L’instabilità in cui vivono molti giovani insegnanti è insostenibile. Per loro e per gli studenti. - THE VISION

Qualche settimana fa, con un mio amico ed ex collega universitario, oggi professore di lettere precario come me, ci siamo ritrovati in macchina a fare un bilancio delle nostre vite a trent’anni. Dopo avermi manifestato paure e stanchezze per un futuro che sembra non arrivare mai, che ci intrappola in un eterno presente e in una gavetta senza prospettive di stabilità e indipendenza, mi dice una frase che mi lascia stupita e amareggiata: “Avrei dovuto studiare medicina, a quest’ora avrei un lavoro fisso e una stabilità economica”. Poi aggiunge di aver scelto lettere per passione e di aver sempre desiderato insegnare ma che ora, alla luce della vita che facciamo, gli sembra di aver sprecato tempo e fatica per non avere in mano nulla di concreto. Allora ho pensato a quanti giovani docenti, inizialmente animati da passione, entusiasmo e buoni propositi, oggi si ritrovano demotivati, a pensare di aver sbagliato strada, perché insegnare da precario nella scuola pubblica italiana è un percorso che ti sfianca e che talvolta, in cambio, ti dà molto poco. E a fare le spese di questa stanchezza e perdita di motivazione dei docenti precari sono, va da sé, gli studenti e il sistema scolastico in generale.

Il problema degli insegnanti precari, in Italia, si fa sempre più ingombrante. I dati ci dicono che, lo scorso anno, le cattedre a tempo determinato sono state ben 225mila, con una percentuale di contratti a termine che ha raggiunto il 25% sul totale. Nel 2016 gli assunti a tempo determinato erano 100mila, con una percentuale che in sette anni è più che raddoppiata. A farne le spese sono come al solito i giovani, con quasi l’80% di insegnanti under 35 assunti a tempo determinato; in queste condizioni, è facile capire perché i neolaureati preferiscano altre carriere e perché, di conseguenza, i docenti italiani siano tra i più anziani d’Europa. In Danimarca o nel Regno Unito, quelli di ruolo sono quasi la totalità, con una percentuale ben più alta di insegnanti giovani stabilizzati. Le conseguenze sono tangibili: la scarsa possibilità di garantire continuità didattica, unita alle condizioni proibitive in cui lavora e, spesso, vive la maggioranza dei docenti più giovani – che rischiano di renderli psicologicamente provati e inefficienti – costituisce uno dei fattori che avalla lo stereotipo secondo cui “la scuola in Italia non funziona”. Una frase, questa, che ripetiamo ormai meccanicamente e con rassegnazione, piuttosto che fiduciosi in un possibile e concreto cambiamento.

Le motivazioni dello scarso funzionamento del sistema scolastico italiano sono in effetti infinite: strategie didattiche obsolete, assenza di relazione significativa tra docenti e studenti, subordinazione dell’intento educativo all’ossessione valutativa, un sistema rigido che fatica a rinnovarsi e a essere motivante. In questo quadro, i docenti più giovani potrebbero dare un valido contributo poiché, per questioni generazionali, possono trovarsi più in sintonia con i linguaggi contemporanei e le esigenze degli adolescenti. Ma il precariato, con tutto ciò che comporta, prosciuga energie e risorse di chi intraprende questa strada, costringendoli ad abbandonarla o a perseguirla scoraggiati e affranti, riducendo la loro motivazione e la capacità di esercitare un ascolto attento degli studenti, aspetto fondamentale per una scuola che sappia rinnovarsi. La mia esperienza di docente siciliana emigrata al nord fotografa una delle tante realtà di laureati – magari anche col massimo dei voti – che, pur di lavorare, vanno avanti tra stress, ansia e frustrazione. Senza prospettive concrete di migliorare, in futuro, le proprie condizioni di vita.

