La prima cosa a cui pensiamo se pensiamo alla democrazia è il diritto di voto, ma c’è un altro elemento fondante e inequivocabile di qualsiasi democrazia ed è il diritto di dissentire, di essere liberi di dire “No”, senza subire ripercussioni. Ovviamente, ciò non significa sottrarsi al rispetto delle leggi o all’ordinamento dello Stato, né ledere la libertà degli altri, ma ciascuno deve avere la libertà di poter esprimere in maniera pacifica le proprie idee. In una democrazia – finché non costituiscono un pericolo diretto e concreto per la collettività – lo Stato non dovrebbe limitare i diritti e le libertà individuali delle sue componenti. In una democrazia, i cittadini dovrebbero essere liberi di andare dove desiderano, all’ora che desiderano, con chi desiderano e col mezzo che preferiscono; dovrebbero essere liberi di vestirsi come vogliono, a meno che ciò non risulti pericoloso alla loro incolumità sul luogo di lavoro, senza che ciò abbia ripercussioni sociali.
In particolare, una democrazia, per definizione, deve riconoscere tutti i suoi cittadini e garantire a tutti loro gli stessi diritti, senza che il moralismo – potente forza sociale – detti legge, men che meno in uno Stato che si definisce laico. Eppure, nel nostro Paese esiste da sempre un fronte cattolico compatto e trasversale agli schieramenti che vede nelle forze reazionarie il migliore alleato e nel centrosinistra il partner da indebolire per contenere e contrastare le fronde più inclusive, democratiche e progressiste del Paese. In Italia sta diventando sempre più difficile far rispettare i diritti conquistati negli ultimi settant’anni lottando e in alcuni casi anche sacrificando la vita. Basti pensare alla sempre più frequente mancata applicazione dell’interruzione di gravidanza, alle limitazioni su temi legati ai diritti civili e alle libertà individuali, come il matrimonio egualitario, l’eutanasia, l’omogenitorialità, la fecondazione eterologa, la maternità surrogata.
In una democrazia, se sono un uomo e mi metto una gonna non dovrei temere per la mia incolumità; se sono una donna che non desidera avere figli non dovrei sentirmi giudicata; se non considero un embrione un essere umano dovrei essere libera di abortire; se non mi identifico nei generi binari dovrei essere riconosciuto dallo Stato; in una democrazia dovrei poter avere relazioni sessuali e affettive con chi e come voglio. Su questo si fonda il grande sogno democratico e liberista sorto alla fine del secondo conflitto mondiale, che affonda simbolicamente le sue radici nell’articolo 1 della Costituzione americana, in cui la felicità viene qualificata come un diritto innato e inalienabile. Oggi, purtroppo, è evidente che questo era solo un bel sogno – che in tanti casi si è trasformato in un incubo – e soprattutto che in Italia ci stiamo sempre più allontanando da questa idea di democrazia, non per perfezionarla, ma per retrocedere, tanto che addirittura la fondazione stessa di questo sistema rischia di essere messa in discussione, ovvero il diritto al dissenso.
Il diritto al dissenso in Italia trova la sua tutela nel principio previsto dall’articolo 21 della nostra Costituzione, ricollegandosi a quello che a tutti gli effetti rappresenta la base del sistema democratico, ovvero il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Da qualche tempo, però, si sta verificando a vari livelli un aumento della severità dello Stato nei confronti di chi appunto dissente e si impegna a manifestare il suo dissenso pacificamente – soprattutto se non appartenente a gruppi di estrema destra. La memoria torna subito al 2001, ai fatti del G8 di Genova e a quella che venne definita “una macelleria messicana”; ma purtroppo gli episodi recenti non mancano. Basti pensare a quanto accaduto il 18 ottobre al Porto di Trieste, dove la Polizia ha sgomberato con gli idranti e lacrimogeni un presidio dei portuali contrari all’obbligo di green pass sul luogo di lavoro (sulle posizioni di chi ha deciso di non vaccinarsi al Covid – in molti casi influenzate da teorie del complotto e strumentalizzate dall’estrema destra – si potrebbe aprire un capitolo a parte ma, al di là di tutto, finché una manifestazione di dissenso è pacifica dovrebbe essere considerata lecita); gli studenti medi presi a manganellate a Roma il 29 gennaio scorso mentre protestavano in piazza contro l’alternanza scuola-lavoro dopo la morte del diciottenne Lorenzo Parelli; e i fatti di questo 20 settembre a Palermo.
