Il numero dei femminicidi in Italia aumenta costantemente, ma noi restiamo a guardare - THE VISION
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Un’altra donna, una ragazza, è stata uccisa dall’ex fidanzato – almeno da quanto le evidenze fanno inequivocabilmente intendere. Giulia Cecchettin aveva 22 anni, e la sua morte ha innescato la solita valanga di cliché che, purtroppo, non servono a nulla. Ciò che dovremmo fare è domandarci perché in Italia abbiamo un femminicidio ogni 72 ore – e nel 2023 ne stiamo avendo più che nel 2022 –  e quali azioni concrete possano ridimensionare questa piaga sociale. La cultura machista, lo sappiamo, sta alla base del problema. Ancora oggi molti di noi associano agli uomini caratteristiche legate all’essere dominante, al potere e al controllo, mentre dalle donne ci aspettiamo ancora la tendenza a essere gregarie, dipendenti, remissive. Uno studio condotto negli anni Settanta dalla psicologa Inge Broverman dimostrava proprio questo: all’uomo psicologicamente “sano” era attribuita la tendenza a essere dominante, alla donna psicologicamente “sana”, invece, la predisposizione alla dipendenza e alla subordinazione alla figura maschile.

Oggi sono in tanti a conservare ancora questa visione del rapporto uomo-donna, e a risentire di questa tendenza sono – in forme diverse – entrambi i sessi e non, come si pensa superficialmente, soltanto le donne. Ancora oggi, la maggior parte degli uomini dimostra di avere un pessimo rapporto con le proprie emozioni, a ritenere che indossare una corazza di imperturbabilità li renderà più “maschi”, più virili agli occhi degli altri e dunque più degni di rispetto e ammirazione. Quest’aura di durezza che in molti si sentono costretti a ostentare, spesso, è accompagnata da un pessimo rapporto con il rifiuto, soprattutto quando arriva da una donna, e con l’impossibilità di esercitare il potere e il controllo sugli altri, in primis sulla partner. Sono tanti gli uomini che, non tollerando di mostrarsi fragili, perché ciò gli attirerebbe lo stigma di “persone deboli”, pretendono di controllare tutto, persone, circostanze, emozioni proprie e degli altri; e quando questo non è possibile, perché per esempio la partner non lo permette e sfugge al loro dominio, si rivelano incapaci di gestire le emozioni che si scatenano dentro di loro.

Le donne hanno tendenzialmente più intelligenza emotiva degli uomini, che faticano ad accettare ed elaborare in modo sano stati d’animo e sentimenti come la sofferenza, l’abbandono, la mancanza e la solitudine; per questo, spesso, finiscono per trasformarli in odio, violenza e desiderio di vendetta su chi, secondo loro, è l’artefice di quel dolore. Inoltre alcuni uomini si rivelano incapaci di concepire la donna come una persona a sé stante, dotata di una propria vita emotiva e affettiva indipendente e che, perciò, è libera di scegliere di non restare dentro una relazione. Dovrebbe essere scontato, sì, ma non lo è, e a pagarne le conseguenze sono le donne, ogni giorno.

Per ogni femminicidio, in Italia, si alza sempre un coro di sapientoni che attribuisce parte della responsabilità alla vittima con frasi della serie “avrebbe dovuto accorgersi di chi aveva a fianco, chiudere la relazione alle prime avvisaglie di pericolosità del rapporto”. C’è sempre, poi, chi invita le donne a non accettare gli ultimi appuntamenti con l’ex fidanzato, come se fosse sufficiente rifiutare un incontro per frenare chi ha deciso che, se non puoi essere più “sua”, devi morire. Ma le storie che ascoltiamo parlano chiaro: un uomo che decide di uccidere, spesso, non si ferma né al primo né al secondo rifiuto a un “incontro chiarificatore”. Le vittime di femminicidio non hanno alcuna responsabilità in ciò che accade e, il più delle volte, non avrebbero potuto mettere in atto nessuna misura preventiva. 

Attribuire la responsabilità alle vittime è un meccanismo di difesa che molte di noi però attuano: ci persuadiamo che a noi, alle nostre madri, sorelle, figlie certe cose non possono accadere, perché noi siamo meno incaute, ingenue, sprovvedute di chi invece è stata uccisa. Ma è una storiella quella che ci raccontiamo, che forse sul momento ci rassicura e lenisce la nostra paura, ma che non è ancorata alla realtà; complice infatti la cultura patriarcale e del possesso radicata nella nostra società, che oggettifica la donna ancora nel 2023, tutte siamo potenziali vittime di femminicidio. La prossima donna, quella che in Italia viene uccisa ogni tre giorni, potrei essere io. Tua sorella, tua madre, tua figlia.

