Cosa significa resistere nella Striscia di Gaza

Gaza, un milione e 900mila abitanti, la larga maggioranza dei quali sono rifugiati, deportati ed espulsi dalle loro case e dalle loro terre durante la Naqba, la catastrofe del 1948. Circa 2 milioni di individui confinati in una striscia di terra di appena 360 chilometri quadrati e ulteriormente limitata dalle ARA, Access Restricted Areas – aree ad accesso limitato. Si tratta di zone militari estese lungo il confine settentrionale e orientale della Striscia, che rimangono però comprese nei territori palestinesi.

Negli anni centinaia di palestinesi hanno perso la vita in questa zona, e altre centinaia sono rimaste ferite, spesso mentre lavoravano i campi, essendo il 35% delle terre agricole incluse nelle ARA. Ma le restrizioni dei territori palestinesi non riguardano solo la terra ferma: Israele controlla lo spazio aereo sopra tutta la Striscia di Gaza e limita i movimenti via mare, ostacolando il lavoro dei pescatori locali. L’elettricità è scarsa se non totalmente assente, l’acqua è contaminata, il carburante ridotto, talvolta difficilmente reperibile. Ai palestinesi di Gaza viene negato il diritto di libero movimento. Ci sono famiglie che sono state divise e che guardano al di là del confine nella speranza un giorno di ricongiungersi o semplicemente anche solo di rivedere il fratello, la madre, lo zio, il nipote. Non si possono non ricordare, infine, le numerose operazioni militari che hanno tentato di piegare Gaza nel corso della sua storia.

La Striscia di Gaza oggi è caratterizzata da un blocco, imposto da Israele, una restrizione o talvolta una completa chiusura del movimento delle persone e delle merci in entrata e in uscita che paralizza il commercio, il benessere degli abitanti e il suo tessuto sociale. Un collasso economico che causa un tasso di disoccupazione giovanile del 58%; in questa terra un giovane può solamente cercare di sopravvivere. Il blocco è continuato nonostante il regolamento dell’Aia e i richiami per la sua revoca da parte delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, del Comitato internazionale della Croce Rossa e di molte organizzazioni non governative internazionali.

Una volta mi sono imbattuta in una presentazione del collettivo Visualizing Palestine, che si occupa di attivismo politico e data journalism. Mostrava come davanti a una catastrofe vi siano 5 fasi di dolore, e comparava due casi: l’attacco alle Torri Gemelle e la situazione a Gaza. Le persone di New York hanno passato appunto 5 fasi del dolore nel percorso verso la guarigione tra il 2001 e il 2014. Il rifiuto; la rabbia, che ha portato il 90% degli americani a supportare l’invasione in Afganistan e il 59% l’invasione in Iraq. La contrattazione: il governo americano ha pagato una media di 2,1 milioni di dollari come compenso per ciascuna famiglia delle vittime. Poi la depressione, visto che più di 10mila persone hanno sofferto di stress post-traumatico; e, infine, l’accettazione. L’ex presidente Obama ha infatti dedicato un memoriale all’11 settembre e nominato un museo come “un sacro luogo di guarigione e speranza”.

La popolazione di Gaza non è così fortunata: composta per la maggioranza da bambini e giovani, si trova intrappolata in una continua spirale di violenza, senza la possibilità di avviarsi verso una guarigione. Non sto cercando di eleggere il popolo più massacrato, ma di evidenziare quanto quello di Gaza sia un popolo senza il tempo di fare un’analisi, di fermarsi a contare, piangere ed elaborare i propri lutti, poiché Israele continua, tuttora, a bombardare, senza sosta.

La “marcia del Ritorno”, un’iniziativa popolare, pacifica e apartitica organizzata dall’Alto comitato per la fine dell’assedio di Gaza, nasce in questo contesto. Iniziata il 30 marzo, giorno della Terra, l’iniziativa proseguirà fino al 15 maggio, anniversario della Nakba palestinese e data in cui Trump ha previsto lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Decine di migliaia di palestinesi si sono avvicinati al confine per chiedere la fine del blocco israeliano e la possibilità di ritornare ai propri villaggi d’origine.

