Si potrebbe dire che negli ultimi anni sono cambiate davvero molte cose rispetto alla consapevolezza sociale in materia di diritti civili. È cambiata, in primo luogo, la comunicazione della rivendicazione delle minoranze: sociali, religiose, etniche, culturali e soprattutto di genere. Complice la diffusione e l’utilizzo sempre più massiccio dei social e la riscoperta del femminismo intersezionale da parte delle nuove generazioni di donne, il livello generale di coscienza dell’opinione pubblica in merito a certi temi ha fatto un enorme salto in avanti. C’è da dire, infatti, che proprio l’intersezionalità – ovvero il fatto di tenere conto delle diverse oppressioni che si intersecano a quelle del genere, come il razzismo o l’omotransfobia – che rappresenta l’aspetto più nuovo e “moderno” del femminismo della quarta ondata, ha fatto sì che molte delle donne e degli uomini che in passato avevano o avrebbero rifiutato il femminismo storico si avvicinassero alle questioni di genere e alle lotte di quegli anni. Mentre per molto tempo, infatti, le battaglie femministe sono state viste e considerate come battaglie di “serie B” e le donne hanno dovuto scegliere contro cosa e chi lottare, se contro la disuguaglianza sociale o se per il riconoscimento della parità di genere, oggi l’intersezionalità assicura che nessuna battaglia venga perseguita a prescindere dalle altre, proprio in virtù della consapevolezza dell’esistenza di un sistema che risulta oppressivo su più fronti.
In Italia, di sicuro, questo cambio di marcia ha raggiunto la sua fase più compiuta con la querelle intorno all’approvazione del ddl Zan, segnando un momento di rottura rispetto al passato e un passo avanti e nella coscienza critica dell’opinione pubblica, dal momento che è diventato il tema centrale attorno al quale per mesi si è poi orientato il dibattito pubblico e politico. Ha smosso coscienze, riempito talk show, mobilitato tante persone, volti noti e comuni cittadini. Ma più che i politici, in realtà, si sono schierati apertamente a sostegno del disegno di legge numerosi personaggi dello spettacolo, del mondo dell’arte e della cultura, oltre a influencer. D’altronde, è proprio grazie al tira e molla sulla legge e al suo clamore mediatico se le piazze italiane sono tornate a riempirsi di persone, soprattutto giovani. All’Arco della Pace di Milano, il 15 maggio del 2021, a Roma erano in 8mila, e il giorno dopo in 10mila.
Che una legge contro l’omolesbobitransfobia sia assolutamente necessaria non sarebbe neanche necessario ribadirlo, anche perché il fatto che l’omofobia nel nostro Paese sia una piaga strutturale e trasversale è palese. A dimostrarlo non ci sono soltanto le aggressioni che continuano a ripetersi ai danni di persone omosessuali, ma anche le ripetute esternazioni omobitransfobiche di personaggi che ricoprono ruoli istituzionali e politici, oltre a fatti di cronaca e di costume più o meno rilevanti. Tuttavia, proprio partendo dall’enorme mobilitazione intorno al disegno di legge – e considerato lo scenario nel quale viviamo – è impossibile non chiedersi come mai così tanti giovani e larga parte della sinistra italiana si siano mobilitati e si mobilitino sempre più spesso in massa per i diritti civili – ovvero per lotte e questioni che riguardano e chiedono un cambio di mentalità – e continuino a essere molto più tiepidi di fronte ad altre questioni che non hanno la stessa esposizione mediatica e sui social, come ad esempio l’ipotesi dell’introduzione di un salario minimo (che è stata ancora una volta abbandonata dalle priorità del governo). È come se tutto ciò che riguarda la classe sociale e i diritti dei lavoratori rimanesse, infatti, costantemente fuori dal perimetro del dibattito, come si trattasse di una questione di nicchia, solo per gli addetti ai lavori e non qualcosa che riguarda tutti noi in prima persona.
Persino il segretario del più grande partito di sinistra italiano, Enrico Letta, ha inaugurato il suo percorso con un’agenda e delle proposte da lui stesso definite di “rottura”, proprio perché contengono una serie di istanze civili come le “quote rosa” ai vertici del partito, il voto ai sedicenni e lo Ius soli. A parte questo, però, ci si chiede, dove sia il diritto dei lavoratori di avere paghe eque – che risolvano peraltro il gender pay gap – e pensioni che assicurino una vecchiaia dignitosa, il diritto alla casa, una sanità e una scuola pubbliche ed efficienti per tutti. Purtroppo sembra che le lotte sociali non siano più una priorità. Non si spiega come mai in un momento storico come quello che stiamo vivendo, con una pandemia ancora in corso e una recessione che vede mancare quasi trecentomila occupati all’appello (numeri ufficiali che non tengono conto del sommerso e del lavoro nero) e la precarietà che è ormai una costante per un’intera generazione, non si senta il bisogno di intervenire o di scendere in piazza, per esempio, quando gli imprenditori si lamentano perché non trovano personale sottopagato per la stagione estiva, criminalizzando la misura del reddito di cittadinanza quando la versione dei lavoratori sfruttati per pochi euro non trova voce. Tra i tanti tristi primati dell’Italia, infatti, c’è anche quello di essere uno dei pochi Paesi con il più alto tasso di working poors – ovvero di lavoratori che godono di un reddito inferiore 60% della mediana del reddito disponibile equivalente – e uno fra i pochi in Europa che non adotta un salario minimo a prescindere dalla contrattazione collettiva.
