Le dichiarazioni di Elisabetta Franchi sono purtroppo condivise da molti imprenditori italiani - THE VISION

Qualche giorno fa alla scuola materna che frequenta mia figlia è stata organizzata una festa dedicata alle mamme. Quando sono entrata, però, nessuno mi ha allungato la ghirlanda di fiori sintetici arcobaleno riservata alle genitrici, perché tutti – a parte la maestra, che non era ancora spuntata nell’atrio – avevano pensato fossi la tata. A quel punto mi sono meritata collana e pure il braccialetto. Non è la prima volta che succede, era capitato anche alla festa degli zii e dato che, come si dice, i bambini sono la bocca della verità, all’inizio dell’anno un treenne al parco giochi mi ha proprio chiesto se non fossi la tata di mia figlia, e sospettoso non credeva che fossi “una” mamma perché secondo lui ero troppo giovane e troppo bella. Al di là della gioia spontaneamente suscitata dal complimento, dopo quattro anni in cui tutti a Milano mi chiamano “signora” – ma solo quando mi vedono in compagnia di mia figlia, come se da sola sembrassi a tutti gli effetti una scappata di casa secondo il senso comune meneghino – la cosa mi ha fatta pensare.

Eurostat, nel 2019, registrava il raddoppio negli ultimi vent’anni della percentuale di donne che ha avuto il primo figlio dopo i quarant’anni, da una media europea di 2,4% al 5,4%. In Italia nel 2009 la percentuale di primipare over 40 era del 6,1%, e nel 2019 aveva raggiunto l’8,9%. Il problema è che questa – anche se potrebbe sembrarlo, al pari della decisione o meno di diventare madri – è tutt’altro che una libera scelta. È l’assetto sociale in cui le donne si trovano a dettare questa decisione, in particolare in Italia, dove l’ingresso nella vita adulta – e quindi l’indipendenza economica, ma non solo – arriva tardi rispetto ad altri Paesi, a causa della mancanza di occupazione, dei redditi spesso insufficienti per vivere (e quindi men che meno provvedere ai bisogni di un nuovo essere umano) e di una casa, che in alcune città è ancora un problema. La maggior parte delle coppie che avevano appena avuto un figlio che conosco a Milano, hanno passato i primi tre anni di vita del bambino in un bilocale, ovvero una casa che non aveva una stanza specifica per il figlio – con tutte le conseguenze che ciò può avere.

Come sappiamo, poi, per le madri non ci sono politiche di conciliazione tra maternità e carriera, il lavoro di cura ricade tuttora del tutto (o quasi) su di loro e anche in questo caso non sempre per scelta personale, ma perché – anche quando hanno un lavoro – i loro stipendi sono di molto inferiori a quelli dei compagni (a causa del gender pay gap) e nel lungo periodo la loro possibilità di affermarsi e scalare la gerarchia professionale, a causa dei vari – infrangibili – soffitti di cristallo che le ostacolano, è molto più bassa, e rappresenta quindi una prospettiva familiare più rischiosa da un punto di vista economico.

In Italia la cultura di genere è ancora estremamente asimmetrica. Non a caso, qualche giorno fa la stilista, madre e imprenditrice Elisabetta Franchi ha detto con un candore devastante – “parlando dalla parte dell’imprenditore” – che “se metti una donna in una carica importante, se è molto importante, poi non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni, perché quella posizione è scoperta”. Per questo, Franchi ammette di aver sempre puntato sugli uomini. Oggi Franchi, incalzata dall’intervistatrice, ha poi detto di mettere sì anche le donne – peraltro discutibile l’uso di questo verbo, come se i dipendenti fossero oggetti, pedine – ma “anta”, ovvero sopra i quaranta, forse pensando che a quel punto “il rischio” di fare figli sia inferiore. Probabilmente, se venisse a sapere dei dati raccolti da Eurostat, le sue discriminazioni si estenderebbero. Perché a quanto pare il fatto stesso di avere un utero rappresenta un potenziale rischio per molti datori di lavoro, che devono pensare al bene dell’azienda ed evidentemente non sono in grado di cambiare visione e magari di proporre alle istituzioni possibili soluzioni.

Peraltro Franchi parla di “ragazze cresciute”. Ci si chiede dunque come noi “eterne ragazze” (come ha scritto Raffaella Silvestri e come ciascuna di noi purtroppo sa bene) ci possiamo guadagnare il titolo di donne – adulte, mature, responsabili e competenti – dato che evidentemente non basta né l’età né la carriera. Forse solo il diventare madri può accordarci questo salto di specie, ma rischiare anche di farci essere tagliate fuori dalla carriera, a meno che non ce ne siamo faticosamente creata una prima del grande passo. Ma non è vero neanche questo, perché anche in quel caso nei luoghi di lavoro si resta ragazze. Forse gli imprenditori e le imprenditrici non vogliono offenderci, come se crescere, maturare e invecchiare sia comunque un punto a sfavore per l’essere umano di genere femminile. Al tempo stesso negli ambienti dedicati alla maternità si passa istantaneamente dall’essere ragazze a “mamme”, come dimostra l’uso che si fa negli ospedali di questo appellativo, in cui più nessuno ti chiama “signora + tuo cognome”, o anche per nome proprio, ma genericamente e sistematicamente “mamma di”, cancellando in un momento la tua identità individuale.

