Abbiamo tutti presente quelle scene di Caro diario in cui Nanni Moretti gira per Roma in pieno agosto con la sua Vespa, visto che ne esiste addirittura una versione GTA, tanto sono diventate parte del nostro patrimonio culturale. Nel film, a un certo punto, il regista si ferma in quello che definisce il suo quartiere preferito, la Garbatella: Moretti si addentra nei lotti popolari con una scusa – sta girando un film su un pasticcere trotzkista – e si gode l’atmosfera calda e surreale della città giardino di Roma sud. Il film in questione è uscito nel 1993, quando io ero appena nata, e nella maggior parte dei casi se un posto di quegli anni viene descritto come una sorta di paradiso terrestre, oggi si è trasformato in qualche obbrobrio turistico o centro commerciale a cielo aperto. È una considerazione da vecchio con le mani dietro alla schiena che fissa i cantieri, “una volta qua era tutta campagna”, eppure spesso non è molto lontana dalla realtà. Specialmente in una città come Roma, che negli ultimi vent’anni si è trasformata – come tutte le capitali europee – in un parco divertimenti per avventori con bermuda e sandali. Non c’è nulla da fare, è lo spirito del tempo, e lamentarsene non è nemmeno così originale. Quello che si può fare, invece, è andare oltre al pacchetto standard colazione+visita al museo+cena in pizzeria e cercare tutto quello che delle grandi città è rimasto ancora autonomo e impermeabile all’omologazione, ai Foot Locker e ai Burger King attaccati ai negozi di souvenir di Papa Francesco. La Garbatella è uno di quei posti e continua misteriosamente a resistere, esattamente come ha fatto con il fascismo quasi un secolo fa.
Che Roma sia una città fatta di tantissime piccole città è cosa risaputa: ogni quartiere ha la sua storia, la sua identità, la sua fede calcistica, la sua fede politica, i suoi personaggi, il suo carattere. Non è un luogo comune, è proprio la struttura che si mostra come una specie di mosaico attraverso il quale passa una linea retta che divide nord e sud, non solo da un punto di vista geografico ma anche antropologico. Se vai a Ponte Milvio ci troverai davvero un’atmosfera da Federico Moccia, coi pischelli in macchinetta cinquanta e i vestiti firmati; a Trastevere e nei pochi posti rimasti ancora vergini dall’invasione turistica in stile To Rome with Love ci trovi il baretto dove gira un pazzo con la chitarra che canta Venditti in piazza San Calisto e la cioccolateria Valzani che sembra non essersi accorta che nel frattempo la Democrazia Cristiana si è estinta e che il muro di Berlino è crollato. Alla Garbatella tutto ciò si amplifica in modo esponenziale, e non ho mai capito perché fino a quando non ho cominciato a documentarmi sul quartiere, anche chiedendo spiegazioni ai suoi abitanti storici. Sì, ci sono dei locali e ci sono dei segni della modernità che si fanno largo, ma in modo decisamente meno prepotente che in tutti gli altri quartieri storici della capitale. Una zona che, in potenza, si presta molto bene alla gentrificazione o alla riqualificazione turistica, come è successo per il Pigneto – quartiere ormai quasi del tutto in mano alle varie hamburgherie e ai trentenni che scrivono sceneggiature mentre bevono centrifugati – o per San Lorenzo, roccaforte universitaria impraticabile se non per bere birra e contare i CFU mancanti.
Quando esci dalla fermata della metro e cammini per la Garbatella, poco importa che giorno della settimana sia e di che stagione si tratti, l’impressione è sempre che attorno a lei ci sia una bolla che filtra tutte quelle cose che mi danno fastidio degli altri quartieri di Roma. C’è silenzio ma c’è anche tanto dialogo tra le persone che abitano là, ci sono i cortili dei lotti sempre aperti – e no, non ho mai avuto bisogno di dire che stavo girando un film su un pasticcere trotzkista per giustificare la mia presenza. Guardando le facce dei ragazzini seduti sui muretti, o delle signore sulle sedie di plastica fuori casa, circondate dai lenzuoli appesi nei cortili, sembra tutto estremamente omogeneo, senza note che stonano. È una cosa rarissima, questa, negli anni della globalizzazione e delle metropoli; è una sensazione che mi capita di provare solo quando mi trovo in qualche paese sperduto.
