Qualche anno fa impazzava in tv lo spot di una celebre firma di navi da crociera in cui una persona, ripresa nelle più semplici attività quotidiane – dal bagno nella vasca, alla coda al supermercato – scoppiava a piangere e di fronte allo sguardo attonito dei presenti spiegava: “Sono appena tornata”. Lo sconforto da rientro dalle ferie è una sensazione diffusa, ma al di là dello spot riuscitissimo c’è poco da ridere. Le vacanze estive, intoccabile àncora di salvezza dallo stress accumulato durante l’anno, non sembrano più essere sufficienti a staccare davvero dalla routine quotidiana. Si finisce così non solo per non godersi il riposo, ma persino per tornare in ufficio stanchi come prima se non di più, in un ciclo che invece di alleviare lo stress lo alimenta. Il desiderio di staccare dalla routine frenetica dell’anno lavorativo è prodotto dall’accumulo di stanchezza, scadenze e tensioni che ci portiamo dietro, ma sono proprio queste a rendere più difficile il godersi le vacanze e, poi, il ritornare a lavoro. Ciò segnala che forse c’è bisogno di ripensare la struttura stessa dell’anno lavorativo e il nostro approccio agli impegni.
Nella società capitalista votata alla performatività costante e alla competizione, in cui non c’è tempo per fermarsi e, semplicemente, vivere, le vacanze sono l’unica parentesi in cui l’ozio è consentito, nella misura in cui permette di ricaricare le batterie per tornare più produttivi di prima. Il riposo, infatti, in tutti gli altri casi nel panorama lavorativo e sociale viene stigmatizzato come segno di pigrizia, perché “chi dorme non piglia pesci”. Accettabile solo come spazio di recupero fisico e mentale dopo una fatica, il riposo è percepito in tutti gli altri casi come improduttivo e, dunque, inutile, dal momento che non produce beni consumabili; l’ozio fine a se stesso, dice la saggezza popolare, è il padre di tutti i vizi, quando in realtà potrebbe essere l’unico modo che abbiamo per fermare la ruota da criceti che è il nostro cervello nel tritatutto delle settimane, per rilassarci finalmente, dedicandoci alla contemplazione, al piacere e al dialogo con noi stessi, troppo spesso sacrificato.
A questa prospettiva punta chiunque sia stanco mentalmente o fisicamente per le troppe ore di lavoro, che non lasciano spazio per nient’altro. Non si vede l’ora di poter finalmente non far niente. E le vacanze sono una necessità tanto più forte quanto più il lavoro si espande, fino a fagocitare anche il tempo del riposo e della vita privata, le serate e i fine settimana. Le barriere tra lavoro e vita privata sono ulteriormente assottigliate dal digitale, che da un lato rende più fluido ed efficiente il lavoro, ma dall’altro fa sì che questo ci persegua anche fuori dall’ufficio, mantenendoci costantemente connessi e raggiungibili da messaggi ed email. In questo modo, gli spazi vuoti quasi scompaiono e le ferie estive, quelle in cui non ci si sente in colpa per la nostra assenza, perché anche gli altri colleghi sono in vacanza, diventano un miraggio. A peggiorare la situazione ci sono il sovraccarico di mansioni e incombenze – con oltre il 9% dei lavoratori italiani che lavora 50 ore a settimana – ma anche il precariato che spinge a mostrarsi sempre disponibili, efficienti e servizievoli nella speranza di essere confermati alla scadenza del contratto, e la partita IVA che, pur con tutti i vantaggi della flessibilità, impone spesso di lavorare più dei dipendenti e mette di fronte alla scelta tra qualche giorno di vacanza o il guadagno.
Il sovraccarico mentale ed emotivo porta ad anelare alla vacanza come a un miraggio, sognando il rilassamento completo, il nulla che fa dimenticare di avere un’agenda, alleggerisce del peso della pianificazione e libera dal dogma della produttività. Solo che quando le ferie alla fine arrivano è difficile goderne, perché il cervello non è un interruttore da accendere e spegnere a piacimento, ma spesso rimane irrequieto, incapace di lasciar andare il freno da un giorno all’altro. Perché – tra il lavoro che si mangia il nostro tempo, la palestra che riempie gli altri spazi vuoti e le serie tv da recuperare la sera per non sentirsi esclusi dalle conversazioni, senza contare commissioni e incombenze varie ed eventuali – non siamo più abituati a non fare niente, lasciandoci andare forse alla noia, forse ai desideri e alle curiosità che nel “dolce far niente” emergono a sorpresa. Il vuoto spiazza, mette a disagio, ci fa sentire ansiosi e a volte addirittura colpevoli. Lo stress cronico è così normalizzato che siamo completamente disabituati a quel senso di vuoto (che è etimologicamente il senso della parola “vacanza”), alla possibilità di fermarci e di non dover rispondere ai doveri. E questa prospettiva, fosse anche solo per una o due settimane, può generare disagio e ansia; nei casi estremi si può parlare – con lo psicologo spagnolo Raphael Santandreu – di oziofobia.