Elisabetta Franchi

Come se non bastasse Franchi, non soddisfatta – con la stessa mancanza di responsabilità rispetto al peso delle parole dimostrata da Kim Kardashian, parlando degli sforzi fatti per entrare nel vestito di Marilyn Monroe per il MET Gala – ha dichiarato “Credo che noi donne abbiamo un dovere nel nostro DNA: i figli li facciamo noi, non esistono ancora gli incinti [spoiler: falso], il camino di casa lo accendiamo noi”. Sentire nel 2022 queste parole – soprattutto da parte di una persona che occupa una posizione di vertice aziendale – lascia sgomenti. Pensare che nel nostro DNA sia iscritto un “dovere” – etico, morale – è un mandato sociale che ci fa fare un bel salto all’indietro – sul piano del sapere sociologico, filosofico, medico e biologico – ai tempi del determinismo biologico. Ma daltronde, di questi tempi, questo presunto dovere, rischia di tornare a essere un vero e proprio obbligo, anche nelle grandi democrazie del mondo, basti pensare al rischio di abolizione del diritto di aborto negli Stati Unitima anche in Italia. Peraltro non so a quali lavoratrici vada il pensiero di Franchi, ma al netto della metafora sul focolare domestico, la maggior parte delle “ragazze” di cui parla non si può permettere una casa col caminetto e a volte nemmeno una casa adatta a costruire una famiglia, proprio per i motivi detti sopra.

Anche la contronarrazione della maternità in quanto capacità generativo-creativa della donna appare poco soddisfacente in quanto tiene comunque come fulcro l’immagine della madre – ampia e inclusiva d’accordo, ma comunque “madre”, sempre intesa con lo stesso significato e valore. Sarebbe invece importante demitologizzare questa immagine, offrendo politiche di sostegno per le donne che hanno dei figli, smettendola al tempo stesso di considerare quelle che non li hanno come se mancasse loro qualcosa o fossero insufficienti. Le donne che per varie ragioni hanno scelto di non diventare madri non dovrebbero delegittimare l’esperienza delle donne che per varie ragioni hanno scelto di farlo, e viceversa. Tutto questo stende un tappeto di rinunce, sogni, sacrifici, paure, desideri complessi, in una direzione e nell’altra. Non tutte le donne sono madri, e non c’è nulla di male o di sbagliato in questo. Se scrivo un libro vorrei essere definita scrittrice, non madre. Le madri di bambini, ancora oggi, si trovano di fronte a enormi problemi, purtroppo esponenzialmente più grandi delle madri di manufatti o di idee, problemi che nessuno o quasi – sicuramente non a livello istituzionale –  riconosce. Perché fa comodo così, tenerle al di fuori.

Al di là dei pregiudizi e della mancanza di prospettiva rintracciabili nelle parole di Franchi, infatti, il problema è che osservando i dati appare evidente che questa sia la credenza di moltissimi imprenditori e datori di lavoro, maschi e femmine che siano, e che Franchi semplicemente abbia dato loro voce. Non si capisce perché l’Italia – e con lei gran parte del mondo – voglia privarsi di un’enorme parte della popolazione che potrebbe invece contribuire molto e in varie forme alla vita del Paese. Per sfatare le leggende metropolitane: secondo uno studio del 2005, condotto dagli psicologi Carolyn Pape Cowan e Philip A. Cowan, tra i vari side effects del diventare madri, per un gran numero di donne si registrerebbe anche un impegno più efficiente ed efficace nella ricerca di lavoro o dello sviluppo della propria carriera – per far fronte sia a nuovi bisogni economici, ma anche al proprio stesso desiderio di soddisfazione personale. Aggiungo io, come se vedendosi messe con le spalle al muro e assediate dalla pressione legata al lavoro di cura – quello sì a tempo indeterminato – capissero di dover fare il possibile per mantenere a ogni costo un loro ruolo sociale che non fosse esclusivamente quello di madri, e non venire del tutto cancellate dalla vita associata dell’umano. Eppure neanche la scienza basta per far cambiare mentalità a questo zoccolo duro di conservatori che purtroppo dispongono di un enorme potere economico. Sembrerebbe che ancora oggi le nazioni preferiscano tenerci in casa, possibilmente a procreare futuri soldati, o alla peggio altre madri, invece che sogni e ideali, dandoci la possibilità di concretizzarli.

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