Dopo i risultati del midterm e l’elezione di una vasta rappresentanza femminile al Congresso, la retorica sul successo femminile rubata alla letteratura self help e agli spot di deodoranti e shampoo – credi in te stessa, perché io valgo, le donne hanno una marcia in più – si è sentita più forte che mai. Quando si è trattato di parlare della vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez infatti, più che parlare delle sue effettive capacità, si è sottolineato subito il suo essere donna e latina e il suo riuscire in quanto tale a favorire l’identificazione e il coinvolgimento di tante persone nel votarla per questioni di genere o di appartenenza etnica – e poi via di gallery fotografiche sul suo look. Eppure la Ocasio-Cortez non ha vinto perché è una donna o perché è un volto nuovo, o almeno, non soltanto. Alexandra “from the block” ha vinto perché ha messo in agenda un socialismo americano fatto di lotte alle ingiustizie sociali, legando la sua condizione di donna non benestante a quella di altre categorie sociali marginalizzate, parlando dell’assicurazione sanitaria nazionale come di un diritto fondamentale per tutti e di accesso all’istruzione trasversale, dando prova di carattere e dimostrando inoltre di essere un’abile comunicatrice quando ha risposto a distanza a Donald Trump dicendo che, essendo originario del Queens, probabilmente non sapeva bene come gestire una ragazza del Bronx. È così, e non solo attraverso frasi superficiali sulla femminilità, che Ocasio-Cortez ha risvegliato il voto delle donne e dei giovani per i democratici, categorie messe spesso ai margini dal potere.
Purtroppo anche da noi gli slogan e i dibattiti che toccano il tema dell’empowerment femminile riconducono spesso il successo delle donne a un’etichetta, una visione a compartimenti stagni a dir poco riduttivi su cosa voglia dire oggi essere a favore delle donne e contro le disuguaglianze. Non basta il genere di appartenenza o l’autoproclamarsi “femministi” per diventare automaticamente garanti delle donne e meno succubi delle varie forme di potere e di vecchi paradigmi sociali. Tutte le volte che trasformiamo l’essere femministe in una pura operazione di marketing personale, stiamo sostenendo quello che nello specifico viene definito pink washing.
Il pink washing – in politica, nella moda o in ambiti che prima erano esclusivamente prerogativa maschile – è un mix di pensieri approssimativi sul cosiddetto “universo femminile”, che non solo risulta banale, ma finisce anche per essere dannoso. Se l’essere femministe diventa un processo di facciata, ossia il semplice definirsi tali fregiandosi di un’etichetta linguistica o mettendosi un cappellino rosa con due orecchie da gattino in testa, allora può essere preso in prestito da chiunque e strumentalizzato molto più facilmente rispetto al passato.
Con pink washing, nello specifico, si intende un’operazione di “lavaggio rosa”, che tinge qualsiasi argomento trattato di questo colore, e può avvenire in qualsiasi contesto pubblico e privato: in politica, nel marketing, in editoria, in casa nostra. Ci si appropria, strumentalizzandola, dell’etichetta “a favore alle donne”. Cosa che fanno spesso gli uomini, ma anche le donne stesse. Si può fare pink washing sfruttando il valore positivo e altruistico del femminismo a livello mainstream con il solo scopo di garantirsi un miglioramento della propria immagine o di trovarsi una propria nicchia lavorativa. Ultimamente lo stanno facendo tantissime intellettuali e artiste, non sempre in buona fede. Ci si sveglia un mattino, ci si riscopre femministe et voilà, il gioco è fatto, anche se si è totalmente mediocri e fino al giorno prima nessuno ci considerava non in quanto “donne”, ma proprio in quanto “esseri umani con poco talento”. Un esempio esplicito di questa stessa dinamica più sfuggente è quello delle quote rosa. Le donne diventano numeri, manichini da mettere qui e là dove fa comodo, “un tocco di colore”. In politica ci si accontenta così di candidarle per darsi un tono egualitario, quando poi non si lavora davvero su politiche efficaci e favorevoli a riguardo. Per esempio, il Governo Renzi è nato come quello più “rosa” di sempre, con 8 ministri e 8 ministre nominati e con un indice di parità del 50%, ma già con le nomine dei Viceministri e dei Sottosegretari questa percentuale è scesa, arrivando poi a toccare il 27%. Al momento della presentazione dell’esecutivo, però, era troppo forte la tentazione di proclamarsi un governo “in rosa”. La stessa dinamica è quella che prevede il rebranding di tanti marchi di moda, che punta ad assicurarsi i vantaggi che ogni operazione altruistica e inclusiva comporta in termini di consenso e di vendite, senza che però che questa politica aziendale tocchi mai reali punti nevralgici della questione in grado di portare a un cambiamento tangibile.
