La guerra non ha un volto di donna, diceva la giornalista e scrittrice bielorussa nata in Ucraina e premio Nobel per la letteratura nel 2015 Svetlana Aleksievič, raccontando la guerra attraverso le parole delle testimoni, non solo civili, ma anche di quelle tante donne – quasi un milione – che prestarono servizio nell’esercito sovietico, nelle varie specialità, anche quelle più “maschili”. La guerra, dice Aleksievič, la tramandano le donne, piangendo e cantando, perché sono le donne che per la maggioranza restano a popolare i villaggi. Eppure, la guerra che arriva sui libri di storia, affermandosi, è una guerra raccontata dall’ideologia, dalla retorica e dalla propaganda degli uomini.
La guerra rende invisibile qualsiasi altro attore che non siano i politici e gli eserciti, composti in larga maggioranza da uomini. Le donne finiscono sullo sfondo e la loro sofferenza viene usata per nutrire la propaganda. Insieme ai bambini, le donne sono vittime silenziose, perché “invisibili” e senza la possibilità di far sentire la loro voce – tanto che anche quando decidono di entrare nell’esercito spesso non viene loro riconosciuto lo stesso valore dei colleghi. Il conflitto armato, insieme alla retorica del patriottismo, esclude tradizionalmente la donna, relegandola più che mai al ruolo di cura e rafforzando le gerarchie legate al genere, polarizzando le aspettative sociali sui ruoli binari. La guerra, infatti, rafforza più di qualsiasi altra situazione l’aspettativa ideologica che le donne si comportino da donne e gli uomini da uomini.
Mentre i soldati – volenti o nolenti – diventano eroi, spinti dalla retorica bellica e dall’eccitazione emotiva necessaria per affrontare qualsiasi scontro, la guerra si combatte anche sui corpi delle donne, al pari di territori da conquistare, distruggere, usurpare. Vengono così torturati, violentati, umiliati e spersonalizzati. Gli uomini sacrificano la loro vita per difendere la patria, le “loro” donne e i “loro” bambini, ma così facendo costretti ad abbandonarli, lasciandoli esposti ai pericoli. Così, in Ucraina si parla sempre più spesso di casi di stupri, e gli osservatori internazionali, dopo 21 giorni dall’inizio del conflitto, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) esprimeva preoccupazione per il rischio di tratta di esseri umani, sfruttamento e abuso sessuale in Ucraina e nelle regioni circostanti, alla luce dell’aumento del numero di persone vulnerabili in fuga dalla guerra.
I pubblici ministeri ucraini hanno avviato più di duemila indagini a carico dell’esercito di Mosca, ma le autorità russe continuano a respingere le accuse dicendo che gli ucraini mentono sugli attacchi contro i civili. Secondo Human Rights Watch, però, ci sono dei precedenti, dato che le truppe russe si sono macchiate di reati sessuali anche in passato, soprattutto durante la guerra in Cecenia. Human Rights Watch (Hrw) ha intervistato dieci persone, tra cui testimoni, vittime e residenti in zone occupate dalle forze russe. Le conversazioni sono avvenute sia di persona che per telefono e molti hanno chiesto di essere identificati soltanto con il loro nome proprio o con pseudonimo. Hugh Williamson, direttore di Hrw per Europa e Asia centrale, ha dichiarato: “I casi che abbiamo documentato mostrano indicibili deliberate crudeltà e violenze contro civili ucraini. Stupro, omicidio e altre violenze perpetrate su persone in mano alle forze russe devono essere oggetto di indagini per crimini di guerra”. L’ambasciatrice del Regno Unito in Ucraina, Melinda Simmons, ha accusato duramente tutto questo su Twitter: “Lo stupro è un’arma di guerra. Nonostante non sappiamo ancora la portata totale di questo uso in Ucraina, è già chiaro che faceva parte dell’arsenale della Russia. Donne stuprate davanti ai loro figli, bambine davanti alle loro famiglie, come deliberato atto di soggiogamento. Lo stupro è un crimine di guerra”. Lo stupro, infatti, nel 1998 è stato riconosciuto come crimine contro l’umanità grazie al Trattato di Roma, entrato in vigore nel 2002, che ha istituito un tribunale internazionale e la fissazione di parametri precisi e condivisi. Peccato, però, che tra i non firmatari del Trattato di Roma ci siano proprio Cina, Russia e Stati Uniti.
