare l’incessante pendolo da uno stage all’altro a cui molti giovani, oggi, sono costretti. Andrebbe poi rafforzato l’apprendistato, che diventerebbe lo strumento principe per inserire i giovani nel mondo del lavoro. Le procedure burocratiche andrebbero snellite e, allo stesso tempo, si dovrebbe agire per garantire maggiore stabilità al lavoro con un sistema di decontribuzione crescente (con lo sgravio che aumenta all’aumentare della permanenza dell’apprendista) e promuovendo un sistema di formazione che metta al centro la crescita del lavoratore.
Una classe dirigente degna di questo nome, con a cuore il futuro del Paese e delle prossime generazioni, dovrebbe concentrarsi su misure simili, discutendone e migliorandole con il contributo di tutti. Il fatto che la maggior parte dei rappresentanti alla Camera e al Senato siano invece attualmente impegnati a discutere dell’ultimo post di Fedez o del conto corrente del leader di un partito all’1,5 %, è invece segno della mancanza di lungimiranza di chi ci rappresenta a livello nazionale. Una classe dirigente che, salvo poche eccezioni, riesce a guardare solo ai 15 minuti di celebrità sui social o al proprio tornaconto elettorale, con battaglie di posizionamento che non servono ad altro che rimanere a galla in una politica sempre più mediatizzata, sempre più ripiegata su se stessa e lontana dai reali bisogni delle persone. Soprattutto di quelle che hanno meno di 35 anni.