Migliaia di donne in Italia sono costrette a prostituirsi. E nessuno interviene.
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In Italia, il 55% delle donne che si prostituiscono è di origine straniera e il 36% di loro proviene dalla Nigeria. Secondo l’International Organisation for Migration dell’Onu, più dell’80% delle migranti che provengono da questo Paese finiscono nella tratta. La prostituzione è un fenomeno in gran parte sommerso e i dati ufficiali purtroppo vanno letti con la consapevolezza che si riferiscono alla parte del business venuta a galla. Solo parlando con i professionisti che giorno per giorno si occupano di prestare aiuto alle donne sfruttate si può acquisire un’idea sulla reale vastità del fenomeno.

Per questa ragione, ho incontrato l’avvocata Fiorella Liotti, che accompagna le donne vittime di tratta attraverso percorsi di assistenza e integrazione sociale e che da due anni collabora con la cooperativa sociale Dedalus di Napoli – iscritta da vent’anni al registro degli enti e delle associazioni che svolgono attività in favore degli immigrati.

L’esperienza sul campo dell’avvocata Liotti conferma i dati forniti dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che hanno registrato negli ultimi quattro anni un aumento del numero di donne di nazionalità nigeriana arrivate in Italia. Considerate le difficoltà nel reperire informazioni complete per la paura e la diffidenza che spesso accompagna queste ragazze anche quando entrano in contatto con professionisti in grado di aiutarle, Liotti afferma che la quasi totalità di loro è arrivata in Europa dopo aver prestato giuramento con il rituale juju.

In Nigeria sono tre le principali religioni professate: il Cristianesimo, l’Islam, e le tradizionali confessioni animiste. È sedimentato, però, una sorta di sincretismo religioso dove molte delle millenarie credenze degli animisti sono accettate e seguite anche dalla popolazione cristiana e islamica. Il juju rappresenta una forma di giuramento che nei casi di tratta viene utilizzato per soggiogare le ragazze alla volontà del trafficante. Durante il rito viene inscenata una cerimonia da parte di un native doctor, una sorta di prete, che si serve di alcuni feticci della ragazza – peli pubici o delle ascelle, unghie, sangue mestruale, indumenti intimi – per allestire riti voodoo contro di lei nel caso rompesse la promessa.

La vittima deve giurare che mai tradirà la persona che la sta “aiutando” a partire, pena la morte o la follia, sua o dei familiari. Il punto centrale è che la ragazza si impegna a ripagare il debito per il viaggio, una cifra che dovrà restituire lavorando come prostituta e che si aggira tra i 20mila e i 50mila euro, salvo suoi comportamenti “inappropriati”, come aborti o gravidanze, che possono aumentare il debito di 10mila euro. Come riportato nello studio Mondi connessi di Actionaid sulla migrazione femminile dalla Nigeria, secondo suor Eugenia Bonetti – missionaria impegnata da decenni nel contrasto alla tratta di esseri umani – una ragazza nigeriana per saldare il debito è costretta a subire un minimo di 4mila prestazioni sessuali.

“Bisogna considerare che in Nigeria la dimensione spirituale è molto più concreta rispetto alla società occidentale”, spiega l’avvocata Liotti, “di conseguenza, una volta promesso di ripagare il debito con il rito juju, la ragazza si sente obbligata e il condizionamento psicologico vale più delle botte o delle intimidazioni. È come un lunghissimo guinzaglio”.

All’altro capo di questo guinzaglio c’è la figura della madam. Come spiegato nello studio dell’European Asylum Support Office (Easo), le madam sono donne, spesso ex vittime di tratta, che una volta finito di pagare il debito vengono incaricate della gestione delle nuove ragazze schiavizzate, dopo averle comprate o gestendole per conto di terzi.

Le ragazze che arrivano in Italia hanno un’età compresa tra i 19 e i 25 anni, ma il loro calvario inizia già un paio di anni prima in Nigeria, quando vengono adescate. Le vittime sono analfabete nella maggioranza dei casi, provengono da famiglie di solito numerose e molto povere, facili da convincere con la prospettiva di un lavoro in Europa come babysitter o parrucchiera. Spesso sono le stesse famiglie a spingere la ragazza a prestare giuramento, attirate dall’idea delle rimesse che la figlia potrebbe inviare in Nigeria.

Il viaggio è basato su un sistema di connections, perché avviene senza documenti. Le ragazze prendono diversi pullman per attraversare il Paese, con in tasca solo il numero di telefono di una persona che fornisce loro indicazioni. Raggiungono la capitale Abuja, dove avviene la prima grande concentrazione di migranti, dopo aver già patito la fame e abusi fisici e psicologici. Il confine tra Nigeria e Niger di solito viene attraversato di notte in moto, sfruttando la copertura delle aree boschive. Dal Niger le ragazze vengono caricate sui pickup e inizia la terribile traversata del deserto con destinazione Libia.

Arrivate nel Paese, vengono imprigionate e costrette a prostituirsi nelle connection house, “dove ogni eventuale rifiuto viene punito con la tortura: acqua bollente addosso o stupri di gruppo”. Di solito la permanenza nelle connection house dura un paio d’anni, fino a quando guadagnano soldi sufficienti per partire per l’Europa. Anche in quel caso il viaggio può finire male e chi non incontra la morte in mare rischia di essere riportata in Libia dalla sedicente Guardia costiera del Paese, “dove viene internata nei centri di detenzione, formali o informali, luoghi in cui avvengono aste di esseri umani, stupri e lavori forzati”.

