No, il femminismo non può essere di destra perché non può limitare i diritti delle donne - THE VISION
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Agosto, e forse questo periodo elettorale in toto, saranno ricordate anche per l’infuocato dibattito, gli articoli, gli editoriali e le discussioni intorno alla possibilità di un’eventuale elezione di Giorgia Meloni come Presidente del Consiglio e delle conseguenze che questo potrebbe avere per l’Italia e per le donne. Giorgia Meloni, infatti, potrebbe diventare la prima donna in 76 anni di storia repubblicana a ricoprire quel ruolo nel nostro Paese e la cosa fa giustamente clamore. Non è certo un segreto che – rispetto ad altri Stati europei, come Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Portogallo, Spagna e Svezia  – il nostro non brilli per equilibrio di genere: basta dare un’occhiata al Gender Diversity Index of Women on Boards and in Corporate Leadership – realizzato da Ewob (European Women on Boards) e Kantar Public per rendersi conto di quali siano le percentuali delle donne impiegate ai vertici e non è un segreto che anche negli ambienti più progressisti – fatte salve poche eccezioni – da sempre si fatichi a lasciare spazio alle donne. A conti fatti, anche quello che si dichiara essere il più grande partito di sinistra italiano, cioè il PD, sembra essere molto più propenso a inserire le donne all’interno delle liste e dei discorsi elettorali piuttosto che a lasciare loro il posto nelle posizioni di comando, tanto da non aver mai avuto una segretaria donna

Giorgia Meloni

Tutto è cominciato con la pubblicazione di un articolo di Natalia Aspesi su Repubblica nel quale invitava le donne a non votare Meloni e alla pubblicazione di un suo secondo articolo nel quale invece citava “Orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti”, un documento lanciato qualche settimana fa sulla piattaforma Change.org da Marina Terragni e sottoscritto da diverse associazioni che si dichiarano femministe. Il documento è un appello a tutte le donne per la costruzione di un fronte politico femminile in grado di scardinare il dominio maschile che ha caratterizzato i quasi ottant’anni di vita politica repubblicana e che possa, al contempo, servire da argine ai progetti “post-umani” propugnati dalle fantomatiche “teorie del gender”. Terragni è un esponente di spicco del femminismo gender critical – quello che, per semplificare, contesta il concetto di identità di genere e crede che una donna sia definita tale a partire dal suo sesso biologico – nota per alcune sue posizioni conservatrici, vicine a quelle di Meloni e FdI. 

Marina Terragni

D’altronde da tempo è risaputo come i partiti conservatori e reazionari di destra tentino anche in Italia di strumentalizzare la parità di genere come leva per portare avanti posizioni razziste, xenofobe e islamofobe. A tal proposito si è parlato di femonazionalismo, ovvero quel fenomeno che porta ad affrontare le questioni che riguardano i diritti delle donne e la violenza contro di loro come se fossero legate alla lotta all’immigrazione incontrollata, all’illegalità diffusa e al degrado, alludendo al contempo al fatto che siano posizioni condivise anche dalle femministe. La condivisione dello stupro di Piacenza da parte di Meloni sui suoi canali social rientra a pieno titolo in questa casistica, visto che ha il solo scopo di nutrire le sue posizioni populiste sui corpi delle donne. A Meloni, così come a Salvini e a tutta una serie di giornali italiani, non interessano infatti i diritti delle donne, né tantomeno la lotta alla violenza di genere, ma associare in malo modo idee femministe distorte alla propaganda elettorale fa gioco, soprattutto se servono ad amplificare il razzismo. Questa però è solo la punta dell’iceberg: le idee di FdI in materia di diritti e donne sono piuttosto confuse. Il 25 agosto a su La 7, Eugenia Roccella ha dichiarato di essere femminista e contraria all’aborto e, incalzata da Laura Boldrini, ha proseguito spiegando che in Italia il diritto all’aborto è garantito, che esiste addirittura un 15% di medici non obiettori e che la maternità è un elemento forte della cittadinanza femminile.

Matteo Salvini

In poco tempo si è generato un calderone di retorica, luoghi comuni, equivoci sul femminismo e quote di genere. Fra chi ha innalzato cori di apprezzamento per una possibile elezione di Giorgia Meloni in chiave femminista c’è infatti chi sostiene che la sua nomina potrebbe avere una grande “valenza simbolica” e si augura che la sua elezione possa servire a rompere il “soffitto di cristallo”, ma c’è anche chi – a ragione – la considererebbe una catastrofe politica, per come rischia di condurre nell’intero Paese politiche repressive e antiabortiste, oltre ad avere idee che definire femministe fa rabbrividire. Nei casi peggiori il dibattito ha assunto toni surreali e a tratti estremamente semplicistici e polarizzanti, ma in tanti – forse in troppi – sembrano chiedersi davvero se sia possibile considerare la vittoria di Meloni come una conquista per le donne. E, ancora, se sia possibile concepire un femminismo di destra. 