In base ai dati, quasi la metà dei docenti meridionali si trasferisce al nord per poter lavorare; al sud, infatti, l’unica opportunità per i neolaureati spesso è quella di essere assunti da scuole private che, in cambio, al posto di darti uno stipendio ti fanno maturare punteggio. Scuole che non ti danno un centesimo, neppure un rimborso spese, e in cui spesso devi pagarti da solo anche i contribuiti. Al sud, infatti, il numero dei docenti precari supera di gran lunga quello delle cattedre disponibili nelle scuole pubbliche. Le private, consapevoli che – talvolta – per restare a lavorare nella propria regione e maturare punteggio si è disposti a grossi sacrifici – sia per ragioni affettive, sia perché la vita al nord è più cara e uno stipendio da insegnante può essere insufficiente – da anni si approfittano della situazione. Per non sottostare a questa prassi, in tanti – tra cui me – decidono di emigrare, ma la trafila che poi li aspetta è snervante, oltre che molto costosa. L’iter è più o meno questo: vieni convocato da una scuola telefonicamente e, da quel momento, hai ventiquattro ore di tempo per catapultarti dall’altra parte dell’Italia e prendere servizio. Quarantotto se, come me, devi spostarti da un’isola.

Subito ti precipiti sui siti delle compagnie low cost che, se prenoti il volo con un solo giorno di anticipo, di “low” hanno davvero poco. Trovi un volo a 300/400 euro e sei pure contento, ma per risparmiare almeno i soldi del bagaglio fai stare il necessario in uno zaino e parti con indosso una giacca sopra l’altra. Dopo il viaggio della speranza verso il luogo, spesso sperduto, cui ti hanno destinato, raggiungi la scuola; il primo impiegato che incontri ti sbatte davanti la presa di servizio, che a volte devi firmare senza sapere che materie insegnerai, a studenti di quante e quali classi e, soprattutto, con che tipo di contratto. E qui spesso arriva la prima sorpresa: ti propongono un contratto spezzettato, da rinnovare ogni dieci giorni perché, ti dicono, “il dirigente preferisce così”. Di fatto, per non doverti pagare le ferie a Natale e a Pasqua, cosa che può verificarsi se, per esempio, il docente di ruolo in aspettativa – che tu sostituisci – decide di riprendere servizio il primo giorno di chiusura della scuola, per mettersi di nuovo in aspettativa al rientro dalle vacanze, il giorno in cui ricominciano le lezioni. E tu pensi che è da quando facevi le tre di notte a tradurre Teocrito e Tacito che, nel tuo cantuccio, coltivi il sogno di essere licenziata il giovedì santo per venire riassunta dopo Pasquetta. Ma accetti comunque, perché dietro hai la fila di precari che farebbero comunque carte false per quel contratto spezzettato.

Inizi a cercare un alloggio, ma con un contratto di dieci giorni nessuno ti affitta una casa. Nel mio caso, l’unico monolocale disponibile non aveva il bidet né il box doccia, e la zona notte si raggiungeva con una scala a pioli pericolante che, parola della proprietaria, “se non fai attenzione mentre sali rischi di tirartela addosso”. Il tutto alla modica cifra di 550 euro al mese, utenze escluse. Ti metti a cercare una stanza, o qualunque cosa abbia quattro pareti e un letto senza dover spendere 80 euro a notte. Io per esempio sono finita in un istituto di suore – a 600 euro per tre settimane – in una camera doppia gelida, umidissima, con uno spazio così stretto tra il letto e la “scrivania” che passarci in mezzo, se pesi più di quaranta chili, diventa faticoso. Per cucinare c’era un unico fornelletto che dovevamo usare in dodici, per di più mezzo scassato, e per farmi due uova ci ho messo mezz’ora e alla fine erano comunque mezze crude.

A tutto questo scenario si aggiunge che, ai docenti con contratto breve, lo stipendio viene corrisposto a circa tre mesi dalla presa di servizio, e per coprire le spese bisogna dar fondo ai risparmi o, peggio, chiedere l’aiuto di mamma e papà. A trenta o più anni. Se poi, come succede spesso, il contratto prevede non 18 ma solo 4 o 6 ore settimanali, lo stipendio non basta nemmeno per l’alloggio. A chi sceglie di restare nella provincia d’origine non va meglio: un mio collega, assunto con un contratto di poche ore, ogni giorno faceva quattro ore di macchina tra andata e ritorno. Non potendosi permettere un affitto – lo stipendio non gli bastava neppure per la benzina –, e costretto a vivere con i genitori, aveva chiesto al dirigente di non entrare sempre alla prima ora, così da evitare la levataccia tutti i giorni. “I giovani devono fare la gavetta”, questo si è sentito rispondere. Poi un giorno ha avuto un colpo di sonno e ha rischiato di fare un incidente, così ha deciso di rinunciare all’incarico.

