Quando ero ragazzina esplose la moda del kebab, il celebre piatto di origine turca, che tra i giovani andava molto perché saziante ed economico. La Lega vide nel panino unto e iper-saporito una minaccia all’identità italiana e avanzò imbarazzanti proposte di chiusura dei locali mediorientali, portando presunte motivazioni di indecorosità o igiene, e schierandosi a difesa della vecchia, cara polenta: come se scoprire un piatto nuovo dovesse per forza significare abbandonarne uno conosciuto e, con lui, la propria storia. Da allora, il kebab è stato normalizzato e sono esplose varie mode gastronomiche e culinarie, dal sushi all-you-can-eat alla panificazione casalinga, che ci dicono sostanzialmente due cose: che oggi siamo tutti chef, tutti esperti di ingredienti e ricette, e che il cibo non è solo cibo, ma dice molto di noi e della società in cui viviamo. Per esempio, non è un caso che oggi il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida, si presenti come il paladino dei difensori della tradizione italiana della tavola; prima con la proposta di un obbligo – poi in qualche modo smentita – di inserire piatti contenenti formaggio in tutti i menù dei ristoranti, poi sostenendo che sia “molto soggettivo” che le bevande alcoliche siano dannose.
Che il ministro non sia particolarmente ferrato in materia di alimentazione lo si era capito quando aveva sostenuto che i poveri mangiano meglio dei ricchi, o, ancora prima, con la sua battaglia contro il Nutriscore – il sistema di etichette, certamente limitato e ampiamente migliorabile, che avrebbe dovuto aiutare a individuare i cibi meno sani – come fosse una crociata in difesa dei prodotti che simboleggiano la nostra identità nazionale. Anche quando questi non sono esattamente pilastri della sana alimentazione e, anzi, in alcuni casi sono protagonisti di scandali di proporzioni colossali, come il prosciutto di Parma, di cui un’inchiesta recente della giornalista Giulia Innocenzi ha fatto emergere una serie di storture, dalle condizioni disumane degli allevamenti alla mancanza di requisiti del prodotto, taciuta grazie alla complicità del sistema di certificazione.
Quanto alla sovranità alimentare, alcuni dei tanto sbandierati prodotti tricolore semmai la minacciano: quella dei popoli indigeni del Sud America, i cui terreni sono sottratti per far spazio alle coltivazioni di soia con cui si producono i mangimi per i nostri allevamenti; la sovranità alimentare, infatti, è il diritto dei popoli a definire le proprie politiche e strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di cibo: se le nostre scelte alimentari minacciano il rispetto di questo diritto in altre parti del mondo, allora la nostra posizione è più che altro di prevaricazione alimentare e non è giustificabile con la difesa della nostra “sovranità”, che non è minacciata da nessuno.
In un contesto socio-culturale in cui l’Italia sembra una Repubblica fondata sulla carbonara – e gli italiani disposti a vendere la propria madre pur di difenderne la ricetta, ignari del fatto che sia stata inventata dai soldati americani – e nell’attuale clima politico, le battaglie sui prodotti tradizionali evidenziano come sempre di più l’alimentazione sia uno strumento al servizio del nazionalismo. Si può parlare, infatti, di gastronazionalismo, un atteggiamento per il quale il cibo è un elemento identitario, con cui stabilire i valori in base a cui identificare un gruppo di persone, soprattutto per escluderne altre. Oggi è un fenomeno piuttosto diffuso in Italia, dove la tavola ha una grande rilevanza culturale: lo si vede, per esempio, nella santificazione del “Made in Italy” e nel sospetto con cui è guardato tutto ciò che non fa parte della presunta “tradizione locale”, che a ben vedere spesso è un’invenzione piuttosto recente. Il rischio è che questo atteggiamento – nel suo piccolo, ma non così tanto, dato che la tavola può diventare oggetto di contesa politica – sia espressione di un vero nazionalismo, che può emergere anche in semplici aspetti quotidiani, come l’alimentazione. Il cibo, in questo modo, non unisce – come dovrebbe fare, nel segno della nostra tanto amata, (presunta) italica convivialità – ma divide, quanto meno divide una maggioranza, che si vorrebbe più omogenea di quanto non sia in realtà, dalle minoranze. L’identità, allora, smette di essere il mezzo tramite cui si racconta chi si è, per essere usata per dividere “noi” da “loro”, in questo caso gli stranieri. Così, come sottolineano i ricercatori Michele Antonio Fino e Anna Claudia Cecconi, i continui riferimenti a dei “nemici” (coloro che vogliono imitare malamente il cibo italiano, rubarcelo o impedirci di mangiarlo) sono uno strumento politico, spesso razzista.
Il valore identitario di cui è investita l’alimentazione è talmente forte da surclassare temi ben più pressanti della presunta invasione di kebab, tofu e insetti, come la crisi climatica e la salute. Buona parte di questi prodotti che oggi difendiamo a tutti i costi, infatti, non sono esattamente un toccasana e rappresentano, anzi, un retaggio di un’epoca in cui l’Italia scopriva il benessere economico e lo associava al consumo, prospettiva che sarebbe ora di superare. Se si parla di eccellenze della cucina italiana, per esempio, il pensiero va al vino, su cui il ministro Lollobrigida ha sostenuto che bere con moderazione faccia bene – contro ogni nozione scientifica, che oggi sottolinea che in merito al consumo di alcolici il rischio zero non esiste – forse pensando di supportare i produttori del settore, che invece potrebbero aprire nuovi mercati esplorando le opportunità del vino dealcolato; e, nel frattempo, alimentando una pericolosa ignoranza della collettività. Altri pilastri della tradizione italiana spesso citati sono poi formaggi e insaccati, di cui quasi il 60% della popolazione consuma una porzione più di qualche volta a settimana, troppo rispetto alle indicazioni sanitarie – a partire dalla banale piramide alimentare – che ne raccomandano un uso sporadico, meno di una volta a settimana, perché associati al rischio cardiovascolare e non solo. La diffusione epidemica delle patologie correlate è uno dei motivi per cui dovremmo cambiare il nostro modello alimentare, riducendo drasticamente la quota di proteine animali che consumiamo.
