Se in Italia la vita di una donna vale 8.200 euro
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Pinky Aulakh aveva 26 anni quando il marito la cosparse di benzina e le diede fuoco, il 20 novembre 2015 a Brescia, davanti ai figli. Aulakh è sopravvissuta, nonostante abbia riportato ustioni sul 90% del corpo. L’ex marito, Agib Singh, è stato condannato a 14 anni di carcere per tentato omicidio. La vita di Aulakh, però, è cambiata per sempre. Dopo ustioni come quelle che ha riportato lei, riprendersi è un percorso lunghissimo e molto faticoso: i danni fisici e psicologici sono permanenti, e il sistema sanitario nazionale spesso smette di occuparsi delle cure una volta usciti dai centri per i grandi ustionati. Ad esempio, non paga la massoterapia, le creme o le guaine elastocompressive che, seppur necessari per la guarigione, sono considerati trattamenti estetici, né la terapia psicologica. Aulakh potrebbe ricevere dallo Stato, come indennità per la violenza subita, un totale di 3mila euro. Non basta nemmeno a coprire il primo anno di cure.

Come denunciato dal documentario Quanto vale la vita di una donna?, prodotto da Roba da Donne, dopo la violenza subita le donne e le loro famiglie sono lasciate sole. Nel 2017 è stato approvato dal ministero dell’Interno un indennizzo da corrispondere alle vittime di reati intenzionali violenti per ottemperare alla relativa direttiva europea del 2004. L’approvazione è arrivata dopo che nel 2016 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea condannò l’Italia per non aver ancora recepito la direttiva. Il caso fu sollevato da una sentenza del Tribunale di Torino del 2010, che aveva dichiarato colpevole lo Stato per la mancata attuazione della direttiva (sentenza poi confermata in appello nel 2012) in favore di una donna vittima di sequestro di persona e violenza sessuale, che aveva richiesto un risarcimento di 100mila euro (importo abbassato a 50mila e non ancora erogato, a quasi 15 anni dal fatto).

Il decreto prevede che alle vittime di omicidio commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, siano destinati 8.200 esclusivamente ai figli della vittima; per il reato di violenza sessuale 4.800; per altri reati 3mila euro in forma di rimborso delle spese mediche e assistenziali. Gli importi vengono prelevati dal Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, che dispone di circa 2,6 miliardi di euro l’anno.

All’epoca dell’approvazione diverse associazioni che si occupano di tutela delle donne fecero notare che queste cifre sono molto inferiori rispetto ai risarcimenti che si possono ottenere in Tribunale dagli autori di reato – ad esempio, da 50 a 150mila euro per violenza sessuale – nonché irrisorie rispetto a quelle previste dagli altri Paesi europei, dove non c’è una cifra fissa, ma si valuta caso per caso. In Germania, non esiste un importo massimo, ma l’indennizzo viene calcolato sulla base dei danni, sia materiali sia psicologici, per la vittima o i suoi parenti. In Finlandia, in caso di violenza sessuale la vittima percepisce dallo Stato 9.500 euro (16.200 se minorenne), ma si può arrivare a un massimo di 61.500 euro nel caso in cui le lesioni personali siano molto gravi. Nel Regno Unito il massimale è di 500mila sterline. Il problema dei lunghi tempi di attesa, che vanno di pari passo con quelli della giustizia, è però comune (sebbene alcuni Paesi concedano il risarcimento anche prima di una condanna definitiva): proprio in Gran Bretagna le vittime di violenza domestica devono attendere circa due anni per ottenere in media 7.500 sterline.