Una delle approssimazioni di cui si nutre il pink washing è l’idea che il successo femminile, come nel caso della Ocasio-Cortez, sia dovuto al fatto di essere donne – o meglio ancora, nonostante a questo. Un’altra è che per combattere gli ostacoli e le disuguaglianze di genere sia sufficiente avere fiducia in se stessi e nel proprio valore – concetto tra l’altro abbastanza discutibile visto che puoi anche essere una donna, gay, lesbica, una persona disabile, o un immigrato, ma essere nondimeno poco intelligente, aggressivo, egoista o pigro. L’essere parte di una minoranza non ti rende istantaneamente un individuo migliore, e questo è bene ricordarselo. L’autostima, però, è sicuramente un valore importante nell’autodeterminazione dell’essere umano, ma non è l’unico, e se la sua realizzazione e il suo raggiungimento vengono fatti coincidere con la capacità di spesa come oggi spesso accade e con valori legati esclusivamente all’esteriorità, c’è il rischio di rendere tutto il processo di empowerment che ne deriva inefficace.
Come si diceva prima, il marketing strumentalizza il dichiararsi dalla parte delle donne per riuscire a vendere molti più prodotti femminili: dalla moda alla cosmesi. Oggi il vecchio “noi ci prendiamo cura delle donne” è stato soppiantato dal “noi siamo femministi”: la formula è leggermente cambiata ma l’intenzione a monte è la stessa, neanche tanto abilmente nascosta dietro a presunti processi di inclusione. Perché se si lega l’essere femministe al miglioramento dell’autostima, e quest’ultimo alla cura della propria immagine come necessità assoluta per sentirsi a proprio agio nel mondo e avere successo, ancora una volta è il nostro corpo ad essere giudicato e strumentalizzato. E cosa c’è esattamente di “femminista” in questo meccanismo? Nel caso per voi questa non sia una domanda retorica la risposta è: niente. È solo una leva sulla quale insistere per far spendere più soldi alle donne.
Associare il femminismo alla capacità di spesa delle donne (che comunque è inferiore a quella degli uomini a causa di quella storia sulla mancata parità dei salari), è un’idea di movimento libertario individualista e un po’ naif che crede che basti cambiare il modo in cui ci si sente per abbattere magicamente tutti gli ostacoli e le discriminazioni sociali che le donne puntualmente incontrano sul loro percorso. Un po’ come tante Mary Poppins, basta un poco di zucchero e un bel sorriso. Se vogliamo, questo può essere forse un possibile – e comunque discutibile – punto di partenza, ma di sicuro non il punto di arrivo, specialmente se il diritto di essere donna si riduce a quello di essere “bella”, anche se l’orizzonte di ciò che è bello (spesso con gli stessi fini strumentali) ora è stato ampliato. Se accetti e fai sentire belle tutte, infatti, il tuo bacino di clienti inevitabilmente si amplia. Dunque ora possiamo essere belle come vogliamo, ciascuna a modo suo, unica e irripetibile. a patto che per accedere a quella nostra bellezza più recondita e far risplendere la nostra luce – attraverso i nostri capelli, lisci o riccissimi, e attraverso il nostro incarnato, opalescente, olivastro o nero, e tutte le sfumature che ci stanno in mezzo – spendiamo soldi in fondotinta, collant, scarpe, shampoo, maschere per il viso, braccialetti e collanine.
Il femminismo dovrebbe mirare a cambiare le nostre strutture sociali in modo orizzontale, più che soddisfare un bisogno personale. Anche perché così finiamo per identificarlo con il materialismo. Se è vero che la disponibilità economica è sicuramente una forma di indipendenza, se si riversa in maniera indiscriminata nel sistema capitalista perde tutto il suo potenziale rivoluzionario. Dall’altra parte non c’è niente di male nel comprarsi un bel vestito o un paio di scarpe di cui non abbiamo una particolare necessità, così come non c’è bisogno di farsi crescere i peli sulle gambe o rifiutare del tutto la cura della propria immagine e della propria persona per andare contro al sistema, basterebbe pensare e agire in modo più etico, andando oltre agli slogan, alle linee editoriali dei brand, interrogandosi fino a dare a forma a una propria definizione di femminismo, solo così si potrà andare oltre all’etichetta predefinita e alle strumentalizzazioni, ed è questo alla fine dei conti il primo vero processo di empowerment, il discernimento, la creazione di una coscienza personale e collettiva, senza che ci venga imposta da qualcun altro.