Le manganellate contro i manifestanti che volevano raggiungere il comizio di Fratelli d’Italia in piazza Politeama, sono l’ennesimo campanello d’allarme su una progressiva stretta autoritaria dello Stato sull’ordine pubblico. Durante il comizio a Caserta di domenica scorsa, disturbato da alcuni contestatori pacifici, Meloni ha chiamato in causa la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese (già contattata in precedenza), lamentandosi del fatto che molti dei suoi interventi – come ad esempio a Matera – sono stati disturbati e interrotti e accusandola di non “saper fare il suo lavoro”. “L’incompetenza è una cosa, ma c’è un livello di incompetenza oltre al quale devi pensare che lo stanno facendo apposta”, ha dichiarato Meloni e come da tradizione berlusconiana si riscontra anche in questo caso una sorta di fantomatico complotto ai propri danni, per continuare a diffondere indisturbati i propri messaggi di intolleranza.
D’altronde, pare che tutta la destra italiana abbia iniziato a soffrire di manie di persecuzione, e se da un lato è l’unica a vedere pericolosi comunisti mangiabambini dappertutto, dall’altro flirta con l’ex impero sovietico. Anche Salvini, durante il suo mandato al Viminale (tra giugno 2018 e settembre 2019), preferiva non essere turbato dalla presenza di semplici striscioni appesi sulle facciate degli edifici, evidentemente troppo sensibile per gestire alcun tipo di dialettica costruttiva. Così, durante i suoi tour elettorali, poliziotti e vigili del fuoco sono stati mandati diverse volte a rimuoverli. In effetti, l’articolo 21 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (T.U.L.P.S.) di cui al Regio Decreto (R.D.) 18 giugno 1931 – risalente al periodo fascista e quindi antecedente alla Costituzione – prevede che sia “sempre considerata manifestazione sediziosa l’esposizione di bandiere o emblemi, che sono simbolo di sovversione sociale o di rivolta o di vilipendio verso lo Stato, il governo o le autorità e che sia manifestazione sediziosa anche l’esposizione di distintivi di associazioni faziose”.
Tornando a Palermo, la Questura, di concerto con la Prefettura, obbedendo alle direttive della circolare poi effettivamente invitava da Lamorgese dopo il comizio di Meloni, ha messo sulle strade un numero di agenti del Reparto mobile decisamente sovradimensionato rispetto ai 50 contestatori in corteo, impedendo loro di raggiungere la piazza in cui si teneva l’evento e colpendo 15 persone coi manganelli, tra cui una giornalista. “È inaccettabile che a margine di un comizio elettorale, momento di libera espressione del proprio pensiero, certi toni possano superare i limiti, tanto da sfociare in attimi di tensione tra manifestanti e forze dell’ordine, come è avvenuto in alcune vie del centro città”, ha dichiarato il sindaco di Palermo Roberto Lagalla. Interessante notare come per Lagalla la “libertà di espressione” da proteggere sia solo quella della leader di Fratelli d’Italia, e non quella della minoranza rappresentata dagli oppositori presenti al momento del comizio, ma d’altronde di questi tempi le parole cambiano significato ogni cinque minuti. “È stata una manifestazione pacifica e nessuno ha lanciato bottiglie, ma gli agenti hanno blindato l’area intorno a via Ruggero Settimo impedendoci di andarcene”, ha raccontato un manifestante.
L’articolo 17 della Costituzione recita: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. In teoria l’Italia è – ancora – un Paese democratico, ma le parole sono importanti, soprattutto quando costituiscono uno Stato, e purtroppo il Fascismo sembra aver saputo mantenere vive le sue radici proprio nelle fondamenta legislative del nostro ordinamento, perché la Carta costituzionale è appunto successiva a tante norme in materia di sicurezza e ordine pubblico.
L’articolo 18 del T.U.L.P.S., infatti, sottolinea che i promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico, devono darne avviso almeno tre giorni prima al Questore. L’assenza di questo preavviso, sia per quanto riguarda i promotori sia per chi prende la parola pur essendo a conoscenza della violazione dell’obbligo, come conseguenze ha generalmente una multa di poche centinaia di euro, ma la sanzione comminabile può arrivare anche all’arresto fino a sei mesi. Non ci sono invece ripercussioni penali per i semplici partecipanti. L’articolo 2 del T.U.L.P.S. prevede che “il Prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, [abbia] facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”. Per questo, in ogni caso, la violazione del divieto del Questore non dovrebbe essere sufficiente a far sciogliere la riunione pubblica, proprio perché il mancato rispetto di questo divieto integra gli estremi di una contravvenzione e non di un delitto e quindi di un illecito che, per quanto di rilevanza penale, sembra sfuggire a quel livello di gravità. Inoltre, la norma non sarebbe di per sé inidonea a legittimare una pronuncia in tema di rispetto di garanzie costituzionali, in quanto il legislatore si limita a individuare la competenza in capo a un determinato organo (il Prefetto), senza però specificare le condizioni che ne devono accompagnare l’esercizio. Eppure, il 19 settembre due studentesse di 17 anni che esponevano davanti al loro liceo di Voghera cartelli che pubblicizzavano lo sciopero generale per il clima in programma per oggi e avanzavano richieste per l’efficientamento energetico dell’istituto scolastico sono state denunciate e portate in Questura, proprio per “manifestazione non preavvisata”.
Secondo l’articolo 20 del T.U.L.P.S.: “Quando, in occasione di riunioni o di assembramenti in luogo pubblico, o aperto al pubblico, avvengono manifestazioni o grida sediziose o lesive del prestigio dell’autorità, o che comunque possono mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dei cittadini, ovvero quando nelle riunioni o negli assembramenti predetti sono commessi delitti, le riunioni e gli assembramenti possono essere disciolti”. Per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, poi, il Questore può impedire che la riunione abbia luogo ed eventualmente prescrivere altre modalità di svolgimento. Il problema è che queste espressioni appaiono molto vaghe e interpretabili.
Prima di usare la violenza, sarebbe comunque necessario invitare i partecipanti a sciogliere la riunione e in caso di inosservanza all’invito, si dovrebbe procedere all’ordine di scioglimento con tre intimazioni di natura formale. Soltanto qualora tali intimazioni non abbiano effetto, le autorità possono procedere all’esecuzione dell’ordine attraverso il ricorso alla forza. Come purtroppo sappiamo, però, le cose spesso vanno molto diversamente e molte volte accade che i fatti costituenti reato commessi da pubblici ufficiali rimangano impuniti, in primis a causa della difficoltà di riconoscerne gli autori, dal momento che le forze dell’ordine non sono obbligate a palesare segni identificativi nel corso delle operazioni di ordine pubblico. Sembrerebbe dunque piuttosto chiara la volontà delle forze di polizia di evitare di rispondere delle proprie azioni, cosa che già di per sé rappresenta un’incrinatura in quello che in teoria dovrebbe essere un rapporto di rispetto e fiducia all’interno dell’impianto sociale. D’altronde, la formazione professionale degli agenti delle forze dell’ordine risente tuttora di un’impostazione autoritaria, che affonda le sue radici valoriali e formali nella prima metà del Novecento e appare spesso refrattaria alla tolleranza, all’inclusività, al riconoscimento dei diritti costituzionali e sovranazionali dei cittadini e all’adeguamento a un ordinamento giuridico democratico.
In questi casi si tende a parlare di episodio isolato, scaricando la colpa sull’incapacità del funzionario di piazza nel comprendere e governare la situazione. La tendenza è la stessa che prevale quando si parla di “mele marce” nel caso di violenze riconosciute da parte di agenti delle forze dell’ordine. Eppure dobbiamo riconoscere che non è così, perché se non lo faremo la situazione non cambierà mai. In una moderna democrazia il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo e il riconoscimento della libertà di pensiero andrebbero coniugati, rispettando la libera e pacifica convivenza tra cittadini, anche e soprattutto quando la pensano diversamente. E nel caso in cui ci sia effettivamente la necessità di misure repressive, queste dovrebbero rifarsi a principi di proporzionalità e buon senso, o ragionevolezza per dirla in termini legali.
L’importanza dei diritti di libera manifestazione di pensiero stride invece con le limitazioni imposte dalle leggi del 1931 ancora in vigore, che tuttora trovavano la loro ragion d’essere nell’impianto autoritario dello Stato italiano del Ventennio fascista. In un ordinamento democratico come il nostro, fondato sulla Costituzione del 1948, appare inquietante che si riesca a limitare diritti fondamentali attraverso il ricorso ad autorizzazioni preventive e a concessioni alla polizia. Questa crepa nella nostra democrazia doveva essere rimarginata molto tempo fa, dato che, come appare evidente, può essere sfruttato come un mezzo per legittimare il riemergere dell’autoritarismo, così come dei ciclici rigurgiti reazionari, che ormai rischiano di diventare la nostra quotidianità. Le disfunzioni esistenti, soprattutto nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, dovevano essere risolte con un adeguamento nei decenni passati. Ormai è evidentemente troppo tardi e rischiano così di offrirsi come potenti strumenti nelle mani di chi ha dato modo più volte di dimostrare un impianto valoriale ben lontano da quello democratico.