Come Erdoğan ha trasformato la Turchia nel suo sultanato

Ce lo dice l’attivista e rifugiato politico curdo Mem Alan, lo conferma lo scrittore curdo Shorsh Surme, lo pensano tutti quelli che si oppongono al sultanato, e le loro voci si fondono in un unico coro: in Turchia c’è già il fascismo, ma dopo le elezioni del 2018 sarà peggio. Quasi la metà di chi abita la grande penisola tra Oriente e Occidente non vuole vivere in un sultanato, né finire in prigione per aver manifestato o bevuto un bicchiere di troppo nelle piazze di Istanbul: il 24 giugno scorso, il 47% degli elettori non ha confermato il proprio voto al presidente Erdoğan e all’alleanza di governo tra il suo partito islamista per la Giustizia e lo Sviluppo e l’estrema destra ultra-nazionalista.

Dopo quello che le autorità turche hanno considerato un golpe, sventato nel luglio 2016, e la successiva dichiarazione di stato di emergenza, il leader di Akp ha avuto in cambio ampissimi poteri, ma la posta in gioco del presidenzialismo, legittimato dal referendum costituzionale del 2017, è ancora più alta: cambiare volto alla Turchia.

Quello che vuole Erdoğan è che il suo Paese torni a essere il cuore pulsante di un Islam turco da propagare nel mondo. Il suo neo-ottomanesimo però, è una versione più radicale e molto meno tollerante del modello di Islam turco che si era affermato nell’Impero ottomano fino alla sua caduta all’inizio del Novecento, nato dalla convivenza di popoli e religioni del regno, dal Medio-Oriente, al Nord-Africa, all’Est-Europa. Anziché spedire i combattenti jihadisti in Siria e in Iraq e gli estremisti islamici nel Vecchio Continente, i sultani frequentatori delle élite mitteleuropee esportavano stili di vita occidentali sulla via dell’antica Bisanzio, di Beirut, del Cairo e di Tripoli. Nel sogno di riconquista di Erdoğan invece, il processo è inverso, conservatore e anti-modernista, e si fonda sui tre pilastri dell’“islamismo, del nazionalismo e dell’autoritarismo,” ci spiega Mem Alan.

L’altra metà dei turchi sta dalla parte di Erdoğan. Islamismo e nazionalismo sono due elementi che “da sempre fanno grande presa sulle masse. I turchi sono un popolo nazionalista, anche i repubblicani di sinistra lo sono e la grande maggioranza dei turchi è musulmana,” precisa l’attivista e rifugiato politico curdo. L’Islam è parte fondante della storia e dell’identità turca: un blocco di questo orgoglioso ex-impero continua ad amare l’auto-proclamato sultano, al potere ininterrottamente dal 2003. Erdoğan ha litigato con diversi leader dell’Akp, incluso l’ex-presidente Abdullah Gül, e li ha messi all’angolo uno dopo l’altro perché erano moderati e non disponibili a cedergli tutta la loro autonomia. Eppure, ancora nel 2018, il 53% degli elettori ha dato fiducia al leader carismatico che ha trasformato l’Akp in una sua emanazione personale. L’unico a calcare i palchi dei comizi diventati adunate.

Abdullah Gul

Le piazze di Istanbul, di Ankara, dei centri dell’entroterra turco straripano di persone entusiaste del sultano, talmente carismatico da rendere attraente anche l’escalation autoritaria verso il totalitarismo. “Dall’estate del 2016 il parlamento esiste come struttura, ma non è funzionante. I deputati dell’Akp fanno muro, è una dittatura della maggioranza,” commenta Alan, “chiaramente Erdoğan, sempre più vicino a Russia e Iran, va nella direzione dell’omologo Vladimir Putin e del regime degli ayatollah.” Non a caso, in campagna elettorale il presidente e tre volte premier turco ha riecheggiato la promessa del candidato dei repubblicani di sinistra Muharrem Ince di “togliere lo stato di emergenza”. Con le nuove regole non ne ha più bisogno: dal giugno 2018 il capo di Stato non ha più limiti d’azione.

Dallo spartiacque delle presidenziali e delle legislative del 2018, Erdoğan potrebbe non indire neanche più elezioni. Con le nuove norme costituzionali riparte da zero il conteggio per l’incarico del presidente: i cinque anni, per un massimo di due mandati, significano in teoria che Erdoğan, capo di Stato dal 2014, può farsi riconfermare fino al 2028.

Intanto, cambiare tutta la Costituzione, sarà un gioco da ragazzi. Di fatto, era già ininfluente. Il premier è stato abolito, Parlamento e magistratura svuotati dei loro poteri, ora tutti del presidente. Ai deputati resta la funzione di discutere gli atti del governo, mentre il ricorso alle mozioni di sfiducia è stato eliminato: “Il Parlamento avrà un ruolo simbolico e se non bastasse l’opposizione continuerà a essere divisa tra destra e sinistra e tra turchi e curdi,” afferma lo scrittore curdo Surme.

Erdoğan, che è potuto tornare al partito di provenienza, nomina e destituisce ministri e sottosegretari, ed emette decreti legge. Anche il Consiglio supremo della magistratura, ridotto da 22 a 13 membri, ricade sotto il ministero della Giustizia e la Corte costituzionale è stata limitata a 15 membri. Un’ipotetica messa in stato di accusa del capo dello Stato da parte del Parlamento, di una commissione e infine della Corte suprema, durerebbe mesi, e c’è chi prevede che a 64 anni Erdoğan, così blindato, possa restare in carica fino al 2030 e ben oltre. Più dell’eroe nazionale e fondatore della Turchia moderna Kemal Atatürk, un record e un incubo per chi Erdoğan non lo vuole. Il sultano divide: o lo si ama o lo si odia. Tra gli espatriati, le manifestazioni contro lo strapotere di Erdoğan riscuotono molto più successo dei comizi filo-governativi dell’Akp, che ha occhi e orecchie anche all’estero e in special modo in Germania, dove si stimano tra i 2 milioni e mezzo e i 4 milioni di turchi e curdi.

Kemal Atatürk

A Berlino, nel distretto popolare di Wedding, casa di immigrati di vecchie e nuove generazioni, una famiglia turca di commercianti ammette di “odiare Erdoğan dal profondo del cuore.” Anche i figli hanno mantenuto la cittadinanza d’origine, ma con l’aria che tira tornano di rado e chiedono di restare anonimi “per evitare ripercussioni.” Da elettori all’estero ci raccontano di aver scelto stavolta i repubblicani del Chp: “Sono di sinistra ma sono laici.” La famiglia turca conosciuta a Berlino è musulmana ed è tuttavia impaurita dall’islamismo di Erdogan, percepito come un pericolo. “Lui è il sultano,” e Nurgül, 50enne, madre di famiglia, confessa di pregare “ogni giorno perché al sultano torni il cancro”: tempo fa sui giornali turchi ha letto delle su un’operazione che Erdoğan avrebbe subito proprio per un tumore all’intestino.

I turchi trapiantati all’estero sono la cartina di tornasole del soft Islam praticato per secoli in Turchia. Lo stesso revival che, negli anni Settanta, contrapponeva i movimenti politici islamisti (Akpincluso) ai kemalisti laici, e si fondava su un’ideologia conservatrice e moderata, da contrapporre al blocco comunista. A lungo, per la sua formidabile rete nazionale e internazionale di scuole, il movimento del predicatore islamico Fetullah Gülen, amico e poi arcinemico di Erdoğan, è stato l’ingranaggio di reclutamento e di fidelizzazione dell’elettorato dell’Akp. “Quasi una Dc in versione musulmana,” spiega Surme, “finché Erdoğan non ha monopolizzato e cambiato pelle al partito, avvicinandolo alla Fratellanza musulmana. Vuol far rinascere l’Impero ottomano”. Radicalizzando la Turchia e altre parti di mondo: una buona parte dei turchi si è fatta convincere – in opposizione a un’altra buona parte – che “le donne non sono uguali agli uomini, la loro posizione nella società è la maternità,” come va dicendo il sultano. Né si scandalizza più se Erdoğan, come è avvenuto a una parata militare del 2018, abbraccia una bambina di 6 anni in divisa delle forze speciali invitandola “a Dio piacendo a diventare una martire.” 

Fetullah Gülen

Dalle rivolte arabe del 2011, con il Qatar, la Turchia ha riversato fiumi di armi e finanziamenti sui combattenti islamisti, incluso il ramo siriano di al Qaeda (al Nusra) in Siria, in Iraq e in Libia, entrando in competizione con l’Arabia Saudita nella diffusione dell’Islam radicale. Erdoğan ha moltiplicato le visite di Stato in Africa per stringere accordi commerciali e aprire una base militare in Somalia, strettissimo alleato della Turchia nell’era ottomana, oggi dilaniata dagli attentati degli al Shabaab. Poi in Sudan, dove i turchi si sono aggiudicati l’appalto per l’antico porto ottomano di Suakin sul Mar Rosso. Mentre in Libia, Ankara è il primo partner dei governi e delle milizie islamiste nella ricostruzione. Il colonialismo neo-ottomano di Erdoğan non risparmia l’Occidente: nei Balcani, principale e preoccupante vivaio di jihadisti del Vecchio Continente, quest’anno il sultano ha radunato migliaia di supporter, il capo della sua Ong turca di riferimento ha definito Sarajevo “la Gerusalemme d’Europa”, e nella tollerante Germania le autorità hanno iniziato a tener d’occhio il migliaio di imam, formati nelle scuole teologiche turche e inviati nelle moschee tedesche, per il sospetto che siano in parte radicali e “spie per conto di Erdoğan”.    

Il governo di estrema destra austriaco ne ha appena espulsi alcuni e il leader dell’Akp ha gridato alla discriminazione. Ma ad Ankara è lo stesso Erdoğan a essersi alleato con l’estrema destra secolare dell’Mhp, braccio politico dei Lupi Grigi di tradizione reazionaria e anti-democratica. Il sodalizio tra islamisti e laici turchi della destra radicale la dice lunga sull’autoritarismo e sull’estremismo di Erdoğan, che perso nelle sue manie di grandezza e galvanizzato dalle folle non tiene conto del livello di scontro innalzato dentro e fuori il Paese. Dall’estate del 2016 oltre 160mila tra funzionari e oppositori non graditi sono stati epurati. Accusati di tentato golpe, appartenenti alla lobby di Gülen o presunti tali, deputati, amministratori e supporter dei partito filo-curdo Hdp, intellettuali, attivisti e liberi pensatori sono stati arrestati o rimossi dagli incarichi.

A ridosso del voto sono scattate altre centinaia di fermi contro avversari politici e dissidenti. Internet, stampa, radio e tv sono censurate. La Turchia è la “più grande prigione al mondo per giornalisti” ha denunciato nel 2018 Reporter senza frontiere: oltre 120 di loro sono finiti in carcere e almeno 180 media sono stati chiusi dal sospetto colpo di Stato, “con il pretesto della lotta al terrorismo.” Primo capo del governo turco a essersi impossessato dell’esercito – in Turchia, un potere più forte della politica – Erdoğan tiene in pugno forze armate, intelligence, magistrati, media, parlamento. Nel clima di terrore le proteste sono sparite, nemmeno i curdi manifestano più, milioni di persone vivono come in una pentola a pressione. Nel frattempo, anche gli altri Paesi fari dell’Islam nel mondo, come l’Egitto, l’Arabia Saudita e l’Iran, cominciano a essere infastiditi dall’invasivo colonialismo turco. Una rivalità tra potenze mediorientali che si riaccende, come ai tempi delle guerre tra arabi, persiani e mamelucchi.

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