Tra spese esorbitanti e disagi vari, precarietà e fatiche del quotidiano, le condizioni psicofisiche in cui lavoriamo spesso rischiano di ripercuotersi sulla nostra efficienza, sulla capacità di ascoltare e costruire una relazione con gli studenti; spesso non abbiamo tempo ed energia sufficienti per intercettare punti di forza e fragilità di ciascuno, tutti fattori fondamentali a far sì che l’evento educativo non si trasformi in mera trasmissione di nozioni da misurare con test e interrogazioni sterili. Noi insegnanti abitiamo quella terra di mezzo tra una retorica irritante che ci innalza a eroi contemporanei – che in virtù di una non ben definita vocazione sopportano stoici le fatiche del mestiere – e lo stereotipo irrealistico secondo cui saremmo dei gaudenti e ingrati privilegiati, con tre mesi di ferie pagate e moltissimo tempo libero. Sommersi da questi cliché, il sistema rimane invariato e nessuno pensa alla cosa più importante: un insegnante stressato, frustrato e privo di energie fa un danno prima di tutto ai suoi studenti, perché non è in grado di ascoltarli, di comprenderne i bisogni e di riconoscerli nella loro individualità. Schiacciato dalla precarietà economica ed esistenziale, questi riuscirà con molta fatica a essere attivo e ricettivo, e non potrà porsi come figura di riferimento, autorevole e realizzata, per gli adolescenti.

Piuttosto che mettere i docenti – soprattutto, come detto, i più giovani – nelle condizioni di svolgere un ruolo di grandissima responsabilità, cioè formare gli adulti del futuro, con un minimo di equilibrio psicofisico, il sistema oggi li sfibra e ne annienta tutto il potenziale. Prima che sugli strumenti tecnologici e sulle metodologie all’avanguardia – che spesso rimangono pura teoria inapplicata –  la scuola dovrebbe puntare e investire sulla costruzione di una relazione proficua tra docenti e studenti; se le condizioni di vita di chi ci lavora rimarranno queste, e di conseguenza le possibilità di costruire una didattica efficace quasi nulle, la scuola non sarà solo inutile, ma dannosa, inerte, vuota di significato. In essa potranno sopravvivere solo le insoddisfazioni dei docenti, tra precarietà, lungaggini burocratiche o la fretta di mettere i voti e finire il programma, insieme alle ansie da prestazione degli studenti – chi stremato dalla gara al voto più alto, chi dalla rincorsa al sei politico.

Per arginare i fenomeni della dispersione scolastica e della fobia scolare e risvegliare la fiducia collettiva nella scuola bisogna motivare i giovani allo studio come veicolo di emancipazione esistenziale, di costruzione di un pensiero critico che allontani dalla subalternità sociale e dall’emarginazione; ma se per primi i docenti sono l’incarnazione di questa subalternità l’istituzione scolastica come strumento di affrancamento dalle catene non è più credibile. Per quanti sforzi noi giovani insegnanti possiamo fare – insieme ai più adulti e di ruolo che, tra stipendi bassi e altri disagi, non godono comunque di una condizione molto più rosea – per rendere la scuola un luogo sicuro, stimolante e positivo in cui crescere, se il sistema resta invariato la scuola rimarrà solo un crocevia di frustrazioni e malesseri individuali, con docenti e studenti talmente ripiegati sui propri problemi da rinunciare alla comunicazione efficace e all’ascolto attivo. E allora il percorso educativo sarà per forza di cosa fallimentare. Investire risorse nell’istruzione e stabilizzare i docenti, garantendo loro quei diritti minimi per svolgere al meglio la loro professione è uno dei passaggi necessari per costruire una scuola realmente utile e formativa per gli adolescenti di oggi e di domani.

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