La maternità surrogata è un tema di cui dobbiamo parlare. Senza preconcetti.
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La cosiddetta “gestazione per altri” (GPA) è indubbiamente una di quelle tematiche complesse che apre molte problematiche circa la sua legittimità e la sua gestione. In Italia al momento è vietata dall’art. 12 comma 6 della legge n. 40/2004 e, a oggi, non ci sono proposte di legge in merito, ciononostante è importante rifletterci e documentarsi per sviluppare un’opinione fondata, proprio perché va a toccare il tema cardine del rapporto tra Stato e corpo e in particolare tra legislazione e corpo della donna. Viene infatti presa in oggetto la maternità, un momento estremamente delicato e particolare per la donna, e si propone di scardinarne il tradizionalismo unimaterno e di estendere il concetto di madre a una visione triplice: una madre genetica, che potrebbe donare l’ovulo, una gestazionale, che porta avanti la gravidanza, e una sociale, che si occuperà poi del figlio. Il tema si pone all’interno della questione della procreazione medicalmente assistita (PMA), regolata in Italia dalla Legge 40, in quanto nella maggior parte dei casi una gestazione surrogata prevederebbe un’inseminazione artificiale, frequentemente da donatori esterni alla coppia che poi costituirà la famiglia sociale del neonato. Quindi, con l’innovazione tecnologica attuale, alla nascita di un bambino potrebbero partecipare, potenzialmente, cinque persone diverse: un donatore di sperma, una donatrice di ovuli, una gestante surrogata e i due genitori che saranno poi i tutori veri e propri del figlio. Ancor più di altre conquiste della scienza, la GPA è un tema dove la legislazione e la discussione politica ed etica sulla sua regolamentazione non sono riuscite ad andare di pari passo al progresso tecnologico. È un complesso argomento bioetico che ci pone davanti a numerosi interrogativi su quale sia la reale visione della persona che porta avanti la gravidanza e sul valore che diamo al corpo.

La posizione bioeticista cattolica, ovviamente, ripudia questa tecnica, prevedendo un progressismo e uno stravolgimento del concetto di famiglia che va oltre i canoni religiosi tradizionali accettabili – piuttosto stretti, come sappiamo. Tuttavia, è interessante notare come sia uno dei pochi casi in cui Chiesa, alcune frange femministe e molte associazioni LGBTQ+, per quanto riguarda la maggioranza delle opinioni, si trovino d’accordo sul no categorico, “contrario alla mercificazione e alla riduzione della persona a oggetto”. Ad esempio, Serena Sapegno di Snoq Libere, ha affermato che “L’utero in affitto è una violenza verso le donne e i bambini”, e ha poi continuato sminuendo la visione della donazione e l’autodeterminismo emancipatorio della GPA, e chiedendo provocatoriamente se la legittimazione della schiavitù possa scaturire dalla volontà della donna stessa di essere schiava. Sottolinea che il dono non abbia niente a che fare con questa pratica e che si tratti di un enorme mercato, creato da una visione capitalista e patriarcale della società per cui i soldi possono sempre essere un mezzo che legittima qualsiasi tipo di servizio reso. Secondo questo filone analitico della questione, l’uomo e la donna non avrebbero lo stesso peso all’interno di un “contratto” simile, in quanto quest’ultima darebbe molto più alla realizzazione della pratica rispetto a un uomo, il cui unico scopo sarebbe di donare lo sperma e di perpetuarsi come genere suprematista.

Questa idea è l’unica che giustifica l’uso del termine colloquiale “utero in affitto” che, sfortunatamente, è quello mediaticamente più utilizzato e più conosciuto dalla maggior parte della popolazione, e che spesso basa il suo giudizio sul tema proprio su un concetto di “locazione” dell’utero della donna, come fosse una sala congressi o uno spazio per organizzare feste e che in primis sminuisce quella donna della quale teoricamente si prefigge di difendere la dignità. Questi modi di vedere la questione sono del tutto giustificati se continuiamo a chiamarla volgarmente con un nome che fa riferimento soltanto alla mercificazione della donna e alla sua riduzione a “spazio” corporeo. Già iniziare a definire la pratica come gestazione per altri o maternità surrogata fa decadere la centralità dell’oggettivazione della gestante coinvolta e la rende più neutra. Innanzitutto, quindi, dovremo iniziare a riferirci a questioni così complicate con termini univoci, scientifici e che non creino una spinta persuasiva nell’influenzare indirettamente l’opinione comune.

Il mondo femminista italiano si trova spaccato in due sulla questione, con la maggioranza in accordo con la Chiesa e l’altra che enfatizza la necessità di legittimare la libertà personale di chi viene coinvolto in scelte così intime. Non c’è giustizia nel decidere di precludere ad altri esseri umani la possibilità di fare ciò che vogliono con e del proprio corpo, finché non arrecano danno agli altri o a se stessi, e questa pratica, se ben svolta, non è lesiva. Non è comprensibile che sia accettata una visione pro-choice sull’aborto se, allo stesso tempo, non viene consentito di essere pro-choice anche sulla GPA.

