Nell’Italia del 2019 si può morire ancora di parto. Il 26 agosto, una donna di 35 anni è deceduta all’ospedale Salesi di Ancona durante un parto vaginale indotto dopo che era sopraggiunta la morte del feto alla 38esima settimana di gravidanza. Non sono ancora chiare le cause del decesso: secondo il primario della struttura, Andrea Ciavattini, la causa potrebbe essere stata un’embolia polmonare amniotica, ma intanto la procura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. La morte di parto nel nostro Paese è fortunatamente un evento raro, ma la cui gravità non va sottovalutata, soprattutto perché molte di queste morti potrebbero essere evitate.
Secondo gli ultimi dati disponibili del gruppo di lavoro sulla mortalità materna dell’Istituto superiore di sanità, riferiti al periodo tra il 2006 e il 2012, muoiono per circostanze legate al parto 10 donne ogni 100mila nascite. Nel 53% dei casi si tratta di morti dirette, ovvero legate a complicazioni ostetriche, come emorragie e infezioni. Nei casi restanti, la donna soffriva di patologie pregresse (note o non diagnosticate) oppure non è stato possibile capire le cause del decesso. In questo caso si parla di cause indirette. Il Ministero della Salute annovera la “morte materna o [la] malattia grave correlata al travaglio e/o parto” tra i cosiddetti “eventi sentinella” ovvero, “eventi avversi di particolare gravità, potenzialmente evitabili, che possono comportare morte o grave danno al paziente e che determinano una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del servizio sanitario. Il verificarsi di un solo caso è sufficiente per dare luogo ad un’indagine conoscitiva diretta ad accertare se vi abbiano contribuito fattori eliminabili o riducibili e per attuare le adeguate misure correttive da parte dell’organizzazione”.
Le cifre italiane (ma anche europee, dove la media di morti di parto è di 16 ogni 100mila nascite) sono molto basse se paragonate a quelle dei Paesi in via di sviluppo, dove avviene il 99% dei decessi rispetto alla percentuale mondiale. A livello globale, infatti, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità si registrano 303mila morti l’anno, 830 al giorno – e il numero potrebbe essere sottostimato, a causa delle difficoltà di reperire dati precisi. In tutto il mondo, il parto è la prima causa di morte per le adolescenti tra i 15 e i 19 anni e in Sierra Leone, il Paese con il tasso di mortalità più alto, le donne che non superano il parto sono 1300 ogni 100mila nascite. Nei Paesi sottosviluppati e in via di sviluppo sono infatti ancora troppe le donne che partoriscono in condizioni igienico-sanitarie inadeguate o che non fanno alcuna visita medica durante la gravidanza. Entrambi questi fattori incidono ovviamente in modo significativo sul buon esito del parto, prevenendo complicazioni ostetriche o dovute a malattie gestazionali o preesistenti nella paziente. Se da un lato, molte donne non si rivolgono alle strutture sanitarie per povertà, mancanza di informazioni o difficoltà nel raggiungerle, dall’altro mancano presidi e personale formato: solo il 42% delle ostetriche, infermieri e dottori del mondo lavora nei 73 Paesi in cui avvengono la maggior parte delle morti durante il parto e neonatali. Inoltre, molti servizi non sono autonomi e dipendono dai progetti di sviluppo internazionali: misure restrittive come la Global Gag Rule, cioè lo stop ai finanziamenti statunitensi per i progetti di salute riproduttiva nei Paesi in via di sviluppo voluto da Trump, avrebbe causato oltre 20mila morti per parto in meno di un anno.
Povertà e ignoranza incidono anche sulla salute materna dei Paesi occidentali, e colpiscono in particolare le donne migranti: secondo un report dell’Oms queste ultime soffrono infatti di peggiori condizioni di salute materno-infantile rispetto alle donne europee. Per loro il rischio di mortalità durante e dopo la gravidanza è raddoppiato, in particolare per quanto riguarda le cause dirette, cioè legate alle cure ostetriche. Uno studio svedese ha riscontrato che il rischio di morire durante il parto per le immigrate africane in Svezia è di 13 volte superiore rispetto alle donne svedesi e tra le cause imputabili ci sono anche il ritardo nella ricerca di cure e problemi interpersonali di comunicazione.