Il 30 marzo camminavo per le strade della città di Gaza, dove lavoro come volontaria, e mi sono stupita di quanto fossero vuote. La popolazione si era infatti radunata nei cinque accampamenti di tende, dove sono state organizzate iniziative come circoli di lettura, danze della dabka (il ballo tradizionale), giochi con i bambini. Ogni venerdì è stato scelto un “tema”: la grande marcia del ritorno in apertura il 30 marzo, poi la giornata delle ruote il 6 aprile, durante la quale sono stati accatastati e bruciati in vari punti migliaia di vecchi pneumatici. Immagini di maschere antigas artigianali hanno invaso le pagine Facebook dei palestinesi. Il fumo nero e denso si innalzava nel cielo, a proteggere donne, uomini e bambini esposti alle armi dell’esercito israeliano; si gonfiava, inglobando quello bianco dei gas urticanti israeliani lanciati indiscriminatamente sulla folla. Senza quella cortina difensiva, forse, il numero di vittime sarebbe stato di gran lunga superiore.

Il 13 aprile centinaia di bandiere palestinesi sono state innalzate in tutta la Striscia. Il 20, invece, è stata la volta dei martiri e dei prigionieri, tema importante per il popolo palestinese. Dal 1948, infatti, Israele ha arrestato e imprigionato circa un milione di persone: oggi nelle carceri israeliane vi sono 6500 palestinesi, di cui 350 minorenni, 62 donne, 26 giornalisti, e una cinquantina di individui detenuti da più di 30 anni. Oltre 500 si trovano imprigionati in regime di detenzione amministrativa, che secondo il diritto internazionale può essere adottato solo in casi di emergenza, per “ragioni imperative di sicurezza”, non di certo come pratica quotidiana applicata per decenni. Con la detenzione amministrativa si può rischiare di rimanere per anni in prigione senza processo: per questo viene usata come forma di repressione politica contro la resistenza. Vivo in un campo profughi e posso testimoniare che, in alcuni periodi, i soldati dell’esercito israeliano sono venuti ad arrestare nel pieno della notte, con una frequenza perfino di 3 o 4 volte a settimana, tanto che qui, in ogni famiglia vi è almeno un caso di prigionia passata o attuale. Non credo ci sia molto spazio per gli equivoci: la detenzione arbitraria di esponenti politici e attivisti è un abuso di parte delle autorità israeliane.

Dall’inizio della marcia del ritorno sono stati uccisi dai tiratori scelti israeliani 51 palestinesi, di cui due giornalisti. Uno di loro è Yasser Murtaja, fotografo dell’emittente locale “Ain media” che indossava un elmetto e un giubbotto indicante chiaramente la qualifica di “stampa”. Non è sicuramente la prima volta che Israele prende di mira un giornalista, è successo in passato e tutto lascia presupporre che succederà ancora. Le cose tanto si risolvono sempre con un comunicato, attribuendo la colpa ad Hamas. Nena news le definisce “una serie di fucilazioni di massa sponsorizzata dallo Stato”, che ha causato, oltre ai morti, oltre 5mila i feriti, attaccati con munizioni convenzionali, proiettili di gomma e gas urticanti. Le armi in dotazione all’esercito israeliano sono prodotte, in parte, in Italia. Mentre negli ospedali di Gaza sono terminate le scorte di protesi e scarseggiano i medicinali salvavita.

Il movimento di Hamas ha previsto aiuti economici per le famiglie colpite, ma anche in questo caso la notizia è stata strumentalizzata da Israele. La marcia del ritorno è letta come una provocazione a scopo terroristico del movimento di Hamas, pur essendo la protesta apartitica; il venerdì delle bandiere diventa il venerdì delle molotov, e infine gli aiuti economici sono diventati, secondo Israele, incentivi a sacrificarsi per la causa. La visione secondo la quale Hamas stia usando i civili per le attività terroristiche, è, a mio parere, ridicola e umiliante per il popolo palestinese; purtroppo però è la più diffusa narrazione attorno a questa iniziativa, che ne maschera le ragioni reali: il contrasto all’occupazione, all’oppressione violenta e a un blocco economico che oggi compie 12 anni.