Il ruolo del dibattito oggettivo e onnicomprensivo è imprescindibile affinché emergano le problematiche relative al possibile e reale sfruttamento delle gestanti che potrebbe, di fatto, avvenire, e avviene già in alcuni Paesi dove la condizione della donna e di tutti gli aspetti che la coinvolgono è ancora profondamente involuta. Una volta evidenziate le criticità della questione, una legge equa per tutte le persone coinvolte e che abbia uno spirito liberalista e di scelta è essenziale. Questo perché vietare la pratica, come attualmente avviene Italia, è proprio quello che produce il possibile sfruttamento nei confronti delle donne di altri Paesi in via di sviluppo o più permissivi, che se una volta erano mete di turismo sessuale oggi sono considerate anche mete di turismo procreativo.

Una diseguaglianza legislativa e politica mondiale su una tematica così complessa, infatti, fa sì che si creino situazioni per cui la gestante può finire davvero ridotta a oggetto. Una regolamentazione unica, equa e consapevole eliminerebbe questa forma di turismo, che può potenzialmente enfatizzare, oltre all’ottica “schiavista”, anche una visione razzista nei casi in cui, per risparmio economico, vengono scelte alcuni tipi di mete più economiche rispetto ad alcuni Stati Uniti, ad oggi unico luogo dove le leggi sulla questione garantiscono una protezione idonea alla gestante e non solo.

In una serie di Paesi come Kenya, Malesia o Nigeria, la pratica è diventata legale ma non c’è ancora una legge formale al riguardo, nonostante a volte ci siano certe formule di tutela stabilite o la regolamentazione sia in discussione. I soprusi che ne possono derivare arrivano a condizioni di schiavismo vero e proprio, come nel caso della recente scoperta della “fabbrica di bambini” di Lagos, dove 19 donne sono state liberate da alcune abitazioni dove venivano sistematicamente stuprate in modo da farle restare incinte. Spesso venivano portate lì con il falso pretesto di iniziare un nuovo lavoro. I neonati erano poi venduti a 1400 dollari se maschi o 830 se femmine; ma non è ancora chiaro chi fossero gli acquirenti. Legislazioni non definite aprono l’inevitabile strada della non eticità non solo per la gestante, ma anche per i diritti degli aspiranti genitori, non reperendosi ancora contratti specifici, in grado di tutelare adeguatamente tutte le parti coinvolte. Infatti, vi sono stati casi in cui la gestante, dopo il parto, si è rifiutata di dare il neonato a quelli che avrebbero dovuto essere i genitori sociali, nonché quelli i cui gameti erano stati utilizzati per la procedura, andando contro agli accordi stipulati e non rispettando i diritti della coppia.

All’interno della GPA possiamo riconoscere una Commercial Surrogacy, con costi ingenti se si scelgono mete con regolamentazioni ferree come gli Stati Uniti, che vanno dai  circa 75mila ai 150mila dollari in totale. In particolare, la California segue delle normative tra le più avanzate al riguardo e, per questo, gli accordi di maternità surrogata stanno crescendo di anno in anno. In realtà, lo Stato della California non ha mai fatto una legge ad hoc sul tema, ma i principi cardine in materia sono stati stipulati in base alla giurisprudenza delle Corti californiane negli anni, a partire da un’interpretazione flessibile del concetto di genitorialità dell’Uniform Parentage Act. Dal 2012 in poi, con l’Assembly Act Bill number 1217 si sono codificate le migliori pratiche legali in relazione agli accordi di maternità surrogata, che in realtà erano comunque già perseguite dagli avvocati operanti nel diritto della riproduzione assistita. Esistono numerose agenzie che mettono in contatto le varie parti e che si occupano delle varie pratiche sia legislative che di assistenza della gestante in tutte le sue necessità nel corso dell’intero l’iter. D’altronde gli Stati Uniti sono la patria del capitalismo.

Il compenso economico che sta dietro alla Commercial Surrogacy – seppur operata in modo etico e rispettoso come in California – apre la questione della legittimità di tale pratica al punto in cui vi potrebbero accedere donne economicamente disperate, che non riescono ad accedere per vari motivi a nessun’altra professione, al punto in cui sarebbero costrette da motivi di forza maggiore a prendere parte a una pratica potenzialmente lesiva della loro psiche. Oltre a ribadire il fatto che una regolamentazione simile prevede sempre assistenza psicologica sulla gestante e l’identificazione della sua effettiva idoneità nell’intraprendere questo percorso, il fatto che molte donne siano profondamente convinte che non si presterebbero mai a tali servizi “per niente al mondo”, “neanche sotto tortura” e nemmeno “in caso di reale bisogno di soldi”, non deve ostacolare il fatto che qualcun altro ne abbracci la possibilità.

Il continuare a vedere la pratica come qualcosa a cui accedono soltanto donne disperate non fa che incrementare la visione compassionevole, a cui si oppone il principio liberale per cui chiunque deve essere libero di fare ciò che vuole del proprio corpo e della propria vita. Se volessi trarre guadagno da una mia funzione corporea, dovrei essere certamente libera di farlo, purché mi sia garantita protezione legale. Una legislazione globale e univoca basata sul modello di GPA californiano sarebbe la vera svolta per rendere le donne davvero libere di fare quello che vogliono con il loro corpo, in modo sicuro. Inoltre, il modello californiano è onnicomprensivo per tutti i tipi di coppie, sia eterosessuali che omosessuali, sposate e non e anche per i single; cosa che non è sempre così in altri Paesi dove la GPA è consentita, come in Ucraina, dove solo gli eterosessuali sposati possono accedere alla pratica.

Esistono Stati dove la maternità surrogata è soggetta a restrizioni: come in Regno Unito, Australia o Canada, dove è legale l’Altruistic Surrogacy, per cui la gestante viene ricompensata solamente da un rimborso spese e non da un compenso remunerativo. Questo fa sì che, di solito, siano dei conoscenti, amici o parenti degli intended parents a prendere a carico la gravidanza, a parte casi eccezionali come quello avvenuto in Australia, dove una persona totalmente estranea alla coppia ha accettato di fare un dono basato sull’aiuto disinteressato verso due persone che volevano diventare genitori. Nel caso in cui una donna acconsenta ad avere una gravidanza semplicemente per motivi altruistici non ha motivo di irritare Chiese, correnti femministe o chicchessia: si tratta infatti di una libera scelta.

La GPA dovrebbe essere regolamentata e non semplicemente strumentalizzata. Le opinioni e le scelte etiche che riguardano il corpo, inteso come corpo sociale e quindi il suo rapporto con lo Stato, vanno costruite attraverso un’analisi razionale e approfondita del fenomeno, ma spesso nel nostro Paese ci si ferma al giudizio a priori, emotivo, e ben poco lucido. Il dibattito al riguardo si ferma troppo spesso alla superficie del problema, usandolo come stendardo per portare avanti le proprie battaglie politiche, invece che sviluppare una riflessione critica a riguardo. Le situazioni limite che possono statisticamente verificarsi – come ad esempio nel caso in cui vengano diagnosticate anomalie cromosomiche e la conseguente possibilità di aborto o il rischio di abbandono da parte dei futuri genitori, o ancora l’improvviso rifiuto della gestante di consegnare il bambino alla nascita – possono ledere i diritti di tutti i coinvolti, oltre che del nascituro. Una non conformità tra le varie Nazioni del mondo però non consentirà mai una reale protezione per tutte le parti. La Corte internazionale di giustizia dell’Aja sta provando ad andare in questa direzione, anche per superare i problemi legali e burocratici legati alla nazionalità del figlio e allo status di immigrazione. Vietare la GPA e non lavorare a una reale legislazione internazionale a riguardo è proprio quello che alimenta lo sfruttamento delle donne nei Paesi non adeguatamente regolamentati, in quanto solitamente mete più economiche rispetto agli USA.

Il progetto sarebbe indubbiamente ambizioso, soprattutto se consideriamo che in Italia nemmeno le adozioni sono adeguatamente gestite. Infatti, nonostante alcune recenti modifiche, come quella di ammettere i single alla procedura, gli iter da seguire per adottare sono ancora lunghi e discriminatori, dato che nelle graduatorie le coppie eterosessuali hanno comunque la precedenza e le coppie omosessuali non possono fare richiesta di una vera e propria adozione. Le lacune della legge Cirinnà sul tema dell’adozione da parte di coppie dello stesso sesso, infatti, non garantiscono equi diritti d’adozione alle coppie omosessuali, soprattutto perché la legge rende possibile esclusivamente la stepchild adoption, per cui il figlio di uno dei due genitori viene adottato dal genitore non biologico, e mai adozioni legittimanti, dove il figlio non ha legami di sangue con nessuno dei due genitori.

Evitare di regolamentare in modo inclusivo le adozioni, i diritti di famiglie non tradizionali e la GPA, continuando a ignorare il problema e mancando di sviluppare un dibattito approfondito sul tema, rischia di essere controproducente per tutti, sia all’interno dei confini nazionali che all’esterno. Lo Stato dovrebbe ascoltare la voce dei propri cittadini e dar loro la possibilità di prendere decisioni ponderate sul proprio corpo e le funzioni che lo caratterizzano almeno attraverso un referendum abrogativo di quanto stabilito dal comma 6 dell’articolo 12 della legge 40. Continuare a coprirsi gli occhi su questo grande tema portato alla luce dallo sviluppo scientifico, a prescindere dalla risposta che gli si vuole dare, è dannoso per tutti, dato che potenzialmente ci offrirebbe la possibilità di responsabilizzarci in quanto cittadini.

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