Se l’è cercata, poteva prevederlo: sono queste le frasi che dovremmo smettere di pronunciare. Smetterla di farci “rassicurare” dal fatto che sono solo alcune categorie di donne che possono cadere in queste relazioni/trappola, perché tutte le trappole all’inizio sono dorate; tutti i cosiddetti amori tossici – e che quindi con l’amore hanno poco a che fare – rendono la donna dipendente dalle attenzioni dell’uomo al pari di chi non riesce a smettere di assumere droga o di giocare d’azzardo. E quando si è vittime di una dipendenza, come da un rapporto sbagliato, il proprio raziocinio non è sufficiente a fuggire e si rimane intrappolate. E no, non accade solo alle donne che hanno avuto un passato difficile, che sono state abituate al disamore già durante l’infanzia, con alle spalle famiglie disfunzionali. Basta ascoltare le parole del padre e della sorella di Giulia Cecchettin per capire che non esiste una macchia primigenia di chissà che stampo nelle famiglie delle vittime di femminicidio, e che anche le figlie di genitori equilibrati e amorevoli possono restare invischiate in una relazione distruttiva.

Quando un fenomeno ha una portata tanto larga, come il femminicidio in Italia, è fuori luogo anche accusare la famiglia dell’assassino di non essere stata in grado di impartire una corretta educazione al figlio. Nel nostro Paese, la famiglia che educa figli marci è la società, in cui tutti siamo bravi a indignarci quando una donna muore per mano del partner, ma dove ogni giorno le battute sessiste e a sfondo sessuale alle donne suscitano ancora ilarità, purtroppo sia negli uomini che nelle donne. La stessa società in cui il catcalling è la naturale – e per alcuni, del tutto lecita – reazione al passaggio di una donna per strada. È marcia quella società, la nostra, in cui la donna si riduce spesso a un corpo, e quel corpo è trattato alla stregua di un oggetto, qualcosa che ha senso di esistere finché procura piacere e giovamento all’uomo e, in caso contrario, di cui ci si può disfare.

Nel coro di stereotipi che si sono sollevati – gli stessi a ogni femminicidio – dopo la morte di Giulia Cecchettin, una voce condivisibile si è distinta, ed è quella di chi sostiene che gli uomini stiano vivendo un periodo di difficoltà collettiva. Abituati per secoli a essere accuditi, coccolati, vezzeggiati da donne che vivevano in loro funzione, che – anche se maltrattate e umiliate – rimanevano al loro fianco spesso non per deliberata e consapevole scelta, ma soltanto perché non avevano alternativa, gli uomini oggi stanno scoprendo cosa sia il rifiuto. Scoprono finalmente ciò con cui le donne hanno sempre vissuto: la paura di non essere indispensabili, di essere abbandonati e di doversene fare una ragione, e di scoprire che a loro può essere preferito qualcun altro. Dopo secoli in cui potere e controllo sono stati tutti nelle loro mani, e non perché se lo fossero guadagnati per particolari capacità o meriti, ma perché lo ottenevano e detenevano a priori, oggi si ritrovano – anche se solo in minima parte – orfani di potere. E alcuni non riescono a tollerare questa “privazione”: non sopportano di costruire rapporti paritari, nel bene e nel male. Il rifiuto, l’abbandono, il tradimento per alcuni uomini sono dunque intollerabili, talvolta un vero e proprio affronto alla loro mascolinità, rispettabilità, onore. Per le donne è diverso, perché con il tradimento e l’abbandono abbiamo dovuto fare i conti da sempre.

Sarebbe bello dire che, dai tempi della legge sul delitto d’onore, in Italia abbiamo compiuto importanti passi avanti, ma purtroppo la realtà ci dice altro e ce lo dice con tutta la sua violenza. Ogni anno il numero di femminicidi aumenta, e c’è qualche uomo che solo a sentire pronunciare questa parola reagisce, indignato, dicendo che “esistono anche le donne che uccidono gli ex fidanzati”. Esistono, sì, ma sono solo eccezioni perché, anche se può sembrare impopolare, le donne sono abituate – perché la società le induce da sempre a farlo – a rassegnarsi: ai tradimenti, agli abbandoni, agli uomini che vanno via. Attraversano il dolore, piangono tutte le loro lacrime, accettano la mancanza e il senso di umiliazione e vanno avanti. Gli uomini no. O meglio, alcuni uomini no, non sanno farlo, ed è guardando loro che non dobbiamo stancarci di parlare di questa piaga, e di provare a modificare quel paradigma che associa la mascolinità all’archetipo del guerriero a tutti i costi, dell’uomo infallibile; del macho che è forte perché controlla tutto e non cade mai, e che se anche cade fa finta di nulla, piuttosto reagisce con rabbia, mai con l’elaborazione di dolore e abbattimento. Bisogna partire da un cambiamento nella visione e mentalità collettiva per sperare, innanzitutto, che gli uomini sviluppino un rapporto diverso e più sano con le emozioni, soprattutto con quelle negative; e forse, pian piano, riusciremo a fare in modo che le reazioni maschili di fronte a una relazione che finisce, non per loro volontà, somiglino sempre di più alle reazioni che usualmente hanno le donne, le quali, “semplicemente”, se ne fanno una ragione e vanno avanti: senza uccidere nessuno.

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