Gennaio-maggio: 390 morti. Giugno-luglio: 684 morti. In meno di un mese e mezzo, lungo la rotta del Mediterraneo centrale tra Libia e Italia ci sono state più tragedie che nei primi cinque dell’anno. I naufragi aumentano – soprattutto nelle acque territoriali libiche – nonostante il dato complessivo registri una diminuzione delle partenze dell’80%. Sono dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), una delle due agenzie Onu che si occupa della materia.
Il numero delle partenze, sia in termini di imbarcazioni, sia in termini di persone, è variabile: essendo l’instabilità libica il principale fattore che incentiva le persone a imbarcarsi, può variare a seconda delle decisioni delle milizie che controllano i traffici. Ecco perché capita che vengano concentrate in momenti precisi.
Tuttavia, il dato che mostra come la situazione sia cambiata rispetto a prima è quello che riguarda la mortalità della rotta, arrivata al picco di un migrante morto ogni dieci.
Secondo Yasha Maccanico, analista e ricercatore italiano della Ong britannica Statewatch – che monitora in maniera puntuale le politiche europee – c’è un fattore chiave che accompagna le oscillazioni nei flussi migratori: la ricattabilità di Italia e Unione europea di fronte ai Paesi lungo le rotte, riscontrabile su due fronti. Il più evidente è quello economico, in quanto, ci spiega Maccanico, “Queste partenze possono essere legate al tentativo di alzare il prezzo degli accordi tra Italia e milizie libiche che dovrebbero impedire le partenze.” Sono i corollari del famoso Memorandum of Understanding, firmato dall’allora ministro Marco Minniti come primo passo per fermare gli sbarchi. Un accordo a guida italiana al fine di evitare partenze verso l’Europa intera.
Dunque, quando vediamo salire i numeri delle partenze, dopo un calo o un’interruzione, possiamo ragionevolmente credere che si tratti di una richiesta di soldi da parte delle milizie libiche. Un incremento di imbarchi in zone dalle quali non si partiva da tempo invece potrebbe significare che nuovi gruppi armati stanno tentando di inserirsi a loro volta nelle trattative. Si tratta ovviamente di ipotesi, considerata l’instabilità del Paese nordafricano, dove non ci sono autorità governative abbastanza potenti da avere il monopolio della violenza.
I porti sono controllati da forze armate differenti, spesso accomunate da una stessa appartenenza etnica: gestiscono sia i traffici via mare, sia la loro prevenzione. L’esempio più evidente è quello della Guardia costiera di Zawiya, una delle città da cui sono partite più barche negli anni scorsi. Abdurahman al-Milad detto al-Bija, che è a capo dell’unità – pagata e addestrata dal governo italiano – compare tra i nomi che l’Onu cita come trafficanti della zona nel rapporto sulle sanzioni alla Libia. L’Italia quindi affidava i migranti allo stesso militare che, fino allo scorso novembre, avrebbe trafficato in esseri umani.
Non solo le milizie, ma anche le forze istituzionali partecipano al ricatto verso il nostro Paese. L’ultimo esempio sono le dichiarazioni del portavoce della Marina libica Ayob Amr Ghasem, che a luglio lamentava i ritardi del nostro governo nella consegna dei nuovi mezzi promessi alla Libia. Questa è la prova che qualunque entità che possa anche solo fingere di avere il controllo di una parte del territorio libico è legittimata a sedersi al tavolo di trattativa con l’Italia, usando come arma l’immigrazione e come leva lo storico degli accordi tra i due Paesi.
L’altro fianco scoperto, causa della nostra ricattabilità, è quello morale. “Italia e Unione europea devono costantemente chiudere un occhio di fronte alle involuzioni autoritarie dei loro partner.” Il parziale elenco italiano degli Stati da considerarsi impresentabili è composto da Sudan, Egitto, Eritrea, Somalia e, ovviamente, Libia. Nella trattativa con alcuni Paesi l’Italia è sola, come nel caso della Somalia, mentre in altri agisce di concerto con l’Unione europea – è il caso della Tunisia.
Nei Paesi con sistemi politici autoritari “È più semplice esercitare un controllo sulla popolazione; allo stesso modo è più semplice controllare le frontiere,” aggiunge il ricercatore. Paradossalmente, quindi, l’Unione europea – fondata sulla difesa dei diritti fondamentali di ogni cittadino – sembra preferire partnership con Stati autoritari che siano dotati di corpi di polizia sufficientemente forti. È la stessa Unione ad aiutare lo sviluppo delle strutture di controllo attraverso il cosiddetto capacity-building, ma le misure maggiori sono rivolte prima di tutto al controllo delle frontiere: un interesse sicuramente europeo e non necessariamente africano.
Sul piano morale, la ricattabilità dell’Unione europea appare ancora più lampante di quella italiana. Un esempio su tutti: il caso della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Lo scorso marzo la Commissione Ue ha sbloccato la seconda tranche dei 6 miliardi di euro previsti dall’accordo del 2016, siglato per impedire ai richiedenti asilo di raggiungere l’Europa attraverso la Grecia e la rotta balcanica. Nella cifra sono compresi anche i fondi per il funzionamento dei centri di accoglienza e la gestione dei campi. Per quanto riguarda specificamente i profughi siriani, l’intesa è poi guidata dal seguente principio: per ogni migrante che viene rimandato in Turchia dalle isole greche, un altro sarà trasferito dalla Turchia all’Ue attraverso i canali umanitari e secondo i “criteri di vulnerabilità stabiliti dall’Onu” (ad esempio, sarà data la precedenza a donne e bambini).
Quando Erdogan ha cominciato a usare la violenza e il carcere preventivo contro i propri oppositori politici, in seguito al tentato golpe dei gulenisti nel 2016, l’accordo era nel pieno della sua operatività. Non poteva saltare perché, in termini numerici, stava funzionando: aveva bloccato l’afflusso proveniente dalla rotta balcanica. Così, le istituzioni europee hanno scelto di tacere, dimenticandosi dei diritti umani violati in un Paese che ha perfino sottoscritto la domanda di adesione all’Unione, e nei confronti del quale la concessione dei visti è molto libera. Le sanzioni economiche e la sospensione simbolica del processo di ingresso nell’Ue sono state solo semplici minacce.
La ricattabilità di Europa e Italia nasce dunque da una distorsione della cooperazione internazionale, ridotta a mero strumento di contenimento dei flussi migratori. L’effetto più evidente, ci spiega Maccanico, è emerso con le Primavere arabe, ma già le basi della cooperazione presentavano orpelli giuridici che avrebbero potuto prevedibilmente ritorcersi contro gli interessi degli africani. L’esempio più limpido è l’Accordo di Cotonou, quadro generale per le relazioni dell’Ue con i Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (Acp). L’intesa, che andrà rinegoziata nel 2020, è stata adottata nel 2000 in aggiornamento alla vecchia convenzione di Lomé, del 1975, con lo scopo ultimo di combattere la povertà. C’è un articolo, il tredicesimo, che il ricercatore ritiene dissonante, in quanto al suo interno si stabilisce che ogni Stato membro dell’Unione europea “Dovrà accettare il rimpatrio o la riammissione di ogni suo nazionale illegalmente presente sul territorio di un Paese dell’area Acp, alla richiesta dello Stato e senza ulteriori procedure” – e viceversa. Se l’eventualità che un cittadino Ue si trovi illegalmente in uno dei Paesi dell’accordo è molto rara, la seconda è decisamente più frequente. “Questa,” commenta Maccanico,“ è la legittimazione giuridica dei rimpatri e delle pressioni europee affinché i Paesi terzi firmino gli accordi di riammissione. Si vincolano a questa condizione gli aiuti allo sviluppo e alla democratizzazione. L’articolo tredici, da solo, ha rovinato i presupposti dell’accordo.”
Dimitris Avramopoulos, Commissario europeo all’immigrazione, faceva cenno all’articolo in una lettera del primo giugno 2016 rivolta ai ministri dell’Interno europei, dove si ribadiva la necessità di “Portare gli accordi di rimpatrio alla fase operativa.” Sulla necessità di aumentare il numero di migranti che vengono riportati nel loro Paese di origine, in particolare dall’Italia, si è espresso con un richiamo formale anche il Consiglio d’Europa lo scorso marzo.
Il nostro Paese, sulle questioni migratorie, ha sempre avuto una posizione particolare: “Da un lato,” racconta Maccanico, ”ha fatto da apripista per le politiche di esternalizzazione in Africa, dall’altro ha subito forme di esternalizzazione da parte dell’Europa stessa.” Esternalizzare significa portare la gestione di fenomeni di cui ci si dovrebbe occupare all’interno, fuori dai confini nazionali. In Libia ad esempio, già Silvio Berlusconi aveva siglato il Trattato di amicizia con Gheddafi, allo scopo di riabilitare la figura politica del dittatore e portare a casa una commessa da 5 miliardi per la realizzazione di un’autostrada e una da 300 milioni di euro per l’istallazione di un sistema radar alla frontiera meridionale della Libia. L’effetto era stato un calo vertiginoso degli sbarchi a partire dall’entrata in vigore: dai circa 37mila del 2008 ai 9.500 del 2009, fino ai 4.400 del 2010, minimo storico secondo i dati di Unhcr. Poi, nel 2011, il governo di Gheddafi è saltato, e con lui l’accordo – riproposto poi con il Memorandum of Understanding di Minniti e ora dal ministro degli Esteri Moavero Milanesi.
In Italia – e il discorso vale anche per la Grecia – il tentativo di esternalizzazione da parte dell’Ue si è realizzato attraverso l’approccio hotspot nelle zone di sbarco e l’imposizione della regola base del Regolamento Dublino. Questo, che è il principale trattato di regolamento per l’asilo politico in Europa, prevede che il primo Paese d’arrivo nel vecchio Continente sia anche quello che deve farsi carico dell’accoglienza. I rientri dei migranti nei primi Paesi di sbarco sono i famosi movimenti secondari, al centro dell’ultimo summit europeo del 28 giugno. Proprio su questa esternalizzazione si basa la retorica salviniana – e non solo – dell’Italia lasciata sola nella gestione dei flussi migratori.
La Libia è il primo Paese a pagare le conseguenze dell’instabilità in nord-Africa e noi, anche per ragioni storiche, abbiamo dovuto metterci la faccia per l’Europa intera. Almeno finché c’era Gheddafi, per cui abbiamo fatto da garanti anche quando ormai era un personaggio politico inqualificabile e non aveva più il controllo del Paese. Ora facciamo lo stesso con le milizie che dovrebbero rispondere al governo sostenuto dall’Onu, quello di Fayez al-Serraj.
Questo atteggiamento diplomatico ha finito per erodere la credibilità internazionale europea e italiana, trasformando gli accordi semplicemente in qualcosa di molto simile a un asset da vendere per Paesi in via di sviluppo. Benvenuti nella cooperazione al tempo dell’emergenza migranti.