Il Brasile ospita una delle maggiori comunità indigene del pianeta, erede diretta dei popoli che, per primi, si stabilirono nel continente. L’ultimo censimento disponibile, compilato nel 2010, riporta l’esistenza di più di 800mila individui, divisi a loro volta in 305 diverse etnie sparpagliate tra i centri urbani, l’entroterra del Paese e le zone più inaccessibili della Foresta amazzonica. Meno di un milione di indios custodisce oltre 270 idiomi locali precedenti l’avvento del portoghese; di questi, il 17% comunica esclusivamente con il proprio dialetto tradizionale, mentre la restante parte conosce anche la lingua dei conquistadores. Nel tempo sono stati registrati circa 70 casi di tribù isolate che non sono mai entrate in contatto con l’uomo contemporaneo. Queste comunità vivono in una condizione simile a quella degli indigeni incontrati dai conquistadores al loro arrivo in America. Qualche reporter o ripresa aerea sono riusciti a regalare preziose testimonianze di uomini seminudi che difendono con archi e frecce le loro capanne di paglia nascoste nella foresta. Ma aldilà del loro fascino, la rarità di questi incontri restituisce anche uno spaccato di quanto poco sia sopravvissuto dall’ecatombe iniziata con l’arrivo dei Portoghesi. Dall’inizio del Cinquecento alla metà del Novecento, gli indigeni sul territorio brasiliano passarono dall’essere tre milioni ad appena 70 mila.
La brutalità dei conquistadores prima, e la fredda pianificazione repubblicana poi, furono responsabili della morte di milioni di indigeni, uccisi con il preciso intento dei nuovi arrivati di liberarsi di uno scomodo ostacolo allo sfruttamento delle risorse del ‘‘nuovo’’ continente. I risultati di questa strategia si possono leggere nel ‘‘rapporto Figueredo’’, un documento commissionato nel 1967 dall’allora ministro dell’Interno brasiliano per documentare le condizioni della popolazione indigena del paese. Il quadro restituito dall’indagine è spaventoso: 7mila pagine riportano, nero su bianco, una realtà storica fatta di massacri, abusi sessuali, avvelenamenti di massa, riduzione in schiavitù e altri crimini commessi nelle tre decadi precedenti non solo dai latifondisti, ma anche dalle stesse autorità del Servizio di Protezione dell’Indigeno (Spi), alle dipendenze del ministero dell’Agricoltura. Il Paese, ai tempi, era governato dalla dittatura militare ‘‘dei gorillas’’, che proibì la circolazione del documento, colpevole di rendere esplicito il legame tra l’operato dello Stato e la quasi estinzione dei nativi brasiliani. Questo in ogni caso non impedì che il suo contenuto arrivasse all’opinione pubblica e provocasse un’ondata di sdegno internazionale, grazie anche a un lungo reportage di Norman Lewis per il Sunday Times (uscito nel 1969 con l’emblematico titolo ‘‘Genocide’’) in cui venivano ripercorse e approfondite le scoperte dell’inchiesta governativa. Da allora, le più brutali pratiche nei confronti degli indigeni vennero perseguite, dando inizio a un percorso rivolto alla loro tutela.
Con la fine della dittatura, nel 1988, la difesa degli indigeni venne inserita nella nuova Costituzione e la demarcazione dei loro territori divenne una priorità sancita dalla legge. Nonostante questo, i nativi brasiliani vengono ancora oggi trattati con sufficienza dalle istituzioni e la loro esistenza è minacciata dall’attività dei grandi latifondisti e delle industrie del legname che cercano di appropriarsi dei loro territori, ricorrendo anche a estorsioni e omicidi. Il cosiddetto ‘‘uomo del buco’’ è diventato uno dei simboli di questa realtà: unico sopravvissuto della sua tribù, sterminata dagli agricoltori nel 1995, l’indio vive da allora in solitudine nell’Amazzonia, dove la sua presenza è testimoniata da pochissime immagini e dalle buche che è solito scavare per catturare le sue prede (pratica che distingueva la tribù di cui faceva parte).
Il primo gennaio di quest’anno, in seguito alle elezioni più polarizzate e discusse della storia brasiliana, Jair Bolsonaro è diventato il trentottesimo presidente del Brasile. A prendere le redini del Paese è stata una figura politica notoriamente controversa, che unisce alla retorica autoritaria una visione ultraliberista dell’economia. Secondo molti analisti queste caratteristiche, oltre a rappresentare un rischio per le fasce più deboli della popolazione, possono aggravare in maniera irreversibile la situazione degli indigeni brasiliani e non è esclusa la possibilità che ci si trovi all’alba di un nuovo genocidio nei loro confronti. Il neo-presidente, durante la campagna elettorale, non ha mai nascosto la scarsa considerazione che nutre per le minoranze che vivono nel Paese, lanciandosi spesso in arringhe contro gli omosessuali (a cui ha augurato la morte) i discendenti degli schiavi africani (a suo parere inadatti persino a procreare, offesa che gli è costata una condanna civile). ‘‘Dobbiamo costruire un Paese per la maggioranza e le minoranze devono piegarsi alla maggioranza. La legge dev’essere fatta per tutelare la maggioranza, quindi o le minoranze si adeguano o, semplicemente, che spariscano!’’ ha dichiarato Bolsonaro durante uno dei suoi comizi. Una visione della società che non ha risparmiato nemmeno agli indios offese e derisioni. Accostate le riserve indigene a giardini zoologici, Bolsonaro ha auspicato uno ‘‘sfruttamento razionale’’ delle loro risorse, promettendo restrizioni alla loro tutela e futura assegnazione.
L’ala più conservatrice del parlamento che sostiene il governo Bolsonaro – popolarmente associata al trinomio ‘‘Bibbia, bue e pallottola’’ e composta da evangelici, grandi allevatori e sostenitori della liberalizzazione delle armi da fuoco – ha raggiunto con le scorse elezioni il suo risultato storico. Uscita dalla marginalità che l’ha sempre caratterizzata, si prepara a influenzare pesantemente la politica del nuovo presidente. I primi risultati concreti di questo processo sono emersi già all’alba del suo insediamento. Trascorsi nemmeno due giorni dall’assunzione dell’incarico, Bolsonaro ha assegnato al ministero dell’Agricoltura (accusato in passato di gravi violazioni nei confronti degli indios) il compito di identificare e assegnare i territori delle riserve indigene, mettendo virtualmente la parola fine alla loro tutela. Con lo stesso pacchetto di provvedimenti, Bolsonaro ha reso effettivo il passaggio del maggiore ente statale per la protezione degli indigeni (Funai) dal controllo del ministero della Giustizia a quello ‘‘della Donna, della Famiglia e dei Diritti umani’’. Il ministero, creato dal nuovo governo, è presieduto da Damares Alvares, avvocata e pastore evangelista che, durante una delle sue prime dichiarazioni come ministra, ha promesso un ‘‘cambiamento radicale’’ nel rapporto con le tribù isolate.
Alvares è una delle fondatrici di Atini, una discussa organizzazione dai dichiarati scopi umanitari che promuove la conversione delle popolazioni indigene al cristianesimo evangelico, accusata in passato di diffamare le tribù e attribuire loro pratiche di infanticidio inesistenti. Recentemente la ministra Alvares è stata accusata di aver rapito una bambina indigena ai tempi in cui lavorava come missionaria nella sua comunità di origine: la ragazza, oggi ventenne, sarebbe stata ‘‘presa sotto custodia’’, secondo le parole della ministra, ma senza il consenso della famiglia né l’attivazione delle necessarie pratiche legali. Molte ombre avvolgono il passato della nuova figura a capo della massima istituzione per la tutela degli indigeni e minano la credibilità delle intenzioni di Bolsonaro e della sua squadra di governo in merito alla salvaguardia delle popolazioni indigene brasiliane. In un continente che meno di trent’anni fa ha assistito alla sterilizzazione forzata di centinaia di migliaia di donne native per mano del regime peruviano di Alberto Fujimori, si tratta di segnali preoccupanti e da non sottovalutare.
Per fronteggiare l’offensiva di chi vorrebbe ‘‘sfruttare razionalmente’’ i loro territori e limitarne la tutela a livello governativo, gli indios del Brasile non sono rimasti a guardare e hanno dato vita a una lunga serie di mobilitazioni e azioni di resistenza. Il 31 gennaio più di 50 manifestazioni in tutto il Brasile e in diverse città del mondo hanno richiamato l’attenzione sulle violenze contro la popolazione indigena e denunciato apertamente le ultime decisioni di Bolsonaro in materia, ritenute un arretramento rispetto al passato, oltre che incostituzionali. Nelle settimane precedenti, duecento donne appartenenti alle tribù della zona del Baixo Tapajòs, in Amazzonia, si sono riunite per la prima volta in assemblea per costruire una rete di solidarietà, tramandare conoscenze e discutere nuove strategie di resistenza. L’esito dell’incontro sarà la creazione, a marzo, del Dipartimento delle donne all’interno del già esistente Consiglio indigeno della regione, uno spazio in cui poter coordinare l’opposizione femminile all’attività del governo.
Anche le organizzazioni umanitarie internazionali hanno preso posizione in difesa degli indios brasiliani. A fine dicembre 2018 il Guardian ha pubblicato un articolo di Fiona Watson, esponente di spicco di Survival International – una Ong di Londra che si occupa della salvaguardia dei popoli indigeni dalla pubblicazione del reportage di Lewis. Watson pone l’accento sul rischio di genocidio a cui le tribù isolate vanno incontro nel Brasile di Bolsonaro e auspica una mobilitazione internazionale per la loro tutela. “[Bolsonaro],” scrive Watson, “ha mostrato apertamente il suo disprezzo per gli indios del Brasile, e non è esagerato sostenere che alcune delle più particolari e variegate tribù del pianeta corrono il rischio di essere sterminate. Ora più che mai, dobbiamo mettere in campo la nostra forza collettiva per far emergere e porre fine a questi genocidi nascosti’’.
Nello scontro che oppone il governo brasiliano alla comunità indigena del Paese si intravedono le caratteristiche di un confronto più ampio, tra due opposte visioni del rapporto tra uomo e ambiente. La prima, rappresentata dagli indios e dai loro discendenti, che vede nella sinergia tra essere umano e natura non solo un valore culturale, ma un vero e proprio elemento di sussistenza e appartenenza. L’altra, legata al capitalismo predatorio e agli strascichi ancora vivissimi del colonialismo incarnati da Bolsonaro, che non si fa scrupoli a mettere al servizio del profitto il destino degli ultimi nativi brasiliani e dell’intera Foresta amazzonica. Alla luce del monito degli scienziati emerso dalla Cop24, tuttavia, si potrebbe dire che è la stessa esistenza della vita sul nostro pianeta a essere sacrificata sull’altare della speculazione spregiudicata. Diventa dunque necessario sottolineare la portata globale di questo fenomeno, e ribadire come la lotta all’ondata neoliberista e autoritaria e ai suoi esiti potenzialmente catastrofici passi anche attraverso la difesa delle tribù indigene del Brasile e dell’immenso patrimonio storico e naturale a cui sono legate la loro e, non meno, la nostra sopravvivenza.