Il cammino che lega le rivendicazioni femministe al riconoscimento dei diritti delle donne da un punto di vista giuridico e istituzionale è lungo e ancora in corso. La revisione del diritto di famiglia, che riconosce parità ai coniugi, ad esempio è stata votata nel 1975, ma solo nel 1981 è stato abrogato il delitto d’onore, e bisognerà aspettare il 1996 affinchè lo stupro venga considerato un delitto contro la persona, e non più contro l’onore. Il dibattito interno ai femminismi sulla relazione con il sistema giuridico, al contrario di quanto alcuni potrebbero credere, non è mai stato semplice.
Nel 1975 usciva Non credere di avere dei diritti, un libro curato dalla Libreria delle donne di Milano – spazio storico del movimento femminista italiano. Nell’introduzione si legge: “Non sono le leggi e neanche i diritti che danno a una donna la sicurezza che manca. L’inviolabilità una donna può acquistarla con un’esistenza progettata a partire da sé e garantita da una socialità femminile”. Il testo continua spiegando che la politica basata sulla rivendicazione dei diritti, per quanto giusta, è una politica subordinata a un sistema patriarcale, quello istituzionale e giuridico, organizzato e gestito dagli uomini. Le donne, al contrario, devono perseguire una politica della liberazione basata sulla relazione e sull’affidamento tra donne: solo questo rapporto, si sosteneva, avrebbe potuto realmente porre le fondamenta per la libertà femminile.
Alle riforme del codice civile e penale, nel 1996 è seguita una tangibile trasformazione istituzionale con la nascita del Dipartimento per le Pari opportunità, organo che coordina tutte le iniziative normative e amministrative per le politiche legate alla parità di genere. Ci sono però voluti altri dieci anni affinché l’Istat organizzasse la prima indagine sulla violenza contro le donne, e solo con il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, adottato nel 2015, è stato previsto un sistema di raccolta dei dati sui femminicidi.
Nel dibattito femminista si è sempre sottolineata l’importanza di un approccio sistemico alla violenza di genere, non solo repressivo e punitivo. La Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia nel 2013, promuove l’approccio delle quattro “P”: prevenzione, protezione, perseguimento dei reati e politiche integrate, riprese nel Piano nazionale dell’Italia contro la violenza (2017-2020). Ma come si legge nel primo report Grevio, l’organismo indipendente che monitora l’applicazione della Convenzione, del 2020, la risposta italiana alla violenza nei confronti delle donne “Continua a essere per lo più guidata dall’idea di dare precedenza all’inasprimento delle pene, senza prestare altrettanta attenzione alla dimensione preventiva e protettiva delle politiche”.
Negli ultimi due decenni il discorso pubblico italiano ha alimentato un senso di paura e insicurezza, al quale si è risposto proponendo politiche securitarie e repressive. In questo modo, la valenza simbolica di pene sempre più severe è stata utilizzata per rassicurare la collettività riguardo ai rischi percepiti, anche se non sempre reali. Dalla vittoria di Alemanno alle elezioni comunali di Roma del 2008 dopo lo stupro alla stazione de La Storta, alla proposta di Fratelli d’Italia sulla castrazione chimica per i casi di stupro in un emendamento ai Decreti Sicurezza del 2018, la violenza contro le donne è sata spesso invocata come giustificazione morale per questo “populismo punitivo”. Ad esempio, in quei Decreti fu poi inserita la revoca o il diniego della protezione internazionale e dello status di rifugiato in caso di reati legati alla violenza sessuale.
Negli Stati Uniti questo affidamento acritico sulla polizia, l’azione penale e la reclusione per risolvere il problema della violenza di genere è stato definito “femminismo carcerario”, un approccio che persegue l’obiettivo della pena individuale e non tiene conto degli effetti sociali della repressione e del carcere. Richiedere pene sempre più dure nega il fatto che le carceri stesse siano luoghi di violenza, e che le politiche repressive rendano alcune donne ancora più vulnerabili alla violenza dentro e fuori le case. Ciò può succedere, ad esempio, per le donne migranti che per paura di perdere il lavoro – e con esso il permesso di soggiorno – nel caso in cui subiscano violenze perpetrate dai datori di lavoro o da chi le ospita non denunciano, in quanto rischirerebbero di perdere i requisiti per restare dove hanno fatto tanta fatica per arrivare. Un altro caso riguarda le sex workers, che per timore di incorrere in atti repressivi o multe, evitano spesso qualsiasi tipo di denuncia delle violenze subite.
Opposto a questo approccio carcerario che invoca pene sempre più severe, si sono sviluppate correnti femministe che supportano l’abolizione delle carceri e l’idea di una giustizia trasformativa e non punitiva. Questa discussione si è sviluppata soprattutto nel black feminism, a partire dalla analisi concreta di come le politche repressive abbiano puntato a distruggere il tessuto relazionale delle comuità nere degli Stati Uniti. Il femminismo anticarcerario per una giustizia trasformativa collega la violenza interpersonale, in particolare quella contro le donne e le minoranze, con la violenza di Stato e cerca di sviluppare strategie e analisi che valorizzino le attività dirette nelle comunità, che non dipendano dall’intervento della polizia o del sistema penale. Come scrive INCITE!, network di radical feminists of color, “è impossibile affrontare seriamente la violenza sessuale/domestica all’interno delle comunità di colore senza affrontare quelle strutture più ampie di violenza, come il militarismo, gli attacchi ai diritti dei migranti e ai diritti dei nativi, la proliferazione delle carceri, il neo-colonialismo economico e l’industria medico-assicurativa”. Seguendo questa riflessione, oggi, il movimento Black Lives Matter non solo chiede l’abolizione delle prigioni, ma anche il definanziamento strutturale della polizia, uniche vere soluzioni per diminuire la violenza strutturale subita dalla popolazione nera negli Stati Uniti.
Abolire le carceri in ottica femminista e antirazzista, significa affrontare il tema della violenza di genere come una questione strutturale, con una radice economica, sociale, politica, oltre che sessuale e di genere, cogliendo le molteplici oppressioni che esistono nella nostra società. “La lotta per l’abolizione del carcere non è solo antirazzista,” spiega in La libertà è una lotta costante Angela Davis – filosofa femminista intersezionale, che nel 1970 trascorse più di un anno in prigione per il suo conivolgimento nella campagna di solidarietà per i fratelli Soledad – “ma anche femminista, perché la criminalizzazione del singolo individuo non risolve il problema strutturale della violenza insita nella nostra società. La perpetuazione di un sistema razzista e segregazionista, come quello istituzionalizzato dal carcere e dai centri di permanenza per il rimpatrio, in alcun modo previene o supporta l’eliminazione della violenza di genere. Al contrario, il dibattito intorno alla sicurezza strumentalizza la violenza di genere per istituzionalizzare la criminalizzazione razziale, e aumentare il livello di violenza nella nostra società”.
Il populisimo punitivo, la richiesta di pene più severe, e più carcere individualizza il problema, e trasforma la giustizia in castigo. Il pensiero femminista, anche se con prospettive diverse, ha sempre pensato alla violenza di genere come un’espressione di un sistema di oppressione etero-patriarcale non riducibile alla singola relazione tra due persone. Come sottolinea l’antropologa Rita Segato, la violenza contro le donne è un problema politico e non morale, che richiede di agire politicamente nella società tramite azioni trasformative politicizzando il tema delle relazioni, degli affetti, e dei ruoli di genere. Socializzando questi problemi, non semplicemente marginalizzando chi compie questi reati. E come spiega la professoressa Anna Terwiel, studiosa dei movimenti per l’abolizionismo carcerario, per lasciare spazio a questa nuova immaginazione istituzionale è necessario uscire dalla stretta dicotomia che oppone femminismo carcerario e giustizia trasformativa, aprendo a un ampio spettro di possibilità che vadano dalle pratiche per una giustizia comunitaria fino alle riforme radicali del sistema penale e giudiziario. Si chiede Terwiel nel suo articolo “Che cos’è il femminismo carcerario?” se esista davvero una corrente di femminismo carcerario, o se non sia piuttosto una stortura del dibattito sulle politiche repressive che si è fatto scudo della parola femminismo per giustificare l’approvazione di pene sempre più severe, come soluzione opposta a investimenti sociali di lungo periodo.
Se guardiamo al nostro Paese, la cultura giuridica femminista ha lavorato molto affinchè cambiasse la cultura e la pratica giuridica dei processi, supportando le donne vittime di violenza dentro e fuori le aule di tribunale. Pur nell’ambito di orientamenti che stigmatizzano la repressione meramente carceraria, l’impegno resta in gran parte sul piano della difesa in ambito processuale, per evitare che le donne abbiamo remore a denunciare. Non è un caso che il Piano contro la violenza maschile sulle donne di Non Una di Meno abbia proprio un capitolo dedicato alla libertà di affermare i propri diritti. Come sappiamo, le donne vittime di violenza sono obbligate, in un modo o in un altro, a confrontarsi con le istituzioni statali, e come leggiamo nel report Grevio, sopra citato, se le donne non sono in grado di comprendere i propri diritti questo ne impedisce il loro stesso godimento e, nei fatti, l’accesso equanime ed efficace alla giustizia. Ancora oggi, tantissime donne che subiscono violenza e molestie rinunciano a denunciare per paura di non essere credute dalle persone che le circondano, dalla polizia al momento della denuncia, o dallo stesso sistema giudiziario durante il processo. Esistono anche casi di donne che hanno subito violenza negli stessi commissariati e molestie dalle forze dell’ordine nell’esercizio delle proprie funzioni pubbliche; e questo ci riporta ancora una volta allo stretto legame tra la violenza subita nelle relazioni di intimità e la violenza delle istituzioni.
I centri antiviolenza e le case delle donne sono sempre state sul crinale di questa contraddizione, dentro e contro le istituzioni patriarcali e razziste statali, costruendo pratiche di autonomia e sorellanza tra donne. Come si legge nella Relazione del Senato sulla governance dei servizi antiviolenza e sul finanziamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio: “La metodologia che i Centri e le Case rifugio gestite dall’associazionismo femminile e femminista hanno messo a punto nel corso del tempo, è incentrata principalmente sul potenziamento delle capacità di autonomia delle donne che decidono di intraprendere un percorso di uscita dalla violenza”. Per ottenere ricadute positive nella società, al contrario di un approccio repressivo e poliziesco, bisognerebbe finanziare i centri per le donne, in collegamento a quelli per gli uomini maltrattanti, garantirne l’autonomia, uscire dalla logica emergenziale, costruire campagne di prevenzione e informazione.
Angela Davis ci invita a cogliere la “relazione profonda che collega le lotte contro le istituzioni e quelle per reinventare la vita privata, e ricreare noi stessi”. Del resto se “il personale è politico”, storico slogan del movimento femminista, trasformare le nostre relazioni sociali e affettive significa anche cambiare le istituzioni pubbliche, e viceversa.