Nei rari casi in cui la coercizione non è attribuibile al rito juju, la causa che induce queste ragazze a partire è la violenza di genere che subiscono in Nigeria. “La società nigeriana è molto maschilista”, spiega Liotti, “le ragazze hanno l’impressione che la loro vita valga poco o niente. Sono disposte a sacrificarsi fino al limite pur di mandare del denaro a casa”.

Tanto nella capitale quanto nella megalopoli di Lagos si è anche diffuso il business, collaterale alla tratta, del traffico di bambini appena nati. Le stesse ragazze destinate alla prostituzione in Europa vengono violentate o incentivate ad avere rapporti non protetti per rimanere incinta. Una volta partoriti, i loro figli vengono venduti tanto ai notabili dei Paesi africani quanto ai compratori europei che preferiscono evitare la trafila per le adozioni legali. Se i primi casi sono emersi nel 2008, è nel 2013 che le indagini hanno portato in luce un sistema che trova la sua base in Benin, ma continua a sfruttare soprattutto le giovani ragazze nigeriane più povere. Al prezzo di 500mila naire nigeriane (1270 euro) per un maschio e 300mila per una femmina, il mercato illegale di bambini e neonati è ormai il quarto più florido in Africa, dopo droga, immigrazione clandestina e armi.

Il rapporto Easo attesta che la violenza fisica nei confronti delle donne ha una incidenza del 52%. La Nigeria è uno Stato vessato dalla corruzione e dal progressivo indebolimento economico dovuto allo sfruttamento da parte delle multinazionali del petrolio (Eni e Shell in testa), che hanno portato avanti nei decenni un vero e proprio scempio ai danni del territorio. “Il divario tra ricchi e poveri è enorme, la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi, il lavoro orbita solo intorno alle industrie petrolifere monopolizzate dagli occidentali”. Il 62% della popolazione è in uno stato di estrema povertà, aggravato dalla criminalità diffusa per opera delle gang nelle principali città e dagli attacchi dei gruppi fondamentalisti come Boko Haram nel nord-est del Paese.

Nel marzo 2018, per provare ad arginare gli effetti di questa deportazione di massa delle giovani ragazze nigeriane verso l’Europa, il sovrano e capo religioso Ewuare II, Oba di Benin City – la capitale dello Stato nigeriano da cui arriva la maggior parte delle vittime – ha eseguito un rituale con cui ha sciolto ogni giuramento juju compiuto fino a quel momento e le eventuali maledizioni connesse, oltre a condannare qualunque native doctor che continui a perpetrarli. Il proclama ha avuto conseguenze positive sulla vita di alcune ragazze che hanno avuto il coraggio di liberarsi dal peso del debito, di fuggire dai loro aguzzini e di raccontare la loro storia.

Ewuare II, Oba di Benin City

Purtroppo gli effetti non sono stati tanto positivi quanto si sperava: la società nigeriana ha una struttura tribale e ogni comunità ha il suo Oba. Molte ragazze, anche suggestionate dalle madame, hanno ritenuto che il loro caso non rientrasse nel proclama dell’Oba di Benin City.

Oltre alle maledizioni tribali, in Italia le giovani vittime sono soggiogate anche dall’orrore legislativo voluto da Matteo Salvini con il Decreto sicurezza bis. Con l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari la normativa ha colpito queste donne, rendendo più difficile offrire loro aiuto. Con queste misure l’Italia ha rinunciato a un sistema di protezione gender sensitive, un impegno che il nostro Paese aveva assunto a livello normativo firmando le Direttive europee che poi ha disatteso, come denuncia anche il rapporto del 2018 sull’attuazione della Convenzione di Instanbul in Italia.

A completare un quadro mortificante per l’Italia si è aggiunto il decreto rimpatri voluto da Di Maio in qualità di ministro degli Esteri. L’esperienza degli altri Paesi europei ed extracomunitari dovrebbe bastare a dimostrarci che i rimpatri sono strumenti inutili e dannosi, sia per il numero esiguo di persone che coinvolgono sia perché danneggiano la dignità umana. Quando una donna vittima di tratta viene inserita nel meccanismo dei rimpatri si trova a rapportarsi con un sistema che non tiene conto del suo destino una volta rientrata con la forza nel proprio Paese. Come testimonia l’avvocata Liotti: “Le donne espulse, a causa del loro passato nella prostituzione, rischiano di non essere accettate dalla propria comunità o addirittura corrono il pericolo di essere rivendute”.

L’Italia si era dotata nel corso degli anni di un quadro normativo più avanzato rispetto a quello degli altri Paesi europei, per esempio permettendo alle donne vittima di tratta di accedere ai percorsi di protezione sociale anche quando non sporgevano denuncia, ma le recenti azioni dei partiti sovranisti al governo hanno reso sempre più difficile la corretta identificazione delle potenziali vittime e l’accesso ai programmi di protezione.

Quando si parla di prostituzione, quello che la nostra società non vuole vedere è la grande domanda di schiave del sesso alla base di un così ingente flusso di giovani donne sulle coste del nostro Paese. Sulla pelle delle donne si consuma la più grande ipocrisia della società occidentale, e se l’Italia conserva ancora un briciolo di dignità su questo tema lo deve soltanto al lavoro di persone come l’avvocata Fiorella Liotti e delle cooperative sociali come Dedalus, Befree, Proxima e le altre che ogni giorno combattono per la tutela di queste donne che la politica sembra aver smesso di considerare esseri umani.

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