Qualche mese fa sul New York Magazine ho letto un articolo intitolato “A vibe shift is coming. Will any of us survive it?”. Il termine “vibe shift”, definito dalla stessa autrice “accattivante ma un po’ troppo cool”, è stato inventato da un tale – esperto di tendenze, anche per Nike – per definire tutti quei cambiamenti nel contesto di un’epoca che i media amano catalogare in cluster e definizioni omnicomprensive – come “Gen Z” o “Millennials” – utili solo a riempire i power point delle strategie di marketing dei brand e dividere la popolazione giovanile a mazzi, come se tutte le complessità di un individuo potessero essere appiattite a uno stereotipo culturale. Una decina d’anni fa, per esempio, è stato inventato il normcore: una tendenza che avrebbe avuto l’obiettivo di affrancarsi dall’ossessione di distinguere a tutti i costi la propria identità social da quella degli altri, adottando un atteggiamento sobrio, spento, quanto più possibile “normale”, che mirava a scardinare il vecchio modello per accreditarsi come rilevanti nella scala di valore altrui.
Che la cultura dominante sia soggetta a continue evoluzioni è un dato di fatto. Allo stesso modo, è innegabile che questi cambiamenti siano determinati anche da variazioni della sensibilità e del gusto, che sono spesso portatrici di un preciso peso sociologico. Tra la presunta scomparsa dei Millennials e i rivolgimenti sociali che affondano nel nostro atteggiamento, modificandolo intimamente, però, c’è una differenza sostanziale. La nuova macro-tendenza in cui ci stiamo inserendo oggi, infatti, rappresenta un fenomeno reale e più profondo, che va ben oltre l’ansia catalogatrice del presente e si esprime in un principio di resistenza ai cambiamenti imposti dall’esterno. I meccanismi che spingevano le persone a fare sacrifici per modernizzarsi, arricchirsi e diventare più belle sembrano dare i primi segni di cedimento nella loro capacità di stimolare i comportamenti sociali.
Un nuovo cambiamento di paradigma si sta concretizzando nel crescente rifiuto dei parametri irraggiungibili – sia estetici che esistenziali – che ci sono stati propinati senza sosta per decenni, e in una generale sfiducia nella cultura del sacrificio che ha sempre orientato tanto le nostre ambizioni lavorative, quanto i nostri ritmi. Alla grande narrazione dell’ascesa individuale, rivelatasi insostenibile, sembra si stia sostituendo un forte desiderio di abitare i propri confini soggettivi, quelli già tracciati, rivendicando il diritto di non dover per forza fare qualcosa per estenderli, o abbandonarli. Un tentativo, dunque, di allontanare tutte le spinte che ci impongono di diventare sempre qualcosa di diverso da ciò che già siamo, e di contrastare le pressioni sociali che ci portano a rincorrere risultati inattuabili in termini di produttività, bellezza e successo.
Il Goblin Mode, che per un breve periodo del post-pandemia ci avrebbe reso una serie di versioni casalinghe del Signor Merda di Leos Carax, doveva rappresentare uno dei segnali di questo ripiegamento indulgente, che ci avrebbe permesso di prendere confidenza con i nostri limiti. A dare le proporzioni reali dell’attuale tendenza, invece, sono i dati dell’ultimo rapporto Censis di dicembre 2022, secondo cui l’83,2% degli italiani non è più disposto a fare sacrifici per seguire il modello degli influencer o di altre figure aspirazionali; l’81,5% a vestirsi secondo la moda; il 70,5% ad acquistare prodotti di lusso, il 63,5% a impegnarsi per sembrare più giovane, e il 58,7% per diventare o sentirsi più bello. Il 36,4%, inoltre, ha dichiarato di non essere più interessato a faticare per aderire alla mitologia della carriera. Premesso che secondo me questi dati vanno letti in prospettiva e nutro forti perplessità sul fatto che il modello di successo Sanremo – che rappresenta lo status quo culturale – sia stato davvero superato, la sintesi che emerge testimonia una sofferenza generale.
Il rapporto elenca una molteplicità di ambiti della vita quotidiana in cui la presa dei miti proiettivi e delle promesse illusorie che hanno sempre mosso la nostra spinta al sacrificio ha iniziato a rivelarsi inefficace. Da una parte, la nausea che percepiamo al profilarsi di ogni possibile cambiamento è una reazione alla precarietà del presente, una risposta all’estrema variabilità di circostanze sperimentata ultimamente, che sta diventando sfinente soprattutto per le nuove generazioni, perché ci fa percepire qualsiasi mutamento dello stato di cose come potenzialmente negativo o pericoloso. Dall’altra, però, questo atteggiamento serve a creare una frattura netta con l’accumulo di frustrazione provata a seguito dei sacrifici che abbiamo fatto in passato, ma che non hanno portato ai risultati che ci aspettavamo. Rinunciare a cambiare, abbandonare la volontà di diventare altro da sé, infatti, significa dichiarare a modo proprio di aver scoperto la menzogna nascosta dietro alle simbologie mobilitanti del capitalismo, a partire dalla riduzione della dell’identità alla professione; per arrivare alla distorsione dei canoni estetici, e all’arbitrarietà con cui vengono elevati a criteri di valore sostanziali per giudicare chi ci circonda.