Ma Israele non è l’unico stato ad aver diffuso informazione distorte. In Italia, per esempio, è stato presentato come uno scontro. Le parole hanno un peso e un senso. Le forze che stanno dietro alle due parti non sono pari. Sparare su una folla che manifesta non è uno “scontro”, si chiama “esecuzione”, o “massacro”, per mano di uno stato che 70 anni fa è stato fondato e che, con il passare degli anni, ha costruito un regime di apartheid, con tanto di deportazioni e negazioni di diritti umani. Michele Giorgio sul Manifesto scrive che l’Europarlamento “condanna Hamas per la presunta ‘istigazione’ alla violenza alla frontiera tra Gaza e Israele e ha esortato l’esercito dello Stato ebraico a usare ‘strumenti proporzionati’ per rispondere alla Marcia del ritorno dei palestinesi”. 524 voti a favore, 30 contrari e 92 astensioni. E ancora l’assemblea parlamentare ha riconosciuto “le sfide cui Israele deve far fronte in materia di sicurezza e la necessità di proteggere il suo territorio e i suoi confini.”

L’Egitto, intanto, reagisce facendo pressione al popolo palestinese: da una parte apre il valico di Rafah per tre giorni, così da far transitare i casi umanitari, persone malate o ferite; si incontra con una delegazione di Hamas al Cairo per trattare la riconciliazione tra il movimento e il partito di Fatah; dall’altra vorrebbe che le proteste terminassero o che almeno si svolgessero a debita distanza dalle barriere con lo Stato israeliano. Dalla West Bank arriva però sostegno: in diverse città vi sono state manifestazioni, represse a colpi di bombe-suono, proiettili di gomma, e lacrimogeni, ancora una volta a opera dell’esercito israeliano.

Nell’ultima settimana ha fatto più volte il giro del mondo il video di un cecchino israeliano che prende la mira e spara a un gazawo, scatenando reazioni di gioia nei colleghi; il tutto arricchito da insulti. Il problema è che i soldati israeliani non sono comparsi quattro settimane fa, con la marcia del ritorno: la loro presenza si fa sentire, quotidianamente, ormai da troppi anni, eppure il mondo sembra scandalizzarsi solo ora.

Qualche giorno di chiacchiericcio e poi si torna alla propria vita. È questo il risultato del processo di normalizzazione a cui è andato incontro il conflitto israelo-palestinese: quando nulla, almeno in apparenza, cambia e si evolve, diventa poco interessante, scontato. Le sorti di un popolo perdono di attrattiva agli occhi del lettore.

Continuano nel frattempo i tentativi di Israele di nascondersi dietro un dito con una nuova proposta di legge, che prevede la possibilità di dare dai 5 ai 10 anni di reclusione a chi diffonde immagini sui crimini dell’esercito. Inevitabile a questo punto il collegamento a un altro video che ha fatto il giro del mondo, quello di Ahed Tamimi, ragazza condannata a 8 mesi di prigione per aver schiaffeggiato un soldato israeliano. L’importanza della diffusione di queste immagini non può essere negata: abbiamo bisogno di vedere coi nostri stessi occhi per riuscire finalmente a smuoverci. Questo è proprio il motivo per cui ho deciso di andare in Palestina.

In queste settimana, prendendo in mano il proprio diritto alla lotta, Gaza ci mostra quanto sia esausta e colma di rabbia; urla a pieni polmoni, a ogni orecchio disposto ad ascoltare, che è arrivato il momento di schierarsi, di prendere una posizione, di essere attivi, di reagire di fronte alle oppressioni. E, oggi, è questo il miglior esempio di resistenza.

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