Quando andavo alle elementari, un giorno un mio compagno festeggiò il suo compleanno in classe. Al momento della torta, gli altri ragazzi intonarono un “Tanti auguri a te” sostituendo al nome del festeggiato l’aggettivo “ciccione”. Ricordo di aver guardato il mio compagno e di averlo visto scurirsi in volto di colpo, cercando però al contempo di sdrammatizzare e di non far trapelare quanto fosse rimasto ferito. Qualche giorno dopo, la mamma del ragazzo raccontò l’accaduto alla mia, e in quel momento iniziai a capire cosa fosse il bullismo, benché a quei tempi se ne parlasse molto meno di oggi. Quel mio compagno fu preso in giro sistematicamente per il suo corpo per tutti gli anni delle elementari. Da allora, alla piaga del bullismo si è dedicata – per fortuna – molta più attenzione, anche se comunque non abbastanza, dato che spesso oggi se ne parla nel modo sbagliato: questa parola viene talvolta utilizzata a sproposito, per indicare comportamenti e situazioni che, con ciò che ai tempi ha vissuto per esempio il mio compagno, hanno ben poco a che fare.
Come accade per molte piaghe sociali, quando la sensibilizzazione su un tema degenera in un uso inflazionato – oltre che non pertinente – di alcune specifiche parole, il risultato è che pian piano queste perdano la loro efficacia comunicativa. È ciò che sta accadendo alla parola “bullismo”, oggi abusata da vip e personaggi influenti in occasioni pubbliche, durante interviste, talk televisivi o sui loro profili social. In particolare, capita sempre più spesso che figure note rivelino di aver subito bullismo, a scuola o comunque in giovanissima età, da coetanee e coetanei invidiosi della loro bellezza e del loro successo. Alcuni raccontano di essere stati presi di mira perché, nel gruppo, spiccavano per determinate qualità, per lo più estetiche, o per una fama conquistata repentinamente e che avrebbe suscitato invidia nei compagni; altri, spesso, sottolineano di non averne sofferto in modo poi così profondo, e di aver superato il problema grazie all’aiuto di un docente particolarmente empatico, che li ha ascoltati e spronati ad andare avanti nonostante l’ostilità altrui. Tutte situazioni che vengono accostate al bullismo dagli interessati ma che, di fatto, sembrano essere realtà ben diverse dal bullismo vero e proprio.
Posto che sarebbe un errore minimizzare la sofferenza di una ragazzina che subisce l’invidia e l’ostilità dei compagni, parlare genericamente – come in questo caso – di bullismo è un errore. Ed etichettare con questa parola qualsiasi atto che manifesti un’antipatia o un’invidia, anche in modo violento, è fuorviante. Per quanto esecrabile e capace di produrre una sofferenza profonda, l’invidia agita in modo aggressivo non può essere messa sullo stesso piano del comportamento di bulli che perseguitano chi non può difendersi non solo perché in inferiorità numerica, ma perché colpito su una propria debolezza – che può essere un deficit di qualsiasi tipologia, un difetto fisico, un tic o un comportamento superficialmente bollato come “anormale”, o una forte insicurezza. È indubbio che subire l’invidia altrui possa procurare una sofferenza forte, soprattutto se accade quando si è molto giovani. Ma il bullismo, che si accompagna allo scherno, alla discriminazione e alla prevaricazione da parte di un branco, è una piaga sociale qualitativamente diversa perché spesso va a colpire quelle vulnerabilità che ci rendono umani, gli uni diversi dagli altri, che tutti dovremmo poter condividere senza doverci vergognare e senza rischiare di incontrare la derisione, il disprezzo o la violenza altrui. In alcuni casi, si tratta di fragilità o disabilità che compromettono le nostre capacità cognitive, motorie, relazionali, che possono inficiare la qualità della nostra vita. O che diventano persino terreno fertile contro cui ragazzi aggressivi – spesso a loro volta bullizzati in passato – finiscono per sfogare la propria impotenza, frustrazione, violenza repressa.
Capita di sentir dire da chi racconta di aver subito bullismo che l’esperienza lo abbia aiutato a crescere, ma anche questo è un errore e rivela quanto si accosti a questa espressione qualcosa che non ne ha nulla a che fare; il bullismo infatti è soltanto qualcosa di terribile, che può capitarti quando non sei ancora strutturato per reagire in maniera efficace o per farti scivolare addosso la cosa; e, se ti va male, ti fa diventare bullo a tua volta pensando che quello sia l’unico modo per evitare le vessazioni altrui; se ti va ancora peggio, invece, ti fa soccombere di fronte alla cattiveria di chi infierisce sulle tue debolezze, facendoti sentire sbagliato e meritevole del rifiuto altrui, e questa etichetta ti si attacca addosso e rischia di non andarsene mai via. Essere bullizzato spesso ti impedisce di crescere in modo sano – lo osservo a scuola tutti i giorni, ma lo si legge sempre più spesso anche sui giornali.