In realtà, più dell’esortazione pubblica alla ricerca dell’autostima perpetua – come se il sistema facesse proprio leva sulla presunzione delle nostre insicurezze (inculcateci dai vecchi paradigmi del sistema stesso) e sul fatto che, forse, in fondo la verità è che non ci crediamo abbastanza e che, forse, siamo effettivamente inadeguate – le donne avrebbero bisogno di vedere i loro diritti riconosciuti, e questo attraverso servizi, reali pari opportunità, riconoscimento dei propri meriti reali e azione politica effettiva.
Eppure parliamo molto della vittoria dell’Io bello, determinato, sicuro e con i capelli profumati di frangipani, del potenziamento del self-empowerment con cui si possono abbattere strutture di potere opprimenti, e poco di tutto il resto. L’Io e le boobs t-shirt rischiano ciclicamente di fagocitare ogni riflessione su come trasformare il femminismo da accessorio per giovani donne bianche medio-borghesi a uno strumento di lotta alle ingiustizie sociali per diverse categorie svantaggiate. Così, mentre le donne si guardano allo specchio recitando formule di incitamento al successo, gli indici sociali del Gender Gap Report 2017 che misurano la disparità in Italia, lasciando da parte le percezioni personali, non disegnano affatto un mondo dove l’esplosione del pink washing e del self-empowerment, almeno negli ultimi anni, ha reso la società più egualitaria. Nel 2006 eravamo al 77esimo posto dell’indice generale di parità, nel 2017 all’82esimo. La Francia nello stesso periodo ha guadagnato più di 50 posizioni, la Germania ne ha persa qualcuna ma è comunque nelle prime 20. Il nostro indice di Health and Survival è passato nello stesso periodo dalla 77esima alla 123esima posizione. Nonostante certi valori sembrino ormai diventati di dominio pubblico e quindi apparentemente a portata di mano, evidentemente non è così, c’è ancora tanto da fare perché vengano realmente integrati nel nostro modo di pensare.
In questo momento storico sembra che da un momento all’altro ci possa essere il rischio di regredire in merito ai diritti raggiunti dopo anni di lotte. Il dibattito politico e culturale continua a strumentalizzare il nostro corpo, in Italia c’è ancora un numero spropositato di medici obiettori di coscienza (nome che contiene già un certo tipo di giudizio e che forse andrebbe riformulato), l’iter per riuscire a interrompere una gravidanza non desiderata è lungo e macchinoso, se si decide di avere un figlio in molte realtà si rischia ancora il licenziamento e una volta che lo si è avuto è molto difficile riuscire a mantenere il posto – solo due anni fa sono state 30mila le donne che hanno dato le dimissioni dal posto di lavoro in occasione della maternità e l’Istat contava solo 22,5 posti in asilo nido ogni 100 bambini tra 0 e 3 anni, ben al di sotto dei 33 posti indicati come obiettivo strategico dalla Unione europea. Inoltre, se a un colloquio sanno che ne hai uno o più magari la possibilità di assunzione cala. Se stai male durante il ciclo non hai il diritto a non lavorare, se non lavori durante il ciclo di nuovo ti licenziano o non ti assumono, e comunque se lavori guadagni in proporzione meno di un uomo. Senza considerare il fatto che nel nostro Paese le donne sono ancora discriminate in casa e muoiono molto più spesso per mano dei loro compagni italiani che a causa di fantomatici e sconosciuti immigrati. Ma se l’empowerment femminile resta legato a questioni di consumo e di washing, che tende a giustificare ogni azione o non-azione senza misurarne l’impatto collettivo e i condizionamenti che l’hanno prodotta, invece di farsi portatore di un desiderio globale di giustizia sociale, difficilmente la società che ci ospita diventerà un posto più accogliente, perché tutto il suo potenziale sovversivo verrà annichilito insieme alla cellulite e alle doppie punte.