Innanzitutto, sarebbe fondamentale partire dal presupposto che non decidiamo noi cosa è femminismo e cosa non lo è: il femminismo è un movimento ben preciso con una sua storia, una sua genesi e dei soggetti che lo hanno teorizzato e portato avanti. È cambiato e si è modificato nel corso del tempo e si può suddividere in momenti diversi, attualmente almeno quattro ondate, in base alle battaglie combattute e al momento storico di riferimento. Sarebbe poi anche più opportuno parlare di “femminismi” al plurale dal momento che il femminismo non è organismo monolitico e ha tante sfaccettature che, però, per quanto diverse hanno tutte lo stesso punto di partenza. I femminismi sono infatti il frutto di un processo di lotta all’esclusione durato secoli, che ha visto le donne tagliate fuori dalla vita pubblica, sociale, politica e culturale della società per uscire da questo stato di invisibilità e subalternità. Riguarda, quindi, in primis il riconoscimento e la consapevolezza di un sistema oppressivo e sbilanciato nel quale nascere donne vuol dire partire in una posizione di svantaggio e di discriminazione.

Lotta per “trasformare” non solo per pareggiare gli squilibri di potere interni alla società, per questo il femminismo dovrebbe in generale racchiudere al suo interno la volontà di includere e non escludere, di evidenziare le storture e di riconoscere i privilegi di pochi su quelli di molti. Come affermato da Michela Murgia, il femminismo non può dirsi tale se non riconosce il sistema nel quale viviamo come ingiusto e squilibrato; se chiama “meritocrazia” il sistema che salvaguarda il privilegio di pochi; e se utilizza questo stesso e la propria libertà per limitare quelle altrui. Dunque, il femminismo così inteso non ha capi, ma appartiene semplicemente a tutti coloro che lottano per un mondo più giusto.

Anche se la notizia di una donna Presidente del Consiglio potrebbe sembrarci qualcosa di positivo, visto lo scenario nel quale siamo immersi, non sarebbe comunque sufficiente a farcela definire una vittoria per le donne o una vittoria del femminismo, dal momento che il solo fatto di avere un utero, appartenere al genere femminile o sentirsi donne non basta a essere femministe o femministi. Non solo: il fatto di essere donna non basterebbe ad annullare le differenze ideologiche – profonde e sostanziali – che passano fra lo schieramento politico e gli ideali di Meloni e le radici ideologiche e filosofiche che animano il femminismo – che si confanno, invece, molto di più allo schieramento opposto. Il femminismo è infatti un movimento intrinsecamente e idealmente legato alla sinistra, non solo da un punto di vista storico, ma perché con essa condivide la volontà di cambiare la società dalle strutture di potere patriarcali per costruirne una nuova e più equa per tutti. D’altronde, in teoria, la destra e la sinistra in Italia in particolare sono schieramenti ben diversi. Se le lotte per la democrazia, per la redistribuzione della ricchezza, per i diritti dei poveri, dei più deboli e degli emarginati, per il benessere e la giustizia sociale di tutti, per la libertà di ognuno e per la separazione della Chiesa dallo Stato sono di sinistra, la destra, almeno quella nostrana sovranista, xenofoba e populista, è invece la negazione di tutto ciò.

In virtù di tutto ciò: come ci si può definire femministe e femministi e non credere nella necessità di eliminare le discriminazioni, nella tutela dei diritti civili e della parità? Le lotte femministe, intese in questo senso, non possono prescindere da altre lotte e dunque dalle alleanze con altre minoranze discriminate: non possono essere separate, per esempio, dalla lotta al classismo o all’omofobia e, in generale, a ogni forma di dominazione sociale. La destra non può e non vuole certo fare sua questa base valoriale – e per certi aspetti nemmeno il PD, a dire il vero. Il femminismo attualmente non può esistere a destra, proprio perché è intrinsecamente intersezionale. È assurdo poi associare femminismo e Meloni dal momento che stiamo parlando di una figura che – sulla base di dichiarazioni fatte in passato – sostiene istanze molto vicine a quelle del Movimento Sociale Italiano, e che, pur avendone preso – dopo molti inviti a farlo – le distanze, nel simbolo del suo partito mantiene la stessa icona, la fiamma tricolore. Se l’Italia avesse seguito l’eredità culturale di quello schieramento politico, alle donne non sarebbe stato concesso probabilmente neanche il diritto di voto, di divorzio, di guidare, di assumere ruoli lavorativi che non fossero subalterni e di fare qualcosa di diverso dal partorire balilla.

A maggior ragione considerando che nel suo programma elettorale, a difesa di quella che viene chiamata “famiglia naturale”, viene garantito il sostegno alle donne perlopiù esclusivamente come caregiver dei figli e dei familiari disabili; e in cui la questione della violenza di genere è inserita nel paragrafo dedicato a “Sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale (quando come mostrano tutti i dati si consuma soprattutto all’interno delle famiglie), e come soluzione viene proposto “l’adeguamento dell’organico e delle dotazioni delle Forze dell’Ordine e dei Vigili del Fuoco e delle Forze armate per consentire un capillare controllo del territorio”. Se Meloni dovesse mai vincere le elezioni non sarebbe affatto perché donna e portatrice delle istanze femministe, ma perché fa il maschio tra i maschi, mentre all’Italia servirebbe una donna femminista.

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