Se a lungo chiedersi “Come stai?” ci sembrava ormai solo un vuoto riempitivo retorico per iniziare una conversazione superficiale – a nessuno, lo sapevamo, interessava davvero come stessimo, men che meno che gli rispondessimo onestamente – dopo due anni di pandemia e la minaccia di una guerra nucleare, oggi non facciamo neanche più lo sforzo di formulare questa domanda. Forse perché tutti stiamo male; forse perché al tempo stesso non vogliamo darlo a vedere (siamo pur sempre attori della società della performance); o forse perché ormai anche solo il racconto della sofferenza, dell’insoddisfazione e della tristezza altrui basta a triggerarci, rappresentando un motivo di tedio, un portato che ci stressa e che quindi spesso preferiamo allontanare. Sulla stessa falsariga, i giornali alternano bollettini di guerra all’ultima, spietata vendetta dell’imperdibile saga di Ilary e Totti.
Su larga scala stanno avvenendo processi sui quali non sembriamo avere – anzi, diciamolo pure: non abbiamo – la benché minima presa o influenza. E quindi, la strategia più semplice da adottare, perché più conosciuta e spesso già parte del nostro comportamento, è far finta che non esistano. Pretendere – let’s pretend – che la realtà sia diversa. Da “praetendere”: tendere avanti, scavalcare, ma anche addurre come scusa, esigere quindi qualcosa: affermare, asserire, specie erroneamente, usare la nostra volontà e la nostra capacità immaginifica per dar forma a una realtà alternativa, che – seguendo le tacite regole di un gioco condiviso – finisce per acquisire una sua concretezza percettiva. D’altronde, fingere ha come significato originario quello di dar forma. Plasmiamo quindi una realtà alternativa. Facciamo finta che vada tutto bene, facciamo finta di non essere in pericolo, facciamo finta di non temere per il nostro futuro, di non avere paura: evitiamo tutti insieme, grazie alla potenza immaginifica della nostra mente, l’origine – o le origini – dell’ansia, e questo trucco risulta ancora più efficace del negarle, come fanno alcuni complottisti.
Quello dell’evitamento, infatti, è uno dei meccanismi di difesa più diffusi, e se è tipico dei disturbi d’ansia, è anche vero che tutti – prima o poi – ne abbiamo fatto uso nel corso dell’esistenza. Questa strategia comportamentale, infatti, viene messa in atto per sottrarsi a situazioni, persone ed eventi temuti, che suscitano in noi emozioni considerate negative, rappresentando quindi fonti di stress: dal rivedere un ex o un collega che ci sta antipatico, al sostenere un esame all’università o al dover andare di persona all’INPS. Non a caso, all’evitamento, spesso, si accompagna anche la procrastinazione. L’evitamento, in sé e per sé, in realtà sarebbe anche un comportamento adattivo, nella misura in cui ci permette di allontanarci da una situazione di pericolo o di minaccia reale. Il problema è quando si trasforma in una soluzione coercitiva, finendo di fatto per limitare la nostra libertà e diventando quindi un modo per proteggerci a qualsiasi costo da uno stato mentale o da un’esperienza che ci sembra intollerabile. Le fobie ne sono un chiaro esempio.
Pur di non attivare una reazione di allarme di fronte a una possibile minaccia – reale o immaginaria che sia – preferiamo dunque evitarla del tutto. Non c’è allora da stupirsi se preferiamo non disquisire troppo di politica internazionale (e una parte di me dice per fortuna, visto che la maggior parte di noi non è certo esperta di politologia, di scienze strategiche militari o di affari esteri, tanto quanto non lo era di biologia, genetica, virologia e medicina); così come non dovrebbe meravigliarci se quando siamo stati malati in pochi ci hanno chiesto – ancora una volta – come ci sentivamo; idem se stiamo affrontando la malattia o l’agonia di una persona cara ed eventualmente un lutto; ma anche – insospettabilmente, dato che dovrebbe essere una notizia felice – una gravidanza. Lasciamo cadere il silenzio su tutti i temi che ci costringono a confrontarci con una paura o un’insicurezza più o meno latente. Li escludiamo con cura dal linguaggio.
Se però l’evitamento porta a una tregua momentanea, al tempo stesso non fa altro che confermare la nostra necessità di evitare, dando vita a un circolo vizioso che tende ad allargarsi anche ad altre situazioni, andando a stringere sempre di più il nostro campo d’azione. Quando abbiamo paura delle conseguenze di una decisione o di qualcosa che abbiamo fatto, o se non ci sentiamo sufficientemente competenti, la soluzione migliore – paradossalmente – sembra essere il non cercare soluzioni tout-court. Più lo scenario immaginato è catastrofico, più eviteremo le possibili conseguenze negative generate da esso che si configurano nella nostra mente. Ma più evitiamo queste situazioni, meno ci sentiremo capaci di affrontarle e di agire sulla realtà per modificarla, e questo meccanismo finirà per rinforzare l’idea della nostra incompetenza e inutilità, rendendoci ancora più passivi. Inoltre, evitando i possibili trigger, l’ansia apparentemente diminuirà, dandoci un immediato senso di sollievo, che però ci porterà a credere all’effettiva efficacia dell’evitare, invece di sforzarci a percorrere diverse alternative. Volenti o nolenti, infatti, il nostro corpo influenza i nostri comportamenti molto più di quanto siamo disposti a riconoscere.
