Non è affatto facile trovare una strategia per confrontarsi con le nevrosi e i nodi irrisolti che ingombrano la nostra psiche, quelli che ci tengono in scacco, incastrandoci in uno stato di malessere. A me, una volta, era stato consigliato di scriverli e poi sottolinearli, di evidenziarne gli aspetti essenziali, esattamente come se si trattasse di una monografia da studiare per un esame. E in effetti non posso dire che questo gesto apparentemente banale non mi facesse sentire un po’ più “preparata”. Ѐ un esercizio alla base di ogni tipo di analisi: traslare qualcosa fuori da sé per avercela dritta davanti agli occhi, vederla con chiarezza, seguirne movimenti ed evoluzioni. Scaricarla in un’azione precisa – raccontandola, scrivendola, disegnandola – che possa in qualche modo fungere da catarsi. Eppure, oggi, neanche davanti alle rappresentazioni sempre più numerose e multiformi della nostra tristezza, dei sentimenti negativi che muovono le trame della nostra minuscola “tragedia” privata e che vediamo ormai esposte ovunque, spesso riusciamo a provare un vero e proprio senso di liberazione.
In una società che si è illusa di poter interrompere la sua connessione con il dolore, così come con il pensiero della morte e con tutte le declinazioni dell’emotività che in qualche modo ce la ricordano, i sentimenti che ci mettono a disagio sono stati ridotti a una protesi esteriore, un accessorio da applicare al proprio sé solo nel caso in cui se ne possa ricavare un ritorno positivo, un vero e proprio guadagno, che sia in termini di rafforzamento della propria autostima, oppure di massimizzazione delle attenzioni ricevute da chi ci circonda. Anche la stessa rappresentazione della negatività è diventata così un gesto meccanico, asettico, che non può certo sfociare in catarsi, ma finisce per assecondare la ritualità anestetica del presente, che fa assomigliare tutto ciò che facciamo o proviamo a un riflesso della produzione in serie, non lasciandoci nulla di davvero “nostro”.
Si è creata una divisione netta tra gli stati d’animo che possiamo permetterci di continuare a provare e mostrare agli altri – quelli da cui riusciamo a trarre un effetto positivo, in grado di accreditarci ai loro occhi come soggetti sani, saldi, provvisti dello starter pack necessario per sopravvivere e realizzarsi secondo le regole imposte dal nostro contesto –, al contrario di quelli negativi, del tutto inutili ai nostri scopi, che sono appunto sempre più repressi, marginalizzati, nascosti. In questo senso, applichiamo alla negatività lo stesso trattamento che riserveremmo a un prodotto difettoso o guasto dell’io, sviluppando l’avversione che abbiamo imparato a provare per qualsiasi cosa non ci garantisca un tornaconto immediato, e giudicando questa parte del nostro spettro emotivo attraverso una sorta di bussola “morale”, che ce la fa sembrare inutile – e quindi condannabile.
L’antropologo inglese Geoffrey Gorer parlava di questo senso distorto del pudore che sentiamo nei confronti della negatività definendolo “pornografia della morte”: un meccanismo legato allo sfuttamento dell’emotività che rifiuta il dolore quando non ha nulla di “interessante” – come la morte naturale, paragonata al sesso tra coniugi, che non rappresenta un’esperienza eccezionale almeno dal punto di vista narrativo – mentre ricerca quello spettacolare, coreografico, performativo per la maggiore presa “attrattiva” che ha sul pubblico. Accorgendoci di non poter espellere del tutto il negativo, infatti, non possiamo fare altro che approfittare dei meccanismi di questa particolare forma di pudore nel tentativo di farlo nostro, ma in forma edulcorata, tenendoci sempre distanti da ciò che esso è realmente.
Accade spesso anche sulla scala ridotta della nostra esperienza individuale, nei casi in cui, quando il confronto con le emozioni spiacevoli diventa inevitabile, cerchiamo di scorgervi un qualche tipo di utilità – o per meglio dire di attrattività – per renderla più interessante alla platea che ci sta osservando. Si tratta di una sofferenza che magari evoca immaginari decisamente meno hardcore della cronaca nera o di un conflitto armato raccontati a livello mediatico, ma alimenta un fenomeno che è stato definito restando nella stessa sfera semantica: il cosiddetto vulnerability porn o sadfishing, che indica la capacità di qualcuno di usare i suoi problemi per attrarre audience su internet – e che vediamo performare costantemente da chi è all’apice della popolarità, tra Miley Cyrus che si scusa in lacrime nella sua “I Used To Be Young”, o Bella Hadid che posta le foto dei suoi mental breakdowns. Questo atteggiamento finisce così per sfociare nei nostri modelli aspirazionali: dalla ragazza triste ma sexy, che non teme di sprofondare nella sua sofferenza fino a perdere il controllo; fino ai vari maestri della resilienza, del self made, che hanno saputo prendere un precedente fallimento e farne occasione, spazio di rincorsa per costruire un progetto il cui successo non sarebbe stato altrettanto soddisfacente, senza un po’ di negatività preliminare. In tutti i casi, questi personaggi tipo a cui cerchiamo di aderire per portare avanti la nostra narrazione personale, più che normalizzare il dolore lo stereotipizzano, rendendolo materia inerte, “inanimata” e veicolando l’idea che esso abbia senso soltanto nella misura in cui può trasformarsi in altro, ancor meglio se nella necessaria premessa di un’imminente vittoria.
“Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei” ripeteva il filosofo tedesco Ernst Jünger agli inizi del secolo scorso per denunciare il deterioramento di questa relazione, che oggi è ridotta ai minimi termini, prosciugata dai meccanismi di un sistema in cui la positività è imposta a forza e il negativo tenuto il più lontano possibile dalla nostra esperienza emotiva. La sterilizzazione di questo rapporto ha infatti modificato per certi aspetti anche la nostra percezione della tristezza che ci gravita attorno, facendola apparire più “sintetica” quando confluisce nelle curve dei grafici, nello yearnposting social, così come nel nostro modo di truccarci e vestirci. Proprio nell’averla resa un trend da replicare, che ci permette di esibirla e indossarla, abbiamo finito per non viverla quasi più come l’espressione di una negatività che ci viene da dentro e che abbiamo bisogno di portare all’esterno per conoscerla meglio, per provare ad affrontarla. Al contrario, tendiamo a dare a certi sentimenti negativi le sembianze delle cose – un istogramma, una felpa stropicciata o un video sfogo –, perché vogliamo pensarli come tali: qualcosa che è sempre stato altro da noi, che ha a che fare con il mondo e non di certo con l’Io. Li reifichiamo invece di provare in qualche modo a scaricarli perché siamo sempre meno capaci di farci i conti, in un tentativo di neutralizzare l’effetto che hanno su di noi.
C’è dunque qualcosa di contraffatto nel modo in cui tendiamo a raccontarci, sia a noi stessi che agli altri, prendendo le distanze dalle nostre debolezze emotive quasi volessimo cancellarle, per poter iniziare a scrivere la storia artificiale dei nostri sentimenti: una narrazione in cui esse diventano un meccanismo da attivare e interrompere a nostro piacimento, come siamo ormai abituati a fare praticamente con tutto, nell’illusione che esista un interruttore capace di bloccare all’istante anche le nostre sensazioni di tristezza o malessere. Ed è a causa di questo desiderio di controllo che abbiamo iniziato a pensarci erroneamente anche al di sopra del pathos, accusando ancor di più le conseguenze delle emozioni che volenti o nolenti ogni tanto ci toccano, proprio perché non riusciamo ad accettare di non avere potere su di loro.
Viviamo nell’ossessione di sentirci adeguati anche di fronte alla sofferenza e alla nostra vulnerabilità, pretesa che fa da sempre parte dell’essere umano, ma che oggi siamo arrivati a sperimentare in fase acuta, dato che ci vorremmo belli, vincenti, interessanti e impeccabili non solo davanti alla tristezza, ma a volte proprio “grazie a essa”. Ma questa oggettificazione delle nostre emozioni negative non può che farci sentire sempre più impreparati nei loro confronti, dato che i modelli e le raffigurazioni che proliferano attorno a noi, essendo sempre più asettici e distanti dalla realtà, spesso hanno poco a che fare con ciò che stiamo realmente provando, e dunque non possono aiutarci a comprenderlo e affrontarlo. L’atteggiamento che ci attrae con la falsa promessa di poter gestire il dolore, parcellizzandone l’esperienza in mille rappresentazioni diverse, per tenere il passo con tutti i trend, microtrend, core e soprattutto con le aspettative “dell’economia delle passioni” che la nostra società ha creato, ci distoglie paradossalmente dal carattere universale – oltre che inevitabile – di questi sentimenti, che esistono ben al di là dell’utilità, o del senso, che riusciamo a conferire loro.
Se è vero che tutto nel nostro contesto spinge verso una crescente brandizzazione del Sé, per cui qualunque espressione della nostra identità deve diventare un elemento direttamente spendibile, da vendere insieme al resto del nostro pacchetto di skills, quasi fosse la capitalizzazione di ciò che siamo a tenerci insieme come soggetti, questo processo non può liberarci da una negatività che, allo stesso modo della positività, è parte insopprimibile dell’esperienza umana. Forse, quindi, è arrivato il momento di provare a confrontarci con l’inevitabile inadeguatezza che ci accomuna di fronte a questi sentimenti – dato che essi interessano tanto il piano individuale, quanto quello collettivo –, integrandola in una narrazione più realistica dell’io, che ci permetta di riconoscere tutte le espressioni dell’emotività, comprese le più dolorose o scomode, come qualcosa di davvero “nostro”, da cui non è una colpa farsi toccare, plasmare, anche abbruttire.
Si tratta di trovare e praticare rappresentazioni della tristezza che fuoriescano dalla serialità, che non si estinguano nella matassa di pose estetiche che ci assediano da ogni parte, correndo il rischio di apparire magari meno attraenti, interessanti e desiderabili, ma proprio per questo più liberi. Rinunciare alle aspettative irrealistiche a cui ci assoggettiamo anche nella dimensione emotiva, probabilmente, è il gesto catartico di cui abbiamo più bisogno.