Siamo sempre più stanchi, impotenti, senza energie per reagire, ma non possiamo lasciarci travolgere - THE VISION

Non sono soltanto le inquadrature frontali, immobili e lo straniamento di matrice teatrale a fare di Yorgos Lanthimos il regista della fissità dello sguardo. Questa caratteristica distintiva del suo cinema, infatti, non ha a che fare con delle semplici scelte di linguaggio, ma con la relazione che il regista greco vuole instaurare con lo spettatore, invitandolo ad andare oltre la soglia del dolore, mettendolo davanti a scenari perversi, conturbanti, che intimoriscono e attraggono assieme. Una formula dal magnetismo brutale, dove è proprio l’ostentazione dello sguardo a spostare sempre più in profondità il confine dell’esplorazione interiore, con l’obiettivo di conquistare, scena dopo scena, una visibilità totale sulle contraddizioni che attraversano l’essere umano. Per questo sembra contraddittorio che i suoi film siano spesso abitati da personaggi ciechi, bendati, che vengono privati proprio della vista. 

La contraddizione fra questo cinema della visibilità, e l’incapacità di vedere dei suoi protagonisti è soltanto apparente e si dissolve nel momento esatto in cui lo spettatore riconosce nella cecità, una metafora della condizione di passività che caratterizza la vita dell’uomo contemporaneo. La cecità messa in scena da Lanthimos, infatti, non è soltanto uno stato fisico: compare nella famiglia di Dogtooth come esercizio di un potere repressivo dei genitori sui figli; viene rappresentata come forma di punizione in The Lobster in cui la protagonista subisce la condanna di un regime distopico che impedisce di essere felici fuori dalla vita di coppia; diventa impossibilità di scelta ne Il sacrificio del cervo sacro, una tragedia di stampo classico senza eroi, in cui un drammatico destino toglie ai personaggi ogni potere decisionale.

Dogtooth (2009)
The Lobster (2015)

L’assoggettamento al potere, la punizione, la paralisi della scelta sono tre condizioni di impotenza di cui la cecità si fa simbolo, che schiacciano l’intera esistenza dei protagonisti costruiti da Lanthimos, rendendoli apatici, remissivi e stanchi, vittime di una passività che, troncando ogni impulso all’azione, crea un’atmosfera di irritazione pervasiva, che si alimenta nel corso delle trame dei film, senza mai giungere a una risoluzione. Con questo scenario inquietante il regista greco ha previsto e anticipato con precisione la tendenza generalizzata del nostro tempo a condurre una vita “cieca”, “bendata”, in cui siamo spaventati dagli eventi del mondo, tanto da non volerli guardare, da non interessarcene, soprattutto se si presentano come particolarmente impattanti per la nostra emotività.

L’impotenza che proviamo di fronte alle violazioni reiterate dei diritti umani; agli affitti che continuano a crescere, con stipendi invariati; e al vortice di cattive notizie che ci ha travolto negli ultimi anni, ci fa vivere con addosso un senso di pressione che prosciuga le nostre energie, un disagio mal sopito che ha portato il filosofo sudcoreano Byung chul-Han a definire la nostra come la “società della stanchezza”, che fa da titolo a uno dei suoi saggi più famosi. Secondo il pensiero di Han viviamo in una società che non conosce più le “passioni-contro”, una su tutte la rabbia autentica, perché le ha sostituite con dei surrogati meno violenti e più sopportabili, o meglio, più facilmente ignorabili. All’interno del libro, la nostra società viene descritta come un gruppo di individui vinti, ormai troppo stanchi per arrabbiarsi davvero e del tutto incapaci di combattere ciò che li fa sentire insicuri, o ciò che percepiscono come ingiusto. Lo smarrimento del germe creativo insito nella rabbia, per Han è dunque la prima conseguenza della stanchezza e fa scivolare il nostro approccio agli eventi verso una forma di non-reazione – comparabile, nelle sue espressioni più decise, a un’irritazione fastidiosa, ma pur sempre inerte, che al massimo si sfoga partecipando alla polemica del momento con un commento piccato, magari scritto attraverso un account fake.

Per descrivere la passività contemporanea, Han attinge a due termini che indicano degli stati patologici: quello di “allergia” e quello di “obesità”. Da una parte, il richiamo all’allergia serve al filosofo per sottolineare quanto qualsiasi disagio che si manifesti nella nostra società venga interiorizzato, trattato come un sintomo inconscio, che non sfocia mai in una reazione sentita, propria dell’individuo, ma solo, quando accade, in riflessi automatici che rimangono più o meno deboli e privi di consapevolezza. Dall’altra, il riferimento all’obesità restituisce l’immagine di una condizione satura, dove gli accadimenti che si susseguono davanti ai nostri occhi – anche quelli che più ci inquietano – vengono ingeriti con tutto il loro portato emotivo fino all’eccesso e poi immediatamente dimenticati. Una sorta di digestione senza fuoco, che va ad alimentare solo il nostro senso di disillusione.

Secondo Han non è “stanco” soltanto chi non ha più energie; Han intende la stanchezza del nostro tempo come una sorta di ripiegamento passivo dell’Io, generato dall’eccedenza di disponibilità di oggetti, sollecitazioni, informazioni e possibilità a disposizione dell’essere umano contemporaneo. In questo senso siamo di fronte alla stanchezza sovraccarica di chi ha potenzialmente accesso a tutto (almeno in teoria), ma che non sempre trova gli strumenti per comprendere ciò che gli sta accadendo attorno. È questo il principale motivo per cui tendiamo a sentirci costantemente in allarme a causa dei cambiamenti repentini e dei momenti critici che interessano la nostra quotidianità, ma non trovando sempre delle soluzioni efficaci per elaborarli l’unica cosa che ci resta da fare è passarci sopra, sperando di dimenticarli il più in fretta possibile. Questa stanchezza generalizzata sta venendo a coincidere sempre di più con una crescente incapacità di lasciarsi muovere da ciò che accade (basti pensare al più alto tasso di astensionismo nella storia italiana registrato alle ultime elezioni o l’atteggiamento rassegnato e negazionista nei confronti della crisi climatica), invece di imporci una riflessione rispetto alla collocazione del limite della nostra inerzia, oltre il quale ci sono le circostanze che non possiamo limitarci a sopportare.

L’unico appiglio possibile per combattere la passività che ha invaso il nostro tempo, infatti, è rappresentato dalla volontà di fare chiarezza dentro di noi, andando alla ricerca degli impulsi che non possono essere messi a tacere, come quelli che hanno spinto il movimento “Non una di meno” a riempire le piazze lo scorso 28 settembre per la giornata internazionale dell’aborto libero, o quelli che hanno fatto sorgere in tutta Italia un’onda di manifestazioni per esprimere solidarietà al popolo iraniano. La terapia per la stanchezza cronica della nostra società suggerita dalla riflessione di Han consiste proprio nel ricalibrare il carico di sollecitazioni a cui siamo sottoposti, in modo tale da riuscire a selezionarle, così da renderle di nuovo una risorsa e non un impedimento. 

Se tanta filosofia ha riflettuto sul nesso fra volontà e azione, oggi, si profila la necessità di indagare un altro nodo fondamentale, ovvero quello che lega l’informazione all’azione. La selezione critica degli stimoli che invadono la nostra quotidianità, infatti, può essere fatta solo a fronte di un accesso all’informazione attivo e partecipato, che va considerato come molto urgente, al pari degli impulsi che ci portano a tentare di concretizzare la nostra volontà.

Secondo il pensiero del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche l’individuo doveva accogliere le spinte di quella che lui chiamava volontà di potenza, che possono provenire dall’io o dal mondo, così da indirizzarle verso una crescente auto-affermazione. Questa tensione non va intesa nel senso di un’affermazione della propria volontà che va a discapito di quella altrui, ma come un auto-superamento. La volontà va dunque interpretata come un’architettura di forze, che rapportandosi fra loro portano l’individuo ad agire in vista del superamento di se stesso. Nel pensiero di Nietzsche il legame fra la volontà e la concretizzazione dell’azione è concepito come un’attività che passa per la capacità di captare e assorbire quante più sollecitazioni della volontà di potenza possibili, in modo tale da arrivare a esprimere il proprio essere umani con una forza autentica, che ha un potere trasformativo sul mondo. Nietzsche definisce l’adesione alla volontà di potenza come un’evoluzione di tutta l’umanità, che abbandona gli idoli del passato attraverso l’esercizio del dubbio, per discutere i valori che si sono imposti nella cultura del suo tempo e crearne una propria, autoprodotta e autonoma. 

L’evoluzione a cui aspirava Nietzsche nell’ultimo secolo non è certo giunta al suo compimento, anzi. Dove il filosofo tedesco auspicava di vedere una società attivamente impegnata nel costituire l’ossatura valoriale e culturale che la regge, è venuta a configurarsi la società della stanchezza, che non solo non ha imparato a partecipare alla costruzione del suo sguardo sul mondo, ma ha perso la capacità di orientarsi fra gli stimoli che concorrono a comporlo, limitandosi a subirli. A fronte dell’aumento delle sollecitazioni, infatti, non è cresciuta la nostra capacità di esercitare la volontà di potenza: un rapporto di proporzionalità inversa che ci ha reso sempre più impotenti, configurando la passività che caratterizza questo momento storico. Arrivati a questo punto, per cambiare le cose, non possiamo aspettare un evento più sconvolgente dei precedenti, perché non sarà un’ulteriore esplosione delle nostre certezze a smuoverci. Per recuperare la spinta all’azione, in quest’epoca della passività, occorre ripartire dalle nostre scelte, prendendo coscienza di quanto ognuna di esse sia un’espressione di forza, un atto di potenza della nostra volontà.

Tentare di innescare l’auto-superamento è il primo passo per affrontare il periodo storico che stiamo vivendo senza farci sopraffare. In questo senso, per far entrare la volontà di potenza nel nostro tempo dobbiamo imparare a esercitare il senso critico, a farci strada fra le notizie che hanno un valore di verità e quelle fuorvianti o del tutto false, a verificare le fonti, a farci venire dei dubbi. Questa operazione di selezione ha la forza di un atto di scelta, dunque non indebolisce la volontà, ma la rende attuale, non restringe lo sguardo, ma, al contrario, permette di vedere con maggiore chiarezza, sollevando la benda della passività cieca. La selezione è la la scelta che rende l’informarsi un’attività a tutti gli effetti, un impegno teso a pesare stimoli e sollecitazioni, bilanciando i carichi, per sventare il pericolo della stimolazione continua. La spinta all’azione, oggi più che mai, nasce dalla possibilità di vedere bene ciò che ci sta accadendo attorno, perché è a partire dalla precisione del nostro sguardo che potremo dare una forma altrettanto corretta alle nostre azioni. Un buon occhio sul mondo è il frutto delle sollecitazioni che decidiamo attivamente di fare nostre e permette di riconoscere quanto il come e da dove informarsi dia direzione al nostro modo di agire. Una volta presa questa consapevolezza, sarà più facile vedere con chiarezza la potenza contenuta in ogni scelta che facciamo.

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