Ne La società della performance, gli autori Maura Gancitano e Andrea Colamedici scrivono che “In una prospettiva di dissolvimento sociale, a essere libero è solo chi assume la responsabilità di scegliere secondo i propri desideri”. Capire quali sono i propri desideri, però – ancora prima di scegliere – non è semplice come sembra. Questo perché i nostri desideri non sono mai veramente nostri. Sono un prodotto culturale, influenzato da quello che la nostra società ci propone come appetibile o auspicabile. Non è certamente una novità: filosofi, critici e intellettuali si interrogano da secoli sul peso che ha la società nel condizionare le nostre scelte di gusto e di comportamento – Bourdieu, Morin, Debord, solo per citarne alcuni. Il problema è che oggi la società non soltanto ci impone dei modelli, ma pretende che ci impegniamo per ottenere il più irraggiungibile, intrappolandoci con la sua promessa: la felicità.
Byung-Chul Han nel suo libro Psicopolitica spiega che il nostro errore è quello di illuderci di esserci liberati da una società fortemente prescrittiva come era quella descritta da Foucault in Sorvegliare e punire. Se è vero che nella nostra parte di mondo occidentale e democratica non esiste più una vera e propria coercizione fisica da parte del potere, questo non significa che non si insinui nelle nostre vite. Si è evoluto in una forma ancora più subdola. Han osserva come non facciamo altro che continuare a rispondere agli imperativi della società, interpretandoli però come nostri desideri. In questo modo siamo passati non soltanto a essere da “individui” a “consumatori”, ma anche da “soggetti” a “progetti”. La riflessione del filosofo coreano è significativa perché l’idea di felicità che ci impone la società neoliberista ha una spiccata dimensione progettuale. I nostri modelli aspirazionali sono quelli che “ce l’hanno fatta”: Steve Jobs, Elon Musk, Jeff Bezos sono uomini (anche dal punto di vista biologico) a cui viene riconosciuto l’essersi impegnati per costruire il proprio successo dal nulla – anche se spesso queste storie vengono romanzate e non corrispondono alla realtà.
Possiamo dire che siamo vittime di una vera e propria tirannia della felicità, un modello a senso unico che nega e stigmatizza esperienze umane normali e necessarie come la noia, la tristezza, il dolore o il fallimento. Ovviamente il capitalismo ha trovato un modo molto semplice per convincerci che la felicità sia raggiungibile: vendercela. La prima strategia, abbastanza intuitiva, è quella di far corrispondere questo ideale al possesso di beni materiali: saremo felici soltanto quando avremo colmato il nostro vuoto esistenziale con una borsa o un’auto nuova, oppure con un viaggio, un’esperienza. La seconda è forse meno palese, ed è motivata dal fatto che la società insiste su quanto noi siamo i primi responsabili e artefici della nostra felicità. L’ossessione per il benessere, la fiorente industria del self care, i corsi di coaching motivazionale e “diventa imprenditore di te stesso”, la mindfulness o le varie fuffe new age che ciclicamente ritornano di moda costituiscono quella che William Davies chiama “l’industria della felicità”, il cui scopo finale è soltanto avere dipendenti più produttivi e bambini più competitivi, che a loro volta diventeranno lavoratori instancabili con il sorriso sempre stampato in faccia.
Secondo Carl Cederström, autore del libro The Happiness Fantasy, il nostro modo di pensare la felicità è cambiato in modo radicale a partire dagli anni Ottanta, con le amministrazioni di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Prima dell’Illuminismo, la felicità non era considerata un obiettivo raggiungibile, ma consisteva semplicemente nell’aderenza ai valori predominanti della società. È stata la controcultura degli anni Sessanta a ribaltare questa concezione e a “democratizzare” la felicità, facendola coincidere con l’idea di libertà. Negli anni dell’edonismo raeganiano, la pubblicità e le aziende hanno però fagocitato questa aspirazione, rendendola un imperativo e confondendola con il successo lavorativo e, di conseguenza, con il benessere economico.
In effetti, la felicità è diventata un dato misurabile che spesso viene sovrapposto ad altri indicatori economici. Il World Happiness Record, per esempio, combina parametri come l’aspettativa di vita, la libertà personale, i livelli di corruzione, l’efficienza del sistema sanitario e il Pil pro capite di uno Stato. Il problema, però, è che il Paese che negli ultimi due anni è stato al primo posto per l’indice di felicità, la Finlandia, è anche la nazione europea con il più alto tasso di suicidi tra la popolazione. L’indice è stato duramente criticato sia dal punto di vista scientifico che dal punto di vista etico: alcuni esperti di statistica giudicano i dati inattendibili, mentre da una prospettiva filosofica l’idea di quantificare la “felicità” per farne una classifica è considerata un’azione quasi distopica.
Ma anche se domani si smettesse di compilare World Happiness Record, il problema principale rimarrebbe lo stesso: c’è un legame apparentemente indissolubile tra condizioni economiche, realizzazione personale e profitto con la nostra idea di felicità. Un esempio di quanto questo modo di pensare sia pervasivo è il fatto che ormai avere un hobby e coltivarlo per il puro gusto di farlo è molto raro, come ha scritto Jaya Saxena in un articolo del New York Times. Saxena si chiede se abbia ancora senso parlare di “hobby” quando sembra che l’aspirazione collettiva sia quella di trasformare le attività che dovrebbero distrarci dalle difficoltà dell’esistenza in una fonte di guadagno. Anche grazie a internet, è diventato facilissimo capitalizzare il proprio hobby e un sito come Etsy, un e-commerce di oggetti handmade, è quotato in borsa e ha un fatturato di 603 milioni di dollari. Se oggi i video dei corsi di pittura di Bob Ross collezionano 22 milioni di visualizzazioni su YouTube forse è anche perché sembra assurdo che una persona possa essere così genuinamente felice di disegnare degli “happy little trees”.
Quello che spesso non viene detto è che questa idea di felicità come realizzazione personale è, per sua natura, classista. Il possesso materiale che genererebbe la felicità è necessariamente legato a delle condizioni di benessere economico ed è quindi una condizione elitaria – questo, per esempio, è messo in luce anche dal World Happiness Record, dove i Paesi ai primi posti della classifica sono, guarda caso, anche tra i più ricchi del mondo. Non va dimenticato che per completare questo processo di realizzazione personale si debba necessariamente ricorrere a un sistema che si basa sulle disuguaglianze. Un esempio evidente è la morale racchiusa nella favola dell’empowering femminile di stampo neoliberista che è riuscita a rendere un personaggio come Ivanka Trump una sorta di eroina femminista: la vera felicità (e libertà) si raggiunge soltanto quando diventi ricca. Peccato che questo sia spesso possibile soltanto sfruttando manodopera e risorse a basso costo, magari chiudendo un occhio sui più basilari diritti umani.
Non bisogna anche dimenticare che la meritocrazia – l’ideologia che tiene in vita il capitalismo, assicurando il ricambio della sua classe dirigente – è quasi sempre una farsa: ci spinge a essere competitivi, a isolarci dagli altri, a inseguire solo il nostro tornaconto. Allo stesso tempo è riservata soltanto a chi parte già da una condizione di vantaggio sociale ed economico e ha la possibilità, per esempio, di frequentare le scuole migliori o intessere le giuste relazioni.
L’idea di felicità della società moderna andrebbe finalmente chiamata con il suo vero nome: privilegio. C’è, però, un’alternativa a costo zero a questo sistema ed è la condivisione. A rendere davvero significativa la nostra vita non possono essere soltanto le condizioni materiali (che in molti casi non dipendono da noi, contrariamente a quello che ci viene fatto credere), ma le relazioni che intessiamo con l’altro, amicizia e amore su tutto. Senza dubbio, in un mondo in cui lavoriamo 40 ore a settimana, è difficile trovare il tempo per coltivare i propri rapporti, ma non possiamo nemmeno rassegnarci all’idea che, secondo un famoso slogan liberista, there is no alternative. Non serve un corso di mindfulness o un coach motivazionale per trovare la propria felicità. Come dice Carl Cederström, “Anziché ossessionarci con l’essere persone perfettamente realizzate, dovremmo preoccuparci di più di uguaglianza, comunità, vulnerabilità ed empatia. Dovremmo uscire dalle nostre teste ed essere più presenti nel mondo intorno a noi. Credo che così si possa costruire un mondo migliore”.