Con la fine della stagione dei movimenti e delle lotte sociali che sono state protagoniste in Italia durante gli anni Sessanta e Settanta, cuore e motore della sinistra che chiedeva “pane e lavoro”, è cominciato un lento e inesorabile spostamento dall’intervento politico dalle politiche sociali a quelle civili. Con il rafforzarsi del neoliberismo e lo smantellamento progressivo delle garanzie del lavoro – e in alcuni casi persino mettendo a rischio i diritti costituzionali che hanno trovato sempre meno spazio nei programmi dei partiti – le battaglie civili hanno preso il posto di quelle sociali. Un meccanismo che in molti casi ha nascosto l’incapacità di intervenire su un fronte sociale ormai ingovernabile che dipende solo dall’andamento dei mercati e della globalizzazione.
Una scia che arriva fino a oggi, con l’aumento della povertà lavorativa che è cresciuta rapidamente, passando dal 10,3 % al 12,3 % in meno di dieci anni e arrivando a un totale del 13,2%, se si considera il numero di precari e di working poor soggetti a part-time o a contratti stagionali. Tutto questo ha contribuito a monopolizzare l’attenzione pubblica e mediatica, spegnendo, in alcuni casi, l’indignazione che normalmente dovrebbe sorgere spontanea anche su altri fronti e facendo diventare altre lotte sempre più territoriali, circoscritte e disapprovate. È come se, in un certo senso, fosse venuta meno la rappresentazione nelle piazze del mondo nel quale viviamo tutti i giorni, un mondo in cui al fianco dell’iter legislativo della legge Zan o delle discriminazioni, continuano a coesistere il lavoro nero, lo sfruttamento, le privatizzazioni selvagge, il precariato e la diseguaglianza crescente. Non si tratta di disfattismo o di benaltrismo e neanche di dover stabilire una gerarchia dei diritti o dei problemi nel Paese, ma di riflettere sulla differenza sostanziale che passa fra diritti civili e diritti sociali: non perché vengano prima i diritti sociali e poi quelli civili, o viceversa, ma perché l’inclusività è debole se non viaggia sulle gambe della giustizia sociale.
Combattere per ottenere diritti civili, infatti, è in una certa misura più semplice e meno dispendioso per i partiti – anche se il ddl Zan non è stato approvato e anche la legge sul fine vita rischia di arenarsi, finendo nelle mani di chi l’ha sempre osteggiata. Lo è meramente da un punto di vista economico e di equilibri politici, rispetto a ciò che richiedono, invece, i diritti sociali. Salvaguardare i diritti sociali richiede uno spostamento del baricentro degli interessi per mettere al centro gli ultimi e gli emarginati per tutelarli; trovare soluzioni all’impoverimento delle classi medie e alla crescita stagnante; vuole dire, di fatto, ricostruire tutto quello che è stato fatto a pezzi negli ultimi trent’anni e per farlo bisogna mettere in discussione un sistema politico fondato sullo sfruttamento dell’uomo e dei territori cambiando rotta al sistema nel quale viviamo, toccando gli interessi di pochi privilegiati. Significa compiere qualcosa di enormemente più dispendioso sotto vari punti di vista.
È questo il motivo per il quale non si può parlare di inclusività in una società che ha dimenticato cosa significhi lottare per i diritti sociali, ma fino a quando le questioni sociali non andranno di pari passo con quelle civili tutto ciò che oggi definiamo inclusività sarà soltanto una parola vuota, un’etichetta giusta ma ipocrita. Creeremo una società accogliente, fluida e aperta in cui avremo la libertà di sentirci rappresentati, ma in cui chi è gay e povero, di fatto, rimarrà povero, chi è trans e precario rimarrà precario. Le donne lesbiche si potranno baciare per strada, ma non potranno avere un contratto di lavoro decente per accedere a un mutuo e comprarsi una casa in cui vivere per l’assenza di garanzie e contratti regolari. Non spariranno per magia i nostri problemi e le coppie non binarie si troveranno comunque a fare i conti con gli stessi problemi delle coppie eterosessuali, o forse maggiori perché le lacune nei diritti sociali saranno utilizzate come occasioni di discriminazione in maniera meno trasparente.
Oggi possiamo cogliere l’occasione di questa inaspettata stagione di attivismo per riconciliare questi due piani e, forse, compiere davvero una piccola rivoluzione, indirizzando questa richiesta di evoluzione civile per rifondare dalle basi il sistema in cui viviamo con la consapevolezza che possiamo sì, essere donne, lesbiche, gay o transessuali, ma anche e soprattutto povere, marginalizzate, senza possibilità. Molte delle istanze di ultima generazione e lo stesso femminismo della quarta ondata contengono spunti eccezionali sotto questo aspetto e rivoluzionari, ma dobbiamo applicarli davvero, senza mezze misure. L’impianto intersezionale, dimostra come le oppressioni e le ingiustizie siano interconnesse fra loro e quