In Italia, una persona su dieci ritiene giusto che un uomo schiaffeggi la propria donna se questa ha flirtato con un altro uomo. Il 7,7% della popolazione ritiene accettabile che in una coppia ci scappi uno schiaffo ogni tanto, mentre quasi il 20% giustifica l’uomo che controlla abitualmente il cellulare della propria compagna, percentuale che aumenta tra la popolazione più giovane. Questi dati inquietanti, raccolti da un sondaggio Istat del 2019, possono in parte spiegarci il recente aumento dei casi di violenza domestica e di genere – fisica e psicologica – all’interno delle coppie eterosessuali. Violenza che può degenerare in comportamenti quali stalking o, in casi estremi, femminicidio.
Come già accaduto nel 2020, anche lo scorso anno nel nostro Paese si è registrato un aumento dei casi di femminicidio. A fine 2021, il numero di donne uccise da uomini ammontava a 114: una media di una ogni tre giorni. Del totale delle vittime, 98 erano state uccise all’interno della cerchia familiare e di queste 66 erano vittime dei propri mariti o partner. Dall’inizio della pandemia, poi, abbiamo assistito a un consistente aumento di richieste d’aiuto ai Centri antiviolenza di vittime di vessazioni di vario genere da parte del proprio convivente. La ridotta mobilità, dovuta alle restrizioni del lockdown, ha infatti costretto molte donne a subire la violenza domestica e, contestualmente, a veder diminuire la possibilità di fuggire o di chiedere aiuto. Sono oltre 15mila le donne che, nel 2020, hanno iniziato il percorso personalizzato per uscire dalla violenza, presso i CAV che aderiscono all’Intesa Stato Regioni; di queste, circa 13mila 700 si è rivolta a un CAV per la prima volta proprio nel 2020. Per il 74,2% delle donne la violenza subita dal partner non è nata con il lockdown ma preesisteva: il 40,6% di queste ha dichiarato di subire violenza da più di 5 anni, il 33,6% da 1 a 5. Quasi una volta su tre la causa della violenza è la gelosia.
Diverse le forme che ancora oggi assume la violenza domestica, o la violenza perpetrata da un uomo ai danni della propria partner o ex partner. Si va da quella fisica – la più frequente – a più subdole forme di violenza psicologica, come insulti, reiterate umiliazioni, minacce e intimidazioni, o ancora atteggiamenti controllanti e aggressioni verbali, volte a rendere la vittima insicura, dipendente e sottomessa. Esiste poi anche un’altra forma di violenza di genere, che è quella economica, in cui alla donna viene impedito di esercitare una propria professione o, più in generale, di avere delle entrare che possano darle un’indipendenza. Il fatto di non poter contare su un reddito sicuro è una delle motivazioni che più spesso spinge le donne a non chiedere aiuto e a non allontanarsi da partner violenti: a questo proposito, a dicembre del 2020 è stato introdotto il cosiddetto “reddito di libertà” per le vittime seguite dai CAV riconosciuti e dai servizi sociali. Reddito che ammonta a 400 euro al mese, una cifra che però difficilmente può permettere a queste donne di costruirsi davvero una reale indipendenza.
Oltre alla fondamentale rete di sostegno alle vittime, per indebolire alla base il sistema della violenza di genere, come è stato ribadito più volte, sarebbe necessario scardinare una serie di stereotipi che, ancora oggi, condannano le donne a essere dipendenti dagli uomini e a ricoprire, spesso, un ruolo sociale mortificante. Determinati stereotipi, derivanti dalla cultura patriarcale e machista, che per forza di cose non sono radicati esclusivamente negli uomini. I dati parlano chiaro: certe convinzioni retrograde attraversano la società in modo trasversale ma, soprattutto, sono equamente distribuite tra donne e uomini. Spesso sono le stesse donne che, finendo per diventare acerrime nemiche delle altre donne, alimentano luoghi comuni dannosi, arrivando a condannare una vittima di violenza per gli abiti succinti che indossava, o a giustificare un marito che picchia la moglie perché colpevole di attirare gli sguardi di altri uomini. Gli stereotipi di genere aumentano così la subalternità sociale e psicologica di molte donne, impedendone l’affrancamento da figure di riferimento maschili e relegandole al ruolo di oggetti.
Nel 2021, a Torino, Angela Dargenio è stata uccisa dall’ex marito, Massimo Bianco, che non sopportava l’idea che frequentasse un altro uomo. La madre della vittima si è schierata apertamente col genero assassino. “Angela se l’è cercata, non avrebbe dovuto separarsi”, avrebbe commentato la donna subito dopo l’omicidio. Originaria di un piccolo paese in Puglia, Angela aveva infatti deciso di interrompere un rapporto che la costringeva a subire soprusi e la rendeva infelice, ma la sua famiglia d’origine si era schierata contro la sua scelta. A raccontare come sono andate le cose è stata la figlia: “Mia nonna non è nemmeno venuta per il funerale. Né lei né mia zia sono venute dalla Puglia. E a mio fratello di 16 anni hanno detto che era colpa nostra, perché avremmo dovuto stare più vicini a nostro padre”. Queste parole sembrano riportarci ai tempi del delitto d’onore e fotografano una realtà molto complessa di cui le istituzioni dovrebbero occuparsi urgentemente.
Spesso, poi, sono i media che, intrisi allo stesso modo da questa cultura, sembrano giustificare o fornire un’attenuante agli assassini uomini. È il caso dell’omicidio di Elisa Pomarelli, ventottenne uccisa nel 2019 da Massimo Sebastiani, un amico dal quale pare avesse deciso di allontanarsi. Sebastiani fu descritto da alcuni media come un “gigante buono”, un insospettabile bravo ragazzo che avrebbe ucciso la sua amica “per troppo amore” e perché incapace di sopportare il rifiuto della ragazza. L’associazione di giornaliste Giulia, che si occupa di linguaggio mediatico in riferimento alle donne e quindi anche ai femminicidi, si era sollevata per denunciare questa narrazione offensiva perché indulgente nei confronti di un uomo colpevole di omicidio.
A questo proposito possiamo citare l’intervento di Barbara Palombelli che, in una puntata di Forum del 2021, parlando dell’altissimo tasso di femminicidi in Italia, ha affermato che “a volte è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte?”. Ancora una volta l’attenzione non si concentra su chi commette la violenza, ma su chi la subisce. Ed è questo l’errore: che si condividano o meno le scelte e i comportamenti di una donna, ciascuna ha il diritto alla libertà delle proprie azioni e se all’uomo non vanno bene la soluzione non dovrebbe essere la violenza o l’annientamento. Un uomo non può pensare in nessun caso che sia accettabile uccidere una donna, adottare comportamenti controllanti, nemmeno darle “solo” uno schiaffo o “una spinta”. Tanto più che, spesso, lo schiaffo è solo l’inizio di un vortice di abusi e sopraffazione che può arrivare a culminare nell’omicidio.
In Italia, però, le donne devono essere represse e infelici, oltre che controllate dagli uomini. Coltiviamo un vero e proprio fastidio per la libertà e l’ambizione femminile, quando queste oltrepassano il microcosmo familiare in cui la società relega le donne da secoli. Per questo alcuni non si stupiscono quando una donna riceve uno schiaffo o uno spintone da un partner geloso, o quando lui le controlla il cellulare tutti i giorni. In questi casi si trova subito una spiegazione: “se lo sarà meritato”, “sarà una poco seria”, e così via. Inutile dire che, quando ciò accade a parti inverse, il comportamento dell’uomo non viene mai vagliato e criticato. Qualunque tipo di violenza, abuso o atto che miri a limitare la libertà altrui, andrebbe invece condannato a prescindere, che sia una donna o un uomo a commetterlo. Nella nostra cultura infatti si tende ad accettare più facilmente l’idea di un uomo libertino, talvolta fedifrago, o che trascura l’eventuale famiglia per inseguire il proprio appagamento personale, mentre per le donne vale un discorso molto diverso. Continuiamo a condannare duramente le donne che hanno relazioni extraconiugali – pur senza sapere nulla della loro vita – o che hanno ambizioni diverse dall’essere madri di famiglia. Il concetto di colpa è strettamente legato alla figura femminile, che se non è pronta a sacrificarsi per gli altri allora va punita, che se sceglie di vivere liberamente è per forza una poco di buono e che se vuole troncare una relazione abusante o in cui non è più felice allora è normale che subisca stalking o venga sfregiata per vendetta.
Se vogliamo cancellare il fenomeno della prevaricazione e della violenza di genere, oggi, dobbiamo operare una rimozione collettiva di certi dannosi stereotipi ancora radicati nella nostra società. Per farlo, è necessario riconoscere a ciascuna donna il diritto di soddisfare i propri desideri e realizzarsi nelle proprie ambizioni, senza vincolarla a ruoli dipendenti e castranti, che la costringono a reprimere passioni e impulsi e accumulare frustrazione. Ma ciò su cui bisogna lavorare soprattutto è lo sradicamento di una mentalità dannosa e antiquata, che negli anni ha contribuito a mantenere un modello di uomo che impone la propria autorità sulla donna, che la considera un oggetto di sua proprietà, che spesso sfoga la propria frustrazione e impotenza su di lei e la rende un capro espiatorio delle proprie paure e angosce. La condanna di qualunque tipo di violenza di genere deve quindi andare di pari passo a un’educazione alla parità tra donna e uomo – che dovrebbe avere più spazio anche nelle scuole –, che smantelli i retaggi di una cultura patriarcale e machista sempre più pericolosa.