Sarebbe bene precisare che l’impatto che l’invidia altrui, innescata da veri o presunti nostri privilegi o qualità cui anche gli altri ambiscono, ci mette sì in una condizione di disagio e sofferenza, poiché essere oggetto di ostilità non è mai piacevole, soprattutto quando si è giovani e non si hanno gli strumenti per reagire, o per farsi scivolare addosso la cosa; ed è vero anche che quell’invidia può produrre in chi la subisce un senso di colpa, rispetto alla propria bellezza o quegli aspetti che ci inimicano gli altri, e tutto questo è ingiusto poiché nessuno dovrebbe “scontare” una propria fortuna o qualità. Ma è anche vero che situazioni di questo tipo, soprattutto se vissute con consapevolezza dalla persona invidiata, si portano dietro una sofferenza ben diversa da quella di chi è discriminato, vessato e umiliato per una propria, più o meno palese, debolezza o mancanza. Perché se nel primo caso l’invidiato è in qualche modo messo su un piedistallo da chi prova invidia, in quel bullismo che talvolta porta addirittura al suicidio si mescolano non solo l’ostilità dei bulli, ma la crudeltà di attaccare e infierire sui punti deboli altrui. La persona bullizzata in questo caso non solo viene letteralmente perseguitata, ma può sviluppare un senso di rifiuto e disprezzo per quella debolezza su cui il branco si accanisce, che potrebbe impedirgli anche in futuro di accettare la propria natura e modo di essere. Chi viene bullizzato rischia di crescere con la paura del mondo esterno e delle relazioni; e provare quindi un complesso di sentimenti e sofferenza molto diverso dal malessere per uno o più coetanei invidiosi delle tue qualità estetiche e del tuo “successo”. Chi è vittima spesso desidererebbe scomparire piuttosto che attirare l’attenzione – e il disprezzo – altrui per i propri difetti, veri o presunti, e questa condizione è ben diversa da chi è inviso perché particolarmente attraente o famoso.
Benché ci sia ancora chi non vuole ammettere che il linguaggio quotidiano ha una enorme influenza sulla nostra forma mentis, è innegabile che la sensibilizzazione rispetto a certi temi passi anche attraverso l’uso corretto delle parole che li descrivono. Le parole sono azioni, e se usarle in modo appropriato può riuscire a trasformare la realtà, abusarne può, di contro, nuocere alla stessa. Parlare superficialmente e genericamente di bullismo, accostando la condizione di chi viene emarginato e brutalizzato per una debolezza a quella di chi è talmente “bello, fortunato e di successo” da essere oggetto di invidia, è sbagliato anche se purtroppo è un’abitudine che si sta diffondendo.
Se si ritiene di aver sofferto per invidia che la propria bellezza suscitava nelle coetanee, non bisognerebbe parlare di bullismo. Ma una volta che ci si espone usando una parola tanto delicata, quell’uso dovrebbe essere ponderato e giustificato, altrimenti si rischia di essere accusati di strumentalizzazione per sollecitare l’emotività di chi ascolta, e di forzare la realtà per dare una “notizia shock”, come si usa dire in certe trasmissioni. Nelle scuole capita quotidianamente che ragazzi più insicuri, meno spavaldi di altri, vengano presi di mira perché considerati deboli, presi in giro dal branco qualunque cosa dicano o facciano; succede che altri vengano derisi per una caratteristica fisica, o colpiti in un punto debole come può essere un deficit cognitivo. Mi è capitato di assistere al pianto di un ragazzo con un ritardo diagnosticato che, pur ferito dal comportamento di alcuni compagni che lo prendevano in giro ripetutamente, non riusciva a trovare le parole per spiegare il suo disagio, perché il suo deficit gli impediva di spiegare in modo chiaro ciò che viveva. E in casi del genere, la difficoltà nella comunicazione del malessere rende il problema ancora più grave.
Oggi, fortunatamente, si fa molta sensibilizzazione sul tema: proprio a scuola, si provano a organizzare attività che affrontino questa tematica, per stimolare la discussione e permettere agli studenti che, magari, vivono una condizione simile, di aprirsi con gli adulti che possono aiutarli. Vero è che, nei casi più gravi, il dialogo con un insegnante e con i compagni non è sufficiente, ma c’è bisogno di un cambio di mentalità e di approccio a quelle che vengono considerate diversità o debolezze. Per fare un esempio, un mio studente mi ha rivelato di essere diventato bullo per non essere bullizzato a sua volta, come gli era capitato in passato: “Se non mi mostro più forte degli altri, gli altri se ne approfittano e io divento vittima”. Ecco, forse bisognerebbe agire sulle nuove generazioni ridefinendo i concetti di forza e debolezza, che da sempre vengono travisati in una chiave dannosa.
Non tutte le cattiverie diventano automaticamente atti di bullismo: se continuiamo a usare una parola che inquadra una piaga come questa – che oggi devasta la vita di moltissimi giovani – in modo superficiale e generico, anche questa finirà, come tante altre inflazionate, per perdere la sua efficacia, essere trattata con approssimazione e, di conseguenza, le persone realmente bullizzate rischieranno di essere sempre più trascurate.