Mentre il nostro ministro dell’Interno è impegnato in una polemica a colpi di baci via social, è in atto una disobbedienza politica, una rivolta dei sindaci che sta prendendo piede in tutto il Paese. L’oggetto del contenzioso è il Decreto Sicurezza, che rischia concretamente di riversare per le strade delle città persone senza nome, senza protezione e senza futuro. Quanto di più lontano possa esserci dalla “sicurezza”.
A dare avvio alla questione è stato Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, che ha inviato una nota agli uffici comunali con la richiesta di non applicare nella sua città le misure della legge di Salvini. Orlando ha spiegato la sua azione senza giri di parole: “È un provvedimento disumano e criminogeno. Ho disposto formalmente agli uffici di sospendere la sua applicazione perché non posso essere complice di una violazione palese dei diritti umani, previsti dalla Costituzione, nei confronti di persone che sono legalmente presenti sul territorio nazionale”.
L’articolo 13 della misura appena approvata stabilisce infatti che il permesso di soggiorno rilasciato al richiedente asilo non garantirà più l’iscrizione all’anagrafe, al Servizio sanitario nazionale e ai centri per l’impiego, e nemmeno un certificato di residenza. L’articolo 12 invece dispone lo svuotamento degli Sprar, i centri locali che ospitano i migranti, che potranno accogliere soltanto minori non accompagnati e i titolari di protezione internazionale. Gli altri, che costituiscono la schiacciante maggioranza, verranno lasciati in mezzo alla strada.
Matteo Salvini non ha perso tempo e ha subito risposto al sindaco di Palermo attraverso dirette Facebook e interviste a radio, televisioni e giornali. Il ministro con il dono dell’ubiquità, sempre sul pezzo quando si parla di migranti ma attratto da cibarie di ogni tipo quando gli argomenti non gli consentono di sferrare la sua dose giornaliera di propaganda, ha replicato con il solito benaltrismo: “Con tutti i problemi che ci sono a Palermo, il sindaco sinistro pensa a fare disobbedienza sugli immigrati”. Sì è vero, Palermo è piena di problemi, non ha l’efficienza di Belluno o le opportunità lavorative di Milano. Proprio per questo il primo cittadino preferirebbe evitare di aggiungere ai suoi disagi centinaia di migranti non riconosciuti o, per dirla come Orlando, un marchio di disumanità.
“Andrò a Palermo per essere sicuro che il sindaco non ci piazzi dei migranti. È finita la pacchia”, ha proseguito Salvini. Tralasciando il solito slogan ripetuto ossessivamente, bisogna considerare il cortocircuito insito nelle dichiarazioni del ministro, che probabilmente non conosce la sua stessa legge: è proprio a causa del Decreto Sicurezza che gli immigrati saranno a zonzo per le città, mentre i rimpatri fino a ora sono diminuiti rispetto ai tempi di Minniti. Secondo uno studio dell’Ispi, a causa della restrizione dei permessi per protezione umanitaria derivante dal decreto Salvini, nel giro di due anni i nuovi immigrati irregolari in Italia saranno oltre 130mila, superando quota 670mila entro il 2020. Si tratta di una questione pratica, non solo etica, che riguarda la gestione dell’ordine pubblico e della vivibilità delle città. Salvini ha bisogno del nemico da lui creato, utile alla narrazione di una paura da cavalcare per ottenere consensi. Senza l’immigrato, al leader leghista resterebbero le briciole di un percorso politico limitato e incentrato sulla distorsione della realtà. Se in Italia la percezione comune nei confonti dell’immigrazione è totalmente distorta, è lui a esserne il principale responsabile.
L’azione di Orlando ha immediatamente trovato l’appoggio di molti suoi colleghi, primo tra tutti il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che di certo non può essere considerato vicino al Pd, avendolo più volte attaccato o addirittura sfidato. Portandosi dietro la scia di tante battaglie contro Salvini, come quella ancora attuale di Napoli “porto aperto” per accogliere i migranti, De Magistris ha dichiarato che “Quando c’è una volontà politica nazionale che tende a violare le leggi costituzionali o a discriminare a un motivo di tipo razziale, noi non possiamo che andare in direzione completamente opposta rispetto a questo diktat proveniente da Roma”.
Anche Dario Nardella, sindaco di Firenze, si è unito alla polemica di Orlando, annunciando che “Firenze non si piegherà al ricatto contenuto nel Decreto Sicurezza, che espelle migranti richiedenti asilo e senza rimpatriarli li getta in mezzo alle strade. Come comune ci prenderemo l’impegno di non lasciare nessuno per strada”.
Le intimidazioni di #Salvini non servono. #Firenze non viola alcuna legge. Apriremo un tavolo con volontariato, terzo settore e mondo del lavoro. Legalità e accoglienza. Combatteremo questa legge che aumenta clandestini e insicurezza nelle città. Il mio è buonsenso, non buonismo.
— Dario Nardella (@DarioNardella) January 3, 2019
Sulla stessa lunghezza d’onda Federico Pizzarotti, il sindaco di Parma fuoriuscito dal M5S: “Il Decreto Sicurezza lascia aperto un vulnus rispetto a stranieri e richiedenti asilo che non riescono a fare le cose più basilari. Quello che pone Orlando è un tema che va affrontato, perché il problema determinato dal decreto ricade su tutti”. Un messaggio autorevole arriva anche da Milano, dove il sindaco Beppe Sala ha chiesto esplicitamente a Salvini di “rivedere il decreto”, invitandolo ad ascoltare il malumore dei sindaci.
Ma a quanto pare Salvini non ha recepito l’invito, definendo, con il solito post su Facebook, i sindaci ribelli come “amici dei clandestini, traditori degli italiani”.
Salvini ha minacciato di agire legalmente per arginare la rivolta dei sindaci, una disobbedienza che non considera tollerabile. Probabilmente è stato un suo alterego, nel 2016, a invitare i sindaci leghisti a opporsi alle unioni civili. All’epoca il ministro dell’Interno diceva: “Queste unioni sono l’anticamera delle adozioni gay. Motivo per cui chiederò a tutti i sindaci e amministratori locali di disobbedire a quella che è una legge sbagliata”. Che fosse un politico estremamente incoerente lo sapevamo già, ma questa vicenda rasenta il ridicolo. Danilo Toninelli e Matteo Salvini danno a loro volta degli incoerenti ai sindaci e difendono la bontà del decreto in quanto controfirmato dal Presidente della Repubblica, da quel “Capo dello Stato che tutti noi, ripeto tutti, abbiamo elogiato fino a poche ore fa per la saggezza e l’equilibrio del messaggio di fine anno,” come ha detto il ministro dei Trasporti: peccato che qualunque legge, per diventare tale, proprio per Costituzione, debba passare la sua firma e che questo non precluda che in futuro possa essere dichiarata incostituzionale.
Palazzo Chigi ha mantenuto prudenti toni istituzionali, comunicando attraverso fonti interne che non si può violare la legge, ma allo stesso tempo ha accettato il dialogo con l’Anci, e quindi con i sindaci. La voce più attesa era quella del M5S e a parlare è stato Luigi Di Maio, che si è schierato dalla parte di Salvini definendo l’opposizione al Decreto una “campagna elettorale” portata avanti da chi si vorrebbe sentire “un po’ di sinistra facendo un po’ di rumore”. Per Di Maio quindi non sarebbe una questione di diritti umani, di difesa degli ultimi o di sicurezza nazionale, bensì di sondaggi e di sua maestà propaganda. In realtà, risulta incomprensibile il riferimento alla presunta “campagna elettorale” dei sindaci, considerando che la maggior parte dei cittadini è ormai dalla parte giallo-verde anche in tema immigrazione. A livello elettorale queste azioni sarebbero sicuramente sconvenienti, ma rimarcano un concetto di umanità ormai perduto, oltre a rivendicare il diritto di gestire le proprie città. Il Pd nella scorsa legislatura ha sbagliato proprio su questi temi. Ha abbandonato le discussioni sullo Ius soli proprio perché “poco convenienti” per le imminenti elezioni, tradendo quanto (poco) rimaneva della sua natura progressista.
Di Maio non fa i conti nemmeno con i malumori all’interno del suo movimento. Durante le votazioni per il Decreto Sicurezza, il presidente della Camera, Roberto Fico, ha deciso di abbandonare l’aula, spiegando poi di averlo fatto in segno di dissenso. Ed è anche doveroso ricordare le proteste dei dissidenti grillini: il no secco di De Falco – poi espulso dal M5S insieme ad altri tre parlamentari – e la lettera di 19 parlamentari che hanno chiesto ai vertici di modificare il testo. Nessuno di loro è stato ascoltato e adesso il M5S è nelle mani dei partiti populisti di destra. A poco servirà il ritorno di Di Battista, lo stesso che si fa ritrarre insieme ai migranti messicani e poi loda Trump. I grillini non riescono più a uscire dall’impasse che li unisce alla Lega e che sta contaminando la loro identità, se mai ne hanno avuta una.
Conosciamo anche la strategia che Salvini attuerà nei prossimi giorni, e che sta già imbastendo adesso: appellarsi alla lotta contro il “buonismo”. Funziona sempre tra i suoi seguaci. Quando viene contestata la sua politica, e le derive xenofobe che ne conseguono, lui trova rifugio in questa parola magica che riesce sempre ad adattare a ogni situazione. Chi si indigna quando degli esseri umani vengono tenuti in ostaggio su una nave, o inorridisce di fronte alla chiusura dei porti, è un buonista. Chiunque non sia allineato al sovranismo di scuola ungherese, o al razzismo strisciante che si annida nel pensiero comune, viene tacciato di essere ipocrita e di agire in base a un perbenismo fuori tempo massimo. Come se l’empatia e il senso di umanità non andassero più di moda.
Sui temi del Decreto Sicurezza va a finire nello stesso modo: Salvini contesta i suoi avversari senza entrare mai nel merito dei temi, ma consegnandoli al pubblico ludibrio. Se un Saviano lo critica, lui reagisce minacciando di togliergli la scorta. Lo mette alla gogna, lo ridicolizza e lo fa trasforma in nemico, facendo leva sulla rabbia della gente – che non si fa scappare l’occasione di sfogarla in direzione di un bersaglio in carne e ossa. È dunque un continuo meccanismo in cui l’attenzione sul problema reale (il decreto) viene sviata, sfruttando l’invidia sociale e l’imbarbarimento della discussione politica.
Salvini vorrebbe passasse il messaggio che contestarlo equivale a giocare col fuoco, a rischiare il dileggio e l’attacco frontale, che i presunti buonisti per lui meriterebbero. Ma ribellarsi a una legge che amplifica il problema della clandestinità, invece di risolverlo, non è buonismo, semmai è buonsenso. Lo stesso termine di cui Salvini si è appropriato senza permesso, e che usa a sproposito durante le sue campagne d’odio per giustificare l’ingiustificabile. In questo caso, disobbedire significa contrastare l’imminente ondata di insicurezza di un decreto ideato male e realizzato peggio.
È la storia che lo impone. Nel 1849 Henry David Thoreau scrisse il saggio “Disobbedienza civile”, impugnato poi da Gandhi nelle sue battaglie nel secolo successivo. Negli Usa i più importanti diritti dei neri sono stati raggiunti in seguito a moti di disobbedienza, come ricorda la frase di Martin Luther King: “Si ha la responsabilità morale di disobbedire a leggi ingiuste”. In Italia sono stati i radicali, soprattutto negli anni Settanta, a usare quest’arma come lotta per affermare nuovi diritti, come nel caso dell’aborto o del divorzio. Ribellarsi a una legge sbagliata, malsana e distante dai fondamenti dei diritti umani, non è il capriccio di un sindaco in cerca di una notorietà effimera, ma uno strumento fondamentale nella nostra democrazia.