Il principale cono d’ombra della cultura del sacrificio di cui abbiamo iniziato a prendere coscienza è quello del privilegio. La retorica di chi si è fatto da solo – ma ha avuto a disposizione il patrimonio di Charles Foster Kane – oggi è rilevante a livello sociale solo perché viene percepita come sempre più odiosa, così come tutte le declinazioni del successo e del lusso esibito sui social. Di fronte alle vulnerabilità strutturali che negli ultimi anni si sono cristallizzate a livello economico, sociale ed esistenziale, molte delle narrazioni che individuano nella mancanza di volontà e spirito di sacrificio la principale causa delle disparità tra classi e della scarsità di opportunità economiche hanno iniziato a crollare, dopo essersi trascinate dalla pubblicazione di The Rise of Meritocracy del sociologo inglese Michael Young nel 1958, all’invito di Kim Kardashian ad “alzare il culo e a lavorare” fatto in un’intervista appena qualche anno fa.
Uno dei meccanismi che ha alimentato a lungo la spinta al cambiamento nel sistema in cui viviamo, infatti, è fortemente legato al valore morale attribuito intrinsecamente al sacrificio, che è esattamente ciò che è venuto a mancare. La connessione che si sta sfilacciando è quella che unisce la scelta di sacrificarsi e la presunta garanzia di essere, per questo, necessariamente migliori di prima, o migliori degli altri. Al contrario, l’istanza maggiormente sentita tra quelle che emergono dal rapporto è quella di equità reale e intesa in senso marxista (quasi il 90% delle persone, infatti, lamenta il gap di retribuzione rispetto alla posizione lavorativa ricoperta e alle proprie esigenze quotidiane). Il rischio maggiore – che non possiamo negare di veder profilarsi in molti ambiti della nostra vita – legato al rifiuto dei cambiamenti imposti dall’esterno è quello di sfociare in una paralisi totale, in grado di intaccare progressivamente qualsiasi tipo di spinta propulsiva e trasformativa e di estinguersi così in rassegnazione, inerzia, “malinconia sociale” – per utilizzare le stesse parole del rapporto. Ma questo ritorno su noi stessi può essere anche l’occasione di oltrepassare la forte insofferenza che proviamo nei confronti delle formule semplicistiche, generiche e colpevolizzanti con cui abbiamo liquidato per anni esigenze e scopi diversi, incasellandoli in moduli a crocette per trattarli come mille altri; e alimentare un movimento di elaborazione di obiettivi propri, misurati su ciò che vogliamo fare – e non che sentiamo di dover fare, per considerarci migliori.
Secondo l’analisi di costume del New York Magazine “con la pandemia e il cambiamento climatico, la nostra estetica e il comportamento sono stati plasmati da un senso di sventura. C’è del nichilismo nel modo in cui la gente si veste e fa festa; più ci avviciniamo alla morte, più i nostri tacchi si alzano”. Ma il punto è esattamente l’opposto, ovvero che in questo caso non si tratta soltanto di tacchi. L’impatto violento che gli eventi degli ultimi anni hanno avuto su di noi ci sta portando a rinunciare alla positività a ogni costo, e a rifiutare la corsa all’auto-affermazione indiscriminata; permettendoci di prendere consapevolezza di quali siano le spinte della volontà che vale la pena di ascoltare, a differenza di quelle costrittive e illusorie che generano desideri indotti o destinati alla frustrazione. Per la prima volta, dunque, possiamo pensare di sopravvivere a un cambiamento sociale in un certo senso “peggiorando”, ovvero abbandonando le imposizioni di un pensiero positivo e di un culto del sacrificio che a fronte delle crisi che ci siamo trovati ad affrontare non sembrano starci più tanto bene addosso, perché non sono più credibili. Questa forma di nichilismo, che ha sgonfiato alcuni dei simboli della realizzazione personale così come l’abbiamo concepita fino ad ora, consente di rivendicare il nostro diritto di continuare a essere anche la versione attuale di noi stessi, ed è un modo per provare a stare in equilibrio nel presente senza lasciarci divorare da categorie distorte – sia quando ci impongono di cambiare, sia quando assolutizzano il nostro ego, i nostri gusti, le caratteristiche della nostra generazione – che non hanno mai davvero rappresentato nessuno.