L’ufficio del procuratore generale dell’Ucraina, Iryna Venediktova, ha creato un apposito sito dove denunciare abusi e violenze dei soldati russi allegando prove circostanziate, con la speranza, per quanto labile di avviare in futuro processi legali. La deputata ucraina Lesia Vasylenko ha dichiarato “abbiamo notizie di donne che sono state stuprate in gruppo. Alcune sono anziane. La maggior parte è stata giustiziata dopo lo stupro o si è suicidata”. Domenica 3 aprile in piazza del Duomo, a Milano, c’è stata una manifestazione contro gli storpi di guerra a cui hanno partecipato numerosi membri della comunità ucraina lombarda. Durante il presidio, una ragazza ha letto la testimonianza della donna di Brovary, a una ventina di chilometri da Kyiv, in Ucraina centrale, ripetutamente stuprata da due soldati russi dopo l’assassinio del marito, mentre il figlio di quattro anni piangeva nella stanza accanto. Nelle cittadine di Bucha e Irpin le violenze sarebbero state perpetrate anche contro donne anziane, ancor più vulnerabili perché impossibilitate a fuggire. Secondo alcune testimonianze queste donne, violentate a turno da un gruppo di soldati russi, avrebbero poi deciso di togliersi la vita. Sono state inoltre lette, nel corso della manifestazione, le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche tra soldati russi e le loro famiglie in patria, in cui i militari raccontavano i furti, gli stupri e altri crimini.
Lo stupro viene usato in maniera sistematica come tecnica di guerra contro quei popoli che si vogliono sottomettere. Dai tempi dei romani a oggi è l’unica arma a non essere mai cambiata. Durante la seconda guerra mondiale le donne italiane di Marzabotto furono sistematicamente violentate dai soldati nazisti, così come le donne siciliane subirono le violenze da parte degli alleati statunitensi, che in teoria dovevano essere i buoni, ma che quando non erano loro a compiere le violenze vendevano le donne italiane ai mercenari. In Italia, nel 1944, ci furono almeno 20mila stupri accertati compiuti da parte dei “goumiers”, i soldati delle colonie dell’esercito francese e dagli stessi soldati francesi durante la liberazione. Sempre durante la seconda guerra mondiale le donne tedesche furono violentate dai soldati dell’Armata Rossa e così come le donne fatte diventare schiave sessuali (“donne di conforto”) nei territori occupati dal Giappone. Durante i processi di Norimberga (1945-46) e di Tokyo (1946-48) questi stupri non furono neanche presi in considerazione, a maggior ragione quando compiuti dagli eserciti vincitori, peraltro all’epoca lo stupro era un semplice reato “contro il buon costume”, e veniva denunciato ancor meno di oggi. Le donne erano abituate a subire la violenza sui loro corpi.
Anche dopo la seconda guerra mondiale gli stupri si ripresentarono durante ogni conflitto. Come nel 1994, quando in soli cento giorni furono violentate più di mezzo milione di donne ruandesi durante il genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati, tanto che la barbarie – causata peraltro in una zona in cui l’accesso all’aborto è molto difficile – all’indomani del conflitto generò un vero e proprio – spaventoso – boom demografico. Anche le donne bosniache musulmane, ma non solo loro, furono vittime di stupri etnici negli anni Novanta in ex Jugoslavia. In questi casi, però, dopo decenni di lotte, le donne videro riconosciuto un barlume di giustizia e i tribunali speciali internazionali istituiti a L’Aja, nei Paesi Bassi, riconobbero lo stupro come atto di tortura e crimine di guerra. Il 19 giugno del 2008, poi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu adottò all’unanimità la risoluzione 1820, che condannava senza riserve lo stupro, chiedendo la cessazione immediata delle violenze sessuali contro i civili nelle zone di conflitto armato. Evidenziando che il crimine di violenza sessuale non debba restare impunito da parte degli Stati membri a causa di procedure di amnistia, e raccomandando di conseguenza che tutti gli autori di tali crimini vengano perseguiti, per assicurare la fine dell’impunità che mina notevolmente la pace, la giustizia e la verità.