Questa, unita alla consapevolezza di avere pochi giorni di libertà dal lavoro, nell’impazienza di trarre il massimo dalle ferie, possono indurre a condensare in dieci giorni quante più località ed esperienze possibili; paradossalmente, il vuoto della vacanza si riempie sempre di più, preda della fomo, l’ansia di star sempre perdendo qualcosa, ulteriormente fomentata dai social che, con le loro immagini di cocktail a bordo piscina, trekking in Paesi esotici e albe in spiaggia, ci obbligano al divertimento, possibilmente durante viaggi straordinari dall’altra parte del mondo. Perché se il concetto di vacanza è oggi legato, per molti, a quello di viaggio e di turismo – in definitiva un’altra forma di consumo – anche il bisogno di vacanza è, in un certo senso, influenzato dalle dinamiche di mercato, dal funzionamento stesso del sistema lavorativo e, ovviamente, dal potente marketing di un settore proficuo come quello turistico; anche il tempo libero, proprio come il lavoro, è infatti soggetto alla pressione socio-economica alla produttività. Ecco allora che non fare niente e dedicarsi semplicemente al riposo appare come una scelta controcorrente, impensabile, mentre per qualcuno anche l’andare in vacanza può essere vissuto come un dovere sociale, accettato magari per assecondare il/la partner, ma che si spera finisca il prima possibile per tornare alla rassicurante routine delle responsabilità e delle scadenze, nonostante sia dimostrato che le vacanze aiutano a gestire lo stress, migliorando la qualità della vita.
Anche il rientro al lavoro, però, può essere traumatico e, a peggiorare le cose, c’è il fatto che le vacanze sembrano volare: appena partiti è già il momento di tornare indietro. L’hanno verificato i ricercatori della Ohio State University, secondo cui questa sensazione può avere un effetto a catena; se la si percepisce, per esempio, si è più propensi a concedersi una cena costosa per sfruttare al meglio il poco tempo. La convinzione comune per cui “il tempo vola quando ci si diverte”, inoltre, è una sorta di profezia che si auto-avvera: le persone convinte che sia così, applicando eccessivamente l’idea che ci sia una relazione diretta tra tempo e divertimento, infatti, percepiscono le vacanze come particolarmente rapide e brevi. Secondo gli studi, le maggiori cause di stress e ansia da rientro riguardano la ripresa della routine e il lavoro accumulato, ma anche le difficoltà dell’equilibrio vita-lavoro, la mancanza di tempo per la famiglia e le attività ricreative; e tra le principali strategie citate dalle persone intervistate dai ricercatori compare la rassegnazione – non esattamente un sentimento positivo.
A intensificare queste sensazioni è lo stacco netto tra le poche settimane di ferie e il resto dell’anno, in cui si è chiamati all’efficienza e alla produttività, che rende traumatico il ritorno alla routine lavorativa e agli schiaccianti impegni quotidiani. Proprio questa netta divisione tra lavoro e ferie – la stessa che fa arrivare esausti e impazienti al venerdì e fa intristire la domenica sera – può avere un ruolo nell’impedirci di goderci appieno la vacanza. Per farlo finalmente in modo sano è necessario rallentare il ritmo della vita quotidiana per godersi davvero le pause: non solo disattivare le email e bloccare i gruppi Whatsapp di lavoro, per sottrarsi alla reperibilità costante, ma anche, soprattutto, cambiare l’approccio stesso alle ferie e al lavoro e superare, così, il paradosso per cui quando siamo in ufficio aneliamo il momento in cui saremo legittimati a non fare niente, ma quando finalmente arrivano le ferie, ci ritroviamo spaesati, incapaci di affrontare il tempo libero e prede dell’ansia alla sola idea di non fare nulla, magari con un senso di colpa che alimenta ulteriormente il ciclo dello stress. Se vogliamo veramente godere dei benefici delle vacanze, è fondamentale capire che la soluzione non sta semplicemente nel cambio di data nel calendario: il modo in cui si vive durante l’anno ha un impatto diretto sulla qualità delle ferie. Bisogna, quindi, ripensare il lavoro stesso: la struttura della giornata e della settimana lavorativa, ma anche il valore culturale che alla vita professionale attribuiamo come società; e bisogna rendere il riposo parte della vita anche al di fuori della vacanza, non considerandolo come tempo da perdere o da riempire con altre forme di consumo e di distrazione una volta che si sono spuntate dall’agenda tutte le incombenze; ma tornando ad abbracciare il senso latino originario dell’ozio – inteso come riposo, ma anche come tempo dedicato a se stessi, al proprio piacere e ai propri interessi, senza che questi rispondano a qualche criterio di spendibilità economica o lavorativa – e facendolo diventare parte del quotidiano, un diritto umano per consentire a tutti di diventare protagonisti della propria vita.