Nel nostro Paese, però, si verificano casi limite esemplari del cattivo funzionamento della burocrazia italiana. È notizia di questi giorni quello di due minori la cui madre è stata uccisa dal marito nel 2013, poi suicidatosi. L’uomo ferì gravemente anche un’altra persona, che riteneva essere l’amante della donna, e ora alle due figlie, in quanto eredi, l’Inps ha chiesto di pagare 124mila euro per indennità di malattia di quest’ultimo. Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha chiarito che si tratta di “un atto dovuto, ma l’Inps ha già contattato i familiari avvisandoli che non ci sarà alcun atto esecutivo”. Intanto è stato coinvolto anche il presidente della Repubblica Mattarella, che ha già discusso la questione con la ministra del Lavoro Catalfo e che nei prossimi giorni parlerà anche con Tridico. Un altro caso emblematico è quello dei figli di Marianna Manduca, uccisa in Sicilia nel 2007 dal marito Saverio Nolfo, condannato in appello a 21 anni di reclusione. Prima di essere assassinata, Manduca aveva denunciato Nolfo per ben 12 volte. Il cugino della donna (che ha adottato i tre figli della coppia, tutti minorenni) aveva avviato una causa nei confronti della Presidenza del Consiglio, che riteneva colpevole di non aver fatto abbastanza per evitare l’omicidio. Nel 2017 una sentenza del tribunale di Messina riconobbe le responsabilità dei pm e, secondo la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, condannò lo Stato a risarcire i figli con 300mila euro. A marzo di quest’anno, però, la Corte d’appello di Messina ha accolto il ricorso della Procura di Caltagirone, per cui l’indennizzo è stato annullato.

Se per le vittime di omicidio lo Stato prevede dei contributi fissi, per quanto irrisori, per quelle di violenza domestica al momento non esiste un sostegno economico simile. Questo è particolarmente grave dal momento che moltissime donne non dispongono di redditi propri e uno dei motivi per cui tante si rassegnano a rimanere in relazioni abusanti è proprio l’incertezza economica per sé o per i propri figli. Sebbene uno dei punti chiave del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne varato nel 2017 sia l’attuazione di “Percorsi di empowerment economico finanziario, lavorativo e autonomia abitativa”, sono stati stanziati solo 13 milioni di euro in totale, circa 3,25 milioni all’anno, da suddividere in 20 regioni. Per fare un confronto, la Spagna eroga 23 milioni all’anno, con misure che includono anche incentivi per le imprese che assumono donne vittime di violenza di genere e un reddito per l’inserimento lavorativo. Al momento in Italia è solo la regione Sardegna ad aver istituito qualcosa di simile, con il cosiddetto “reddito di libertà” per favorire l’autonomia e l’emancipazione delle donne vittime di violenza domestica, con un importo di 780 euro al mese.

Queste cifre dimostrano che nel nostro Paese si fa ancora fatica a inquadrare il fenomeno della violenza di genere in una prospettiva che non sia emergenziale, nonostante l’Italia abbia ratificato la Convenzione di Istanbul e scritto il Piano antiviolenza proprio sulla base delle sue linee guida, che prevedono le “quattro P”, prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate. Spesso, però, ci si limita a insistere sulla fase di denuncia, lasciando sole le donne (e i centri antiviolenza) a gestire tutto quello che avviene dopo. Ma è proprio perché lo Stato ha adottato la Convenzione di Istanbul, che ha un approccio di responsabilità comune nei confronti della violenza di genere, che dovrebbe assumersi il dovere di tutelare le sue cittadine con delle misure ad hoc che vadano al di là del mero sostegno giuridico.

Di fronte a una simile situazione, è chiaro che gli indennizzi statali previsti per le vittime sono insufficienti, soprattutto contando che molti femminicidi e reati connessi sarebbero evitabili se solo le denunce presentate dalle donne venissero ascoltate. Inoltre, bisognerebbe chiedersi se sia corretto istituire un importo fisso che non tiene conto della gravità del reato, come avviene in Tribunale. E in effetti la Corte di Cassazione nel gennaio di quest’anno ha chiesto un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea per stabilire se l’indennizzo di 4.800 euro previsto per le vittime di reato di violenza sessuale possa essere considerato “equo ed adeguato” rispetto a quanto previsto dalla direttiva europea del 2004.

L’Italia ha tante lacune nelle politiche di genere, ma la questione economica è sempre messa in secondo piano quando si parla della condizione femminile in Italia. Le donne sono la categoria sociale più povera e meno occupata del nostro Paese. Oltre 3 donne su 10 non hanno un conto corrente e il 37% dipende economicamente dal marito o dal compagno. Nelle situazioni di particolare vulnerabilità come quelle della violenza domestica, dell’abuso sessuale o addirittura del femminicidio, la violenza economica che le donne subiscono quotidianamente si amplifica, come se lo Stato non avesse alcuna responsabilità in merito. Ma lo Stato ne ha eccome se ritiene legittimo togliere il risarcimento a tre minorenni per la morte della mamma, di cui aveva ignorato 12 denunce.

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