Per capire meglio da dove inizia la storia della Garbatella e cosa l’ha portata a diventare quell’isola apparentemente felice e incorruttibile che è oggi, bisogna innanzitutto conoscere le origini su cui si fonda la borgata giardino. È una storia molto interessante, perché suddivide il quartiere stesso in più blocchi in base all’epoca in cui sono stati costruiti, nonostante l’aspetto uniforme. Di conseguenza, ogni fase architettonica rappresenta anche una fase storica, un fenomeno che probabilmente sta alla base di tutta Roma (e della maggior parte delle città d’Italia), dove siti archeologici convivono con strutture medievali e rinascimentali, come nel caso del Teatro Marcello. L’intenzione da cui partiva la Garbatella era piuttosto nobile, nonostante avesse come base una spinta commerciale: il 18 febbraio del 1920 il Re Vittorio Emanuele III posava la prima pietra della borgata Concordia, nome che poi si trasformò in Remuria fino a cedere definitivamente il posto a quello che conosciamo oggi. Il progetto era dell’assessore capitolino Paolo Orlando, ingegnere di origini siciliane che insieme agli architetti e progettisti Giovannoni, Piacentini e Sabbatini diede forma a quell’idea di quartiere decisamente utopistica e ambiziosa. Il piano, come spiega bene Gianni Rivolta nel suo libro Garbatella tra storia e leggenda, prevedeva di costruire una darsena sul Tevere e un canale navigabile che unisse Roma a Ostia.
Le abitazioni dovevano essere da supporto per tutta la popolazione di operai, alla maestranza del porto e delle attività circostanti. Il progetto si fondava su una teoria degli spazi ambiziosa: le città giardino, sul modello delle garden city nordeuropee, avevano come obiettivo quello di creare all’interno dei lotti degli spazi comuni, dei pezzi di verde coltivabili che ricreassero la stessa atmosfera della vita di campagna. Uno spazio condiviso che stimolasse solidarietà e uguaglianza, al contrario della sempre più pervasiva alienazione metropolitana che separava – e separa tutt’oggi, molto più di allora – la vita privata dalla vita sociale. Inoltre, gli architetti che lavorarono ai progetti delle abitazione avevano la possibilità di operare con molta libertà, sperimentando per esempio lo stile del barocchetto romano, una forma decorativa che rendeva le case della Garbatella non solo funzionali ma anche esteticamente piacevoli, sempre sul modello anglosassone.
Dopo la prima fase, quella giolittiana, la Garbatella – e con lei l’Italia intera – si trovava nelle mani del fascismo. I piani avveniristici di un quartiere cittadino dove le persone potessero sentirsi ancora in grado di mettere in pratica quei valori campagnoli e solidali che li avevano supportati fino a quel momento si trasformavano in un frettoloso e rocambolesco deposito umano. Non più giardinetti coltivabili dove fare l’orto, ma grandi palazzi dove poter infilare tutti gli sfollati dalle baracche e gli abitanti dei quartieri centrali che il Duce stava riqualificando, come il quartiere Rinascimento e tutta la zona di via della Conciliazione. Bisognava fare spazio alla magnificenza fascista, e i poveri cozzavano con l’idea gloriosa che Mussolini voleva dare di Roma. Così, la seconda fase espansiva della Garbatella è quella dei vari palazzi fascisti, chiamati “gli Alberghi”: non erano solo case per baraccati e sfrattati dal centro storico, ma anche discariche per sovversivi e nemici del fascismo. Per un paradosso, nemmeno poi così assurdo, Mussolini aveva creato un’isola di resistenza e di antifascismo nel cuore della Garbatella proprio mettendo insieme tutti i suoi detrattori in un unico posto. Ed è da questo episodio che probabilmente prende vita l’anima profondamente rossa e antifascista del quartiere, dove la sezione del PCI negli anni Settanta contava il numero più alto di iscritti in tutta Roma, come mi raccontano i membri ancora attivi dalla vecchia sede La Villetta.