La consapevolezza su questo punto, però, è ancora scarsa, tanto più in Italia, dove, convinti di essere i depositari dell’unica e sola “buona tavola”, abbiamo una forte chiusura verso qualsiasi innovazione alimentare e una diffidenza verso ogni nozione scientifica che metta in dubbio le nostre abitudini, a tal punto che oggi – parafrasando Woody Allen – le parole più temute non sono “è maligno” ma “carbonara vegana”. L’industria alimentare ha tutto l’interesse a non cambiare questa percezione: tanto che negli ultimi tempi, l’Unione Europea stessa ha ammorbidito le politiche in materia di impatti ambientali del settore agricolo, escludendo per esempio gli allevamenti intensivi dalla “Direttiva emissioni”, soprattutto per l’attività di lobby delle grandi aziende del settore; lo denuncia una recente ricerca di InfluenceMap, da cui emerge che, nel periodo 2018-2023, i produttori di carne e latticini e le associazioni di categoria si sono opposte alle politiche europee sulla sostenibilità della dieta. Politiche che, invece, dovrebbero essere ben più radicali, visto che il contributo del settore agroalimentare alle emissioni di gas climalteranti fu evidenziato già dal rapporto del 2019 del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC).
Ma anche chi non vuole accettare l’idea di un futuro a proteine vegetali – una produzione più efficiente in termini di nutrienti e calorie in rapporto alla quantità di risorse impiegate – deve scendere a patti col fatto che proprio il settore agricolo è anche tra quelli messi più a rischio, dalla crisi climatica, tra siccità estrema e prolungata, grandinate e allagamenti improvvisi. Di questo dovrebbe preoccuparsi la politica quando si tratta di difendere il Made in Italy, la tradizione agroalimentare italiana e i lavoratori che la tengono in piedi. Invece, preferisce – letteralmente – parlare alla pancia delle persone scagliandosi contro soluzioni meno impattanti e più etiche, a partire dalla cosiddetta carne sintetica, grande nemesi di Matteo Salvini, il paladino delle salsicce. Ora, dietro alle sue rivendicazioni e all’appassionata difesa del formaggio da parte del ministro Lollobrigida non si celano (necessariamente) oscuri intrallazzi con l’industria alimentare, ma di sicuro un compiaciuto populismo, oltre che una certa ignoranza o malafede.
Ogni politico che faccia la propria cifra di queste posizioni vuole presentarsi come “uno di noi”, che ama la cucina della mamma e che somiglia ai tanti cittadini spaventati, che negano la crisi climatica per autoconvincersi che sia tutta un’esagerazione, e che, chiusi nel loro metaforico orticello, guardano con preoccupazione, o vera e propria ostilità, chi arriva da lontano. Ma questa ostilità a tavola ha ancor meno senso, visto che, come sottolineano ancora Cecconi e Fino, se fosse perseguita da tutti i Paesi, mangiando solo ciò che producono e che fa parte della loro tradizione, oltre che anacronistico in un mondo globalizzato, sarebbe anche dannoso per la stessa economia italiana, che dall’export agroalimentare guadagna oltre 60 miliardi di euro annui. Non c’è nemmeno bisogno di tirare in ballo l’origine americana del pomodoro o quella araba del gelato per accorgerci che mettere bandierine sulla tavola e rigettare ogni novità è un atteggiamento superato e controproducente.
Eppure, per molti appigliarsi alle rassicurazioni quotidiane del panino al prosciutto e del bicchiere di vino in nome della buona, vecchia tradizione diventa un modo per non perdersi, qualcosa in cui riconoscersi, in contrapposizione alla minaccia dell’Altro, che siano presunti invasori, con il loro kebab, o i fantomatici poteri forti che vogliono imporci ingredienti nuovi e sospettosi come la farina di insetti. Ecco allora che la tavola è un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi in mezzo alle incertezze, e queste prese di posizione hanno meno a che fare con i nostri gusti di quanto ne abbiano con il nostro rapporto con gli altri e con la nostra identità, in nome della quale siamo ben disposti a sacrificare la nostra salute e quella del pianeta. Ma fino a che punto vogliamo continuare a danneggiarle pur di rispecchiarci nella rassicurante cucina della nonna, capace – così crediamo – di distinguerci da chi mangia diversamente da noi, e in un certo senso facendoci sentire migliori? Invece che batterci strenuamente per il prosciutto, sarebbe urgente rivalutare il nostro morboso legame con la tradizione, per cambiare prospettiva anche rispetto al cibo. In questo orizzonte un po’ di sana educazione alimentare non guasterebbe, soprattutto di fronte alle evidenze in tema di nutrizione e di impatto climatico. E se proprio vogliamo difendere qualcosa della nostra tradizione, difendiamo piuttosto la convivialità, che significa accoglienza e condivisione e non certo esclusione e discriminazione.