Se ancora una pandemia poteva lasciare uno spazio di presa del soggetto sulla realtà, la siccità, gli uragani o la minaccia di una guerra mondiale – e atomica – non lasciano interstizi in cui poter rifugiare la nostra qualità agentiva. Così, sfruttiamo l’evitamento – consapevole o meno – per controllare e alterare le nostre esperienze interne – pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi – anche quando ciò causa un profondo danno comportamentale. Lo scopo ultimo di certi atteggiamenti dannosi e disfunzionali è infatti fuggire, razionalizzando o ignorando. Il corrispettivo dell’evitamento sarebbe quindi l’accettazione, che non significa subire o rassegnarsi, ma aprirsi all’esperienza, lasciando spazio alle emozioni negative, ai ricordi dolorosi e anche ai pensieri catastrofici. Solo che che in quest’epoca non ci è concesso soffrire, così come “prendere tempo” per curarci, ascoltarci, metabolizzare il dolore, ed essere meno produttivi, o anche semplicemente tristi, per questo fingiamo.
È come se l’essere umano in questi ultimi settant’anni – fugaci, se pensiamo alla nostra lunghissima storia evolutiva – si fosse convinto dell’illusione di poter vivere al sicuro e di controllare la propria esistenza, anche se ovviamente non è mai stato così. E oggi stiamo assistendo collettivamente a un brusco squarcio nel velo di Maya, che ci costringe a vedere la vita per ciò che è: indipendente da noi, casuale, senza gerarchie e suddivisioni. L’homo sapiens da sempre divide l’esperienza e quindi il mondo per comprenderlo. Per secoli si è discusso, a varie latitudini, di quali fossero i principi fondanti della materia, cosa fosse venuto prima. E l’evitamento è forse tra le forme più eclatanti di discriminazione e separazione: definisci qualcosa e lo elimini dalla tua percezione. Anche in questo caso può valere la locuzione latina “divide et impera”, dividi e comanda: solo grazie alla separazione puoi continuare ad avere il dominio di te stesso. La nostra mente separa e ordina, secondo gerarchie di valore naturale infondate, convenzionali, poi se ne dimentica e finisce per credere al valore che ha dato alle cose, e confonderlo con un senso, a volte un destino.
L’altra possibile strada è quella di riconoscere l’esistenza come un nulla, un’illusione che pure deve essere vissuta, come fosse reale, per dirla seguendo le tracce di una tradizione filosofica millenaria. Ciò, a ben vedere, significa semplicemente mettere in atto un altro tipo di gioco, che per ammettere la vita ci porta a un altro tipo di “far finta”, ovvero far finta che la nostra esistenza abbia un senso, termine che spazia dalla sfera semantica del significato a quella della direzione: un destino cioè, che dà forma al nostro agire. Quando ben sappiamo – o dovremmo sapere – che non è così. Eppure, anche questo è uno strumento, così come lo era per il filosofo francese Henri-Louis Bergson il discretizzare l’esperienza, suddividere il suo flusso continuo in pezzi, discretizzarlo per poter agire, aver presa sul mondo: uno strumento biologico quindi, di sopravvivenza.
Come il Mario della telefonata in radio di Ecce bombo: facciamo finta. Mario fa finta di svegliarsi, di vestirsi, di andare al bar a prendere il caffè, di andare a lavoro; Mario fa finta di fare qualsiasi cosa, non solo di essere allegro. Mario fa finta di credere alla realtà, anche quando discute, azione per eccellenza in cui si sostengono le proprie credenze e posizioni, e quindi la propria identità. Nell’impianto narrativo-nevrotico di Nanni Moretti sembra quasi qualcosa di negativo, una mancanza di aderenza al reale, ma in realtà è esattamente l’approccio che suggerivano molti filosofi dell’antichità.
Non a caso, Alice – l’Alice di Lewis Carroll, personaggio narrativo che ha fatto per eccellenza del “let’s pretend” un vero e proprio strumento esperienziale – finge così bene, pretende talmente tanto che si possa passare attraverso lo specchio che alla fine ce la fa. Eppure un conto è esercitare l’oblio, un altro rimuovere un trauma, che nonostante tutto sembra minacciarci dall’ombra, dall’angolo in cui lo abbiamo relegato, facendo crescere ancora più la paura che innesca dentro di noi. Forse potremmo ricominciare a chiederci come stiamo e a dirci che abbiamo paura, esercitandoci insieme a regolare le nostre emozioni e a trovare un nuovo modo di abitare, percepire e maneggiare il mondo.