L’idea che alcune icone dell’immaginario comune, dei punti di riferimento che hanno contribuito a fare la storia dell’arte, della letteratura, della cultura in generale, possano esporsi al rischio della gogna social perché si comportano come Kanye West, non mi fa sentire per nulla a mio agio, dato che vederli scrivere Tweet provocatori per aizzare la polemica del momento li priverebbe di quell’aura di grandezza a cui ci si appella per trovare un po’ di conforto quando si pensa che l’umanità stia andando a rotoli. Un costrutto rassicurante che vorrei mantenere intatto, concedendomi il lusso di non pensare ai comportamenti mediocri e alle idee discutibili che personaggi come Salvador Dalì o Ernest Hemingway possono aver sostenuto durante la loro vita.
Il più delle volte, a dire il vero, non riesco a spiegarmi nemmeno le sparate di Ye – nome d’arte con cui i fan hanno battezzato Kanye e che egli ha da poco acquisito ufficialmente –, che manifesta sempre più di frequente l’urgente bisogno di affidarsi a un bravo social media manager, capace di limitare i suoi sfoghi deliranti. Poco meno di un mese fa, infatti, il rapper è stato nuovamente cacciato prima da Instagram e poi da Twitter a causa della pubblicazione di diversi post antisemiti decisamente pesanti: l’ultima brillante uscita dell’artista, che si aggiunge alla sua collezione di pericolosi sbilanciamenti estremisti. Solo qualche giorno prima dell’esilio social, infatti, Kanye West aveva sfilato alla settimana della moda di Parigi indossando delle magliette – parte della nuova collezione targata Yeezy – con una stampa di Papa Giovanni II, sul cui retro spiccava la scritta “White Lives Matter” – un chiaro ribaltamento del nome dato al movimento attivista internazionale contro il razzismo – che a causa del messaggio controverso che riportavano, sono costate all’artista l’annullamento di diverse collaborazioni con colossi del fashion system come Adidas e Balenciaga.
La condanna all’ostracismo di Kanye West è in atto ormai su diversi fronti, ma ciò che stupisce nell’atteggiamento del rapper ancor più della sua follia razzista, antisemita e filo-trumpiana, sono le sue repliche alle critiche, alla disapprovazione e ai tentativi di censura che subisce. Di fronte agli attacchi che gli sono stati rivolti in seguito allo scandalo di Parigi, infatti, Ye ha rincarato la dose, lanciandosi in affermazioni come: “Lo sanno tutti che il Black Lives Matter era una truffa. Ora è finita, prego” – una frase che esprime la sincera convinzione di poter muovere le sorti del mondo attraverso la scelta dei suoi outfit –, oppure rispolverando alcuni classici ritornelli del suo copione da megalomane: “Tutti qui sanno che io sono il leader, non puoi gestirmi”. Che Kanye West si creda Dio non è un segreto, infatti lo ha dichiarato più volte durante le interviste; confermato con la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti nel 2020 e anche cantato nel suo album Yeezus, che contiene un brano intitolato proprio “I Am a God”, tutti indizi che fanno sospettare quanto la sua incrollabile fede sia mossa principalmente dalla convinzione di poter riformare la trinità, rendendola un quartetto Hip Hop composto da padre, figlio, ego di Kanye e spirito santo. Amen.
Di certo il gusto per la provocazione fa parte del personaggio di Ye ed è da sempre la più efficace delle sue operazioni commerciali, una strategia di marketing che spesso si conclude con delle scuse agli offesi. Va detto, inoltre, che il delirio di onnipotenza manifestato dal rapper è sicuramente acuito dal disturbo bipolare di cui soffre – e che ha raccontato nel suo album Ye, la cui copertina, che riporta la frase “I hate being bi-polar. It’s awesome”, è una chiara dichiarazione d’intenti. Al di là dello schierarsi con la parte che accusa o con quella che difende i comportamenti di Kanye West, nel suo modus operandi si può rinvenire una tendenza che ci appartiene più di quanto vorremmo e che spesso è alla radice del senso di insoddisfazione che si fa strada, sempre più prepotentemente, nelle nostre vite. La possibilità di esibire la nostra presenza online, soprattutto sui social, infatti, ci ha dato modo di costruire uno spazio virtuale su misura che nel nostro piccolo ci fa sentire onnipotenti proprio come Kanye perché, avendo scelto in prima persona sia gli utenti con cui condividerlo, sia i contenuti da visualizzare al suo interno, non corriamo il rischio di incontrare opinioni diverse dalle nostre e quindi di doverci mettere in discussione. In questo modo rispondiamo online a tutte le nostre esigenze di gratificazione, rendendole sempre più difficili da soddisfare nella vita vera, che invece è molto più composita e sfaccettata della nostra bolla virtuale.
Le ultime notizie riportano l’acquisizione da parte di Kanye West del social Parler, una piattaforma la cui caratteristica principale è l’essere completamente senza censura, motivo per cui è stata particolarmente apprezzata dall’estrema destra durante le presidenziali del 2020. A proposito di questa trovata, che segue le orme di Elon Musk – uno dei grandi sostenitori di Kanye durante la sua corsa alla Casa Bianca, ma soltanto per i primi tre giorni – e della sua conquista di Twitter, il rapper ha dichiarato: “In un mondo dove le opinioni conservatrici sono considerate controverse, dobbiamo assicurarci di avere il diritto di esprimerci liberamente”. Un’affermazione che lascia poco spazio a fraintendimenti e che chiarisce la volontà di Ye di creare uno spazio “protetto” che consenta a tutti di esprimere le proprie idee retrograde, dato che gli estremisti – poverini – in mancanza dell’ecosistema dell’impunità creato da Parler dovrebbero limitare le loro esternazioni, per non subire uno dei provvedimenti previsti dalle politiche restrittive di altri social come Facebook – che di restrittivo, spesso, hanno ben poco, e in realtà pullulano di uscite razziste o misogine che misteriosamente “non violano gli standard della community”. Un ragionamento perfettamente allineato con il tema del “non si può più dire niente” che ha invaso il dibattito pubblico occidentale, declinato nella più perversa delle prospettive, ovvero quella che include la libertà di offesa o discriminazione nella libertà di espressione.
Kanye West vuole creare un mondo fatto a sua immagine e somiglianza – e non si può dire che in questo non sia coerente – dove poter dire tutto quello che gli passa per la testa senza subire alcuna conseguenza e con l’appoggio di un’intera community che la pensa esattamente come lui. Parler infatti, vive del paradosso per cui è nato come un social privo di censure, ma non si è evoluto nella piattaforma per antonomasia della pluralità di opinione, bensì in uno spazio adatto e abitato dagli estremisti. Questa è la situazione che tende a replicarsi anche quando attraverso i nostri alter ego online ci impegniamo, consciamente o inconsciamente, per dare vita a un ambiente che, più che sulle nostre preferenze personali, è modellato su un bisogno di appagamento egocentrico che non trova abbastanza spazio per essere soddisfatto nella realtà. Se infatti nella vita di tutti i giorni siamo spesso costretti a trovare un modo per interagire con le persone con cui non andiamo d’accordo ma che non possiamo evitare, o per confrontarci con idee diverse dalle nostre, magari entrando in conflitto con gli altri o mettendo in dubbio una posizione che ritenevamo incrollabile, sui social possiamo evitare questi elementi di contrasto che ci fanno sentire insicuri e poco apprezzati o metterli immediatamente a tacere.
Questa strategia alimenta una sorta di “effetto Kanye West”, che è in grado di aumentare le conferme delle nostre convinzioni e quindi la nostra autostima finché ci troviamo in un contesto di interazione controllato, che abbiamo costruito accettando i cookies, scegliendo di visualizzare esclusivamente dei contenuti allineati al nostro pensiero e selezionando con cura i nostri “amici” virtuali – a cui vogliamo bene, nella maggior parte dei casi, perché ci danno ragione. Per mantenere vivo l’apprezzamento che sentiamo di meritarci all’interno del nostro mondo virtuale, che corrisponde più o meno all’estensione dei diversi profili social a cui siamo iscritti, siamo disposti a ricondividere all’infinito i contenuti che sembrano compiacere i gusti del nostro pubblico, alimentando la logica del pensiero unico; a esasperare la percezione dei nostri successi e fallimenti affinché sembrino più interessanti da raccontare; a fare qualsiasi cosa per ”essere qualcuno” online così che l’effetto Kanye West continui a regalarci il brivido dell’onnipotenza all’interno di uno spazio limitato e autoreferenziale.
Valutando la nostra vita attraverso delle categorie di rappresentazione gonfiate dalla potenza che sentiamo di possedere sui social – e che dunque sono del tutto al di fuori dalla nostra portata una volta che usciamo da quel contesto –, però, siamo portati a sminuire e a disprezzare la vita reale, dove non riusciamo a ritrovare lo stesso riscontro, e a percepire la stessa potenza che siamo soliti possedere online.
L’effetto Kanye West ci abitua a essere circondati da persone che ci danno ragione, dunque, finisce per illuderci che difficilmente una nostra presa di posizione potrà essere ritenuta discutibile o potrà fare del male a qualcuno. Un fraintendimento dannoso che spiega il proliferare delle shit storm, che vengono spesso sollevate con grande leggerezza dagli utenti, senza pensare alle ripercussioni per chi le riceve. Questa distorsione che agisce su due fronti diversi – esasperazione dell’emotività e cancellazione della responsabilità – si riversa sulla vita reale rendendola una condizione deludente, dove ci sembra di non raccogliere altro che critiche al nostro pensiero e dove dobbiamo costantemente prenderci la responsabilità di quello che diciamo, soprattutto preoccupandoci che non rischi di ferire qualcuno. In questo senso, uscire dallo spazio dei social per tornare alla vita offline, fa scaturire in noi un forte senso di insoddisfazione che deriva dalla perdita del senso di onnipotenza tipico di Kanye West, sostituito, nella realtà, dalla sensazione che qualsiasi risultato raggiungeremo non sarà pienamente soddisfacente fino a che non gli dedicheremo un post, ottenendo il consenso assoluto e senza sbavature a cui ambiamo.
La prima conseguenza del ritorno alla realtà, dunque, è una visione “corrotta” di noi stessi e dei nostri risultati, che sembrano meno appaganti finché non vengono esibiti online, un po’ come accade a Madame Bovary nel capolavoro letterario di Gustave Flaubert, quando comincia a vedere, ma soprattutto a vedersi, attraverso la lente deformante di una percezione di secondo grado, rappresentata dalla lettura, che la porta a mortificare la realtà. La protagonista dell’omonimo romanzo è l’esatta personificazione della nostra insoddisfazione perenne perché incarna il più chiaro esempio letterario di negazione della realtà. Nel corso dell’intera narrazione, infatti, Madame Bovary non riesce mai a staccarsi dalle idee preconcette sulle relazioni affettive e sulla vita sociale che le vengono dai suoi viaggi nella fantasia, arrivando a considerare la sua quotidianità insopportabile, monotona e noiosa in forza di queste convinzioni. Invece di curarsi della sua esistenza, ritenuta troppo ordinaria, la protagonista di Flaubert preferisce fantasticare sulle vite dei personaggi che animano i libri che legge, proprio come facciamo noi quando ci rifugiamo nella nostra immagine social, ritenendola la versione più interessante di noi stessi – in un tentativo di evasione dalla realtà che in psicologia ha preso il nome di bovarismo.
Ma il personaggio di Flaubert, proprio per la sua capacità di incarnare un sentimento condiviso, può diventare il punto di partenza per riparare all’insoddisfazione data dall’effetto Kanye West, perché permette di riflettere con consapevolezza su un’evasione dalla realtà che non fa altro che acuire le nostre insicurezze e la nostra difficoltà a comunicare con gli altri. La tragica fine di Madame Bovary, infatti, è data dalla sua incapacità di comprendere che le vite eroiche a cui si appassiona nei libri sono impossibili da realizzare nella realtà, e che per quanto lei voglia assomigliare ai personaggi di un romanzo, non saranno queste fantasie a modificare la sua condizione.
Non essendo modellata su di noi, la realtà ci sottopone a delle criticità – come la difficoltà di trovare un punto d’incontro con opinioni diverse dalle nostre, le responsabilità che derivano dalle nostre affermazioni, l’idea di essere messi in discussione anche quando pensiamo di aver tagliato un traguardo importante –, che minano le nostre sicurezze, ma proprio per questo aggiungono valore ai risultati che otteniamo, perché per ottenerli abbiamo dovuto superarle. Quello su cui dovremmo lavorare non è la costruzione di un mondo fatto su misura per noi, perché chiuso nell’autoreferenzialità, ma è l’estensione della nostra capacità di raccogliere suggestioni e critiche, per elaborarle in una versione arricchita di noi stessi, che ci faccia sentire più appagati. Imparare a farlo, non significa guadagnare l’onnipotenza, ma di certo sentirsi più liberi dagli schemi preconcetti e frustranti che ci imprigionano nell’insoddisfazione, fuori e dentro la rete.