Questo spirito comunitario e dedito alla solidarietà sociale, dunque, gioca un ruolo fondamentale nella mancata gentrificazione della Garbatella: negli anni Novanta infatti cominciavano le prime vendite delle case popolari assegnate un tempo dall’ICP (Istituto per le Case Popolari) poi diventato IACP, ed è in quel momento che il quartiere ha rischiato di perdere ogni traccia della sua vecchia identità fortemente operaia e popolare per sostituirsi a qualche generico luogo per borghesi affascinati dalla genuinità di posti come la fontana Carlotta. Il contributo della Villetta, un luogo da cui passarono grandi esponenti del Partito Comunista Italiano, è stato fondamentale perché ha garantito assistenza legale gratuita agli abitanti del quartiere e ha fatto in modo che le case fossero vendute, o affittate, ai suoi proprietari originari. Certo, non è andata sempre così e c’è chi ha preferito vendere, ma la ragione più decisiva per la preservazione dell’anima del quartiere è da imputare proprio a quel tessuto politico e sociale che si è formato alla Garbatella dagli anni del fascismo in poi, una rete che si è espansa negli anni Novanta con l’occupazione del centro sociale La Strada, ancora attivo e ancora fortemente presente sul territorio.
Un’altra ragione per cui la Garbatella non è ancora diventata la sede per una serie di locali che hanno come unico obiettivo quello di trasformare ogni via in una ludoteca per maggiorenni o sedi di H&M e Zara vari, molto probabilmente, è che la struttura stessa del quartiere non lo consente. Gli spazi sono distribuiti in modo tale che non sarebbe fisicamente possibile adibire i lotti a una sorta di Rambla per fuorisede o a un parco-giochi per turisti, perché non ci sarebbero proprio le botteghe da utilizzare. La conformazione a città giardino non consente di convertire quei luoghi che sono allo stesso tempo pubblici e privati in zone esclusivamente commerciali. Dunque, se da un lato la proprietà delle case continua a rimanere proprio di quegli abitanti storici del quartiere che si tramandano per generazioni, dall’altro l’ostilità della conformazione della Garbatella la protegge dalle invasioni della modernità. Ed ecco che si spiega il motivo per cui sembra essere ancora così solida nel suo spazio, anche se ovviamente non è detto che tutto ciò potrà durare in eterno. Non è detto che piano piano la Garbatella si possa svuotare dalla sua stessa anima, e non è detto nemmeno che non si possa svendere. Certo è che per ora sembra non voler mollare la presa.
C’è anche da tenere in conto, inoltre, che il quartiere di Alberto Sordi e dei protagonisti di Una vita violenta di Pasolini – oltre che di Giorgia Meloni e dei Cesaroni, ma questo forse conta un po’ meno – non è sempre stato questo idillio urbano intoccabile e inaccessibile. Nel tempo, anche grazie alla nascita dell’Università Roma Tre, la riqualificazione della zona è stata molto intensa. C’erano anni in cui famiglie numerosissime vivevano nei lotti senza nemmeno il bagno in casa (da lì infatti la famosa struttura dei bagni pubblici), in cui le persone si vergognavano a dire che venivano dalla Garbatella e per sviare dicevano che abitavano vicino l’Eur; c’è stato poi il periodo dell’eroina, in cui tantissime famiglie della zona sono state distrutte. Oggi sembra essersi tutto molto attenuato e ripulito, e nessuno si vergogna più di dire da dove viene, anzi, è un dato che si può tranquillamente utilizzare come motivo di vanto. Dire che vieni dalla Garbatella è un po’ come dire che sei di una razza speciale, quasi estinta, una sorta di rinoceronte bianco capitolino, prezioso e da preservare. Io, personalmente, ho abitato per un po’ giusto accanto la Garbatella vecchia e negli ultimi anni ho cominciato una vera e propria ricerca ossessiva di una casa in un lotto. È una sensazione strana, perché da un lato spero con tutta me stessa prima o poi di diventare anche io un rinoceronte bianco e dire che vivo alla Garbatella, proprio in una di quelle case col cortile pieno di panni stesi e di gatti appollaiati sui muretti, dall’altro invece spero che questo quartiere mi rifiuti così come ha rifiutato tutto quello che lo voleva distruggere.
Tutte le foto sono di Alessandra Lanza. Segui Alessandra su Instagram.