La prima causa diretta di mortalità materna è l’emorragia post partum, che può comparire anche 12 settimane dopo il parto. Non esiste una definizione univocamente accettata di emorragia post partum: considerando che una perdita di sangue è normale, si comincia a parlare di emorragia quando il sangue perso supera i 500 cc, anche se non tutti gli ospedali hanno strumenti di misurazione precisi. Come spiegato dal dottor Maurizio Silvestri sulla Rivista di ostetricia, ginecologia pratica e medicina perinatale ci si affida quindi a una valutazione soggettiva dei sintomi presentati dalla paziente, che consistono in un eccessivo sanguinamento accompagnato da giramenti di testa, vertigini, svenimenti, ipotensione, tachicardia o oliguria, cioè una diminuzione della produzione di urina. Per fronteggiare l’emorragia post partum (che si presenta con una frequenza che oscilla tra il 5 e il 22% del totale dei parti), l’Istituto superiore di sanità ha messo a punto una procedura di prevenzione e trattamento ed esiste anche una serie di linee guida ideata da Aogoi, l’Associazione degli ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani. Nonostante questo, l’emorragia resta una delle prime cause di morte per le partorienti: nel Regno Unito, il 71% dei decessi è imputabile proprio a un trattamento non adeguato fornito durante un’emorragia.
Le varie linee guida insistono sull’importanza della comunicazione con la paziente, che va seguita con attenzione e ascoltata, cosa che purtroppo ancora non succede spesso negli ospedali. Come sottolineato anche in una nota dell’Oms, nelle sale parto si verificano spesso comportamenti di cosiddetta violenza ostetrica, abusanti o degradanti nei confronti delle donne, che possono anche “minacciare il loro diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica e alla libertà da ogni forma di discriminazione”. Secondo l’organizzazione, inoltre “un numero sostanziale di donne incinte in salute è sottoposto almeno a un intervento clinico durante il travaglio”, interventi spesso non necessari che aumentano significativamente il rischio di complicazioni, come emorragie e infezioni. L’obiettivo è quello di rendere il parto il più rapido possibile, non tanto per il benessere della madre, ma per esigenze logistiche dell’ospedale. A questo si aggiungeva anche il ricorso massiccio al parto cesareo, procedura per cui l’Italia detiene il record europeo (36,3% dei parti nel 2013), e a operazioni come l’episiotomia, l’incisione del perineo e della parete posteriore vaginale per allargare il canale del parto. Molto spesso le donne non vengono messe adeguatamente a conoscenza di quello che potrebbe succedere, sta per succedere o è successo al loro corpo, e di conseguenza vengono fatti firmare i cosiddetti consensi informati senza che la donna informata lo sia effettivamente.
Le linee guida dell’Oms sottolineano invece l’importanza di “pratiche non cliniche orientate alla persona”, come il supporto emotivo, l’accompagnamento al travaglio, il trattamento rispettoso e una comunicazione chiara, procedure che però al momento non costituiscono la priorità nella maggior parte degli ospedali e delle cliniche. L’organizzazione auspica anche il rispetto dei desideri e delle volontà della donna, così come la sua completa consapevolezza di ciò che la aspetta in questo momento difficile ed emotivamente provante. Anche questo, secondo gli esperti, contribuisce a ridurre il rischio di mortalità durante il parto, eppure si fa ancora troppo poco in questo senso.
Né gli obiettivi sulla riduzione della mortalità materna previsti dalla Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo del 1994 (dimezzare le morti entro il 2015) né gli obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite stabiliti nel 2000 (ridurle di tre quarti sempre entro il 2015) si sono realizzati. Al giorno d’oggi è inaccettabile che una donna muoia di parto per negligenza, cure inadeguate o scarsa attenzione da parte del personale. Sarebbe auspicabile che le linee guida dell’Oms non restassero solo un proposito sulla carta, ma venissero seguite da tutte le strutture per garantire alla donna le attenzioni e la sicurezza necessaria in un momento così delicato della sua vita. Per questo è necessario che ogni donna possa affrontare il percorso della gravidanza, oltre che con tutti gli strumenti sanitari a disposizione, anche con quelli della consapevolezza, dell’informazione e della scelta, sostenuta da professionisti e da personale medico che dia importanza anche a questi aspetti spesso sottovalutati.