La guerra russo-ucraina, il più importante conflitto Europeo in termini di dispiegamento di forze dal 1945, dura ormai da oltre un mese. Fin dall’inizio, l’aggressione russa non ha soltanto posto un problema di tipo geopolitico, ma ha anche distrutto molte delle illusioni consolidatesi nel cosiddetto occidente dopo la fine della guerra fredda. Si è citata spesso nei giorni successivi all’invasione la cosiddetta “fine della storia,” postulata nel 1989 dal politologo americano Francis Fukuyama – e poi sviluppata tre anni dopo nel saggio La fine della storia e l’ultimo uomo.
Secondo Fukuyama, il crollo dell’Unione sovietica aveva sostanzialmente decretato la vittoria del sistema di valori dell’occidente. Da lì in poi, il mondo sarebbe entrato in una sorta di epoca post-ideologica, in cui la democrazia liberale e il libero mercato sarebbero stati i modelli dominanti. Non importava quanto illiberale fosse il regime in carica: democrazia e capitalismo lo avrebbero inevitabilmente trasformato. Questa è ad esempio la ragione per cui alla Cina comunista venne concesso nel 2001 di entrare nella World Trade Organization. Da una parte, si contava sostanzialmente sul fatto che forzando i regimi autoritari ad accettare nuove riforme economiche liberali si sarebbe inevitabilmente promossa la nascita di una classe media in grado poi di esigere maggiori libertà democratiche. Dall’altra, in un mondo di nazioni così profondamente legate da rapporti economici, guerre come quella del 1939 non sarebbero più state possibili.
L’economia diventava in questo modo una sorta di grande equalizzatore, in grado di trascendere le ideologie e i confini nazionali. E c’erano buone ragioni per crederlo, dato che l’Europa era passata, in meno di cinquant’anni, dall’essere il teatro di due guerre mondiali e un enorme genocidio a uno dei mercati più fiorenti nella storia della civiltà umana. L’interdipendenza economica, prima ancora della presenza di armi di distruzione di massa, rendeva la guerra un esercizio futile agli occhi delle nazioni europee all’alba del Ventunesimo secolo. Ma a quanto pare questa convinzione non era condivisa da tutti. In realtà, già all’inizio degli anni Novanta i leader delle neo-indipendenti ex-repubbliche sovietiche avevano provato a mettere in guardia l’Europa riguardo alla crescente retorica revanscista di Mosca, ma abbiamo fatto finta di niente. Così, mentre nell’Europa dell’Est si faceva a gara per entrare nella Nato o nell’Unione Europea, e mentre Putin modificava la costituzione russa per garantirsi maggiori poteri, nazioni come la Germania e l’Italia costruivano rapporti sempre più stretti con Mosca – soprattutto rispetto all’approvvigionamento energetico.
L’idea era che Putin non avrebbe mai pensato di portare la guerra in Europa, considerato il rischio di rovinare gli affari con i suoi partner europei. Ma questa aspettativa era stata già disattesa nel 2014, con l’invasione della Crimea e del Donbass. La guerra in Ucraina di quest’anno ha definitivamente dimostrato la fallacia di questo presupposto. Malgrado, infatti, i danni prodotti dalle sanzioni, Putin non sembra per ora particolarmente preoccupato per l’economia russa o per il benessere dei suoi cittadini e sembra seguire una sua logica rispetto alle ragioni del conflitto. In ogni caso, che la guerra sia parte di un disegno coerente, volto a fermare la liberalizzazione di una ex-repubblica sovietica, o piuttosto come dicono alcuni il tentativo senile di entrare nel pantheon dei grandi condottieri della tradizione slava, conta poco. Quello che è importante in questo momento è che le azioni del presidente russo hanno messo in discussione un assodato paradigma, che aveva retto la politica europea fino a questo momento e dal 24 febbraio l’Unione europea si muove in un territorio sconosciuto.
Per gli europei si è trattato di un brusco risveglio: il presupposto che basti l’economia a sanare le dittature e ad avvicinare i popoli ha mostrato improvvisamente i suoi limiti. Da sola, questa non può evidentemente garantire la diffusione della democrazia nel mondo. L’idea portante della fine della storia muore di fatto con l’arrivo dei carri armati russi in una fredda mattina di febbraio. Tuttavia, la democrazia liberale sembra essere ancora l’unico sistema in grado di garantire la maggior sicurezza e dignità agli individui. Ma sperare che possa esistere autonomamente con diverse probabilità non le consentirà di sopravvivere ai prossimi decenni, in un mondo popolato anche da forze illiberali e rapaci.
Non potremo sempre affidarci alle stesse strategie sperimentate in questi giorni quando ci troveremo ad affrontare situazioni simili. Rafforzare e diversificare la nostra capacità di produzione energetica autonoma sarà certamente una delle grandi sfide dei prossimi anni, assieme alla costituzione di una vera e propria difesa comune che rinforzi l’Ue e ci permetta di esercitare un peso rilevante nelle questioni di politica estera internazionale. Entrambi i punti erano all’ordine del giorno durante la riunione tenutasi a Versailles il dieci e l’undici marzo scorso, ma ci sono altre cose che possiamo fare nel mentre per respingere la cultura di queste nazioni illiberali.
In un articolo pubblicato sull’Atlantic, Anne Applebaum, storica e saggista statunitense naturalizzata polacca, suggerisce ad esempio una più approfondita operazione di contropropaganda. Iniziative come Radio Free Europe, che durante la guerra fredda diffondeva notizie oltre la cortina di ferro, potrebbero essere rispolverate e aggiornate per l’era delle comunicazioni di massa. La storia di come Putin ha conquistato il potere in Russia – e di come abbia trovato appoggio in Europa – ci dice che una delle fonti di controllo dei regimi sulle popolazioni risiede principalmente nella propaganda e nella distorsione dei fatti. Informare i russi avrebbe quindi prima di tutto l’effetto di minare la leadership stessa del presidente russo. Tali organi di informazione, tuttavia, non richiedono solo fondi, ma anche ricerca, fatta da esperti di lingue e culture straniere. Applebaum sostiene inoltre che sia necessario ripensare radicalmente i finanziamenti per l’istruzione e la cultura: “Non dovrebbe esserci un’università di lingua russa a Vilnius o Varsavia per ospitare tutti gli intellettuali e pensatori che hanno appena lasciato Mosca? Non dovremmo forse spendere di più per l’istruzione in arabo, hindi e persiano?”.
Assieme a questi investimenti, Applebaum fa poi appello a una maggiore lotta all’evasione, alla corruzione e ai paradisi fiscali – cosa che ancora prima della guerra era al centro degli sforzi dell’amministrazione Biden – per evitare che persone associate a questi regimi possano nascondere e reinvestire in occidente i frutti della loro corruzione. Allo stesso modo, noi stessi europei dobbiamo cominciare anche a difenderci meglio dalla propaganda e dalle strumentalizzazioni delle autocrazie. Le nostre politiche di accoglienza restrittive nei confronti dei migranti, unite all’atteggiamento xenofobo generalizzato, ad esempio, ci rendono estremamente vulnerabili a ricatti di nazioni come la Bielorussia e la Turchia. Finanziarli affinché non lascino oltrepassare i confini dei loro Paesi ai migranti che cercano di raggiungerne altri, invece che costruire canali per l’accoglienza e l’integrazione, non fa che dare potere a dittatori come Alexander Lukashenko o Recep Erdogan e offre il fianco ai politici reazionari in Europa – mentre individui in cerca di una vita migliore soffrono nel Mediterraneo o nei boschi al confine con l’Ue.
Tutto questo richiede lavoro, sacrifici e un nuovo modo di pensare. Se faremo la nostra parte, se lotteremo a nome di quello che chiamiamo evocativamente “mondo libero”, accogliendo altri nelle sue fila e condividendo con loro il nostro benessere, allora la democrazia liberale potrà perdurare. Il liberalismo non ha altro significato, se non alleviare le sofferenze del prossimo e costruire insieme una società migliore, ma non può durare senza anche la volontà di difenderlo e di estenderlo agli altri, e non può esistere solo in funzione di accordi di libero scambio.