Purtroppo però non è stato sufficiente come deterrente, basti pensare alle donne yazide ridotte a schiave sessuali dallo Stato Islamico nel 2014. Nadia Murad, una delle cinquemila donne yazide stuprate dall’Isis, e vincitrice nel 2018 del Nobel per la pace, raccontò di come i jihadisti uccisero sua madre e i suoi sei fratelli prima di venderla come schiava al mercato di Mosul. Un altro terribile esempio furono poi le 279 studentesse nigeriane rapite sempre nel 2014 dall’organizzazione terroristica jihadista Boko Haram. Al tempo stesso nel 2018 emerse da un rapporto di Amnesty Intenational che centinaia di donne sopravvissute ai terroristi di Boko Haram, furono poi stuprate – anche in ospedale – e ridotte alla fame dai soldati nigeriani e della milizia alleata Civilian Joint Task Force (Cjtf), che le avevano liberate, spesso concedendo loro cibo e acqua in cambio di rapporti sessuali. Già nel 2015 diverse organizzazioni non governative e intergovernative avevano denunciato le violenze sessuali e le morti all’interno dei campi dello stato di Borno, ma nessuna azione fu intrapresa da parte delle autorità.
Nell’ideologia nazionalista le donne sono anzitutto generatrici e riproduttrici. Ingravidarle significa contaminare l’etnia a cui appartengono. Alcune vittime sono poi molto giovani, bambine e adolescenti, che si ritrovano a crescere da sole figli non voluti, simbolo incarnato del trauma della guerra. Come ha detto Flavia Lattanzi, giudice dei Tribunali penali internazionali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, attraverso lo stupro si può arrivare a distruggere alle sue fondamenta un’intera comunità. In diverse culture, infatti, le donne stuprate subiscono un’ulteriore violenza e vengono ripudiate dai mariti e dalle famiglie. In alcuni contesti sociali, infatti, sono considerate come intoccabili e nessuno le sposerà più. È per questo che in molti casi queste violenze sono taciute e restano così impunite. Si baratta una giustizia difficilmente raggiungibile con la possibilità, spesso questione di vita o di morte, di trovare un marito.
La guerra in Ucraina, ancora una volta, ci sta mostrando un quadro terribile nato da una concezione del corpo femminile profondamente sbagliata, che sia in tempo di pace che di guerra lo considera comunque un oggetto e uno strumento nelle mani del corpo sociale, a sua disposizione. Il corpo delle donne, infatti, viene prima di tutto considerato da un punto di vista socio-culturale nella sua accezione biologica ancora considerata come principale: la capacità di procreare. In tempi di pace viene considerata una forza, al pari della produzione industriale, alle donne viene richiesto di assolvere al ruolo di fattrici, macchine per la produzione di esseri umani, forza lavoro, leve; mentre durante la guerra rappresentano un punto debole della nazione, vulnerabile.
Sembrano i racconti dell’orrore che ci sono arrivati da tempi che credevamo passati, o da reportage di guerre presenti ma lontane, strappati a pagine di reportage o dai romanzi di Ágota Kristóf. Scene brutali di ricostruzioni storiche. Storiche appunto, perché questo è ciò che ciclicamente succede nella storia, ripetendosi uguale a se stesso, senza che nulla cambi. Ci si chiede cosa scatti nella mente dell’uomo quando compie simili orrori, quale l’educazione ricevuta, quali le pulsioni sotterranee che lo abitano e che esplodono quando sceglie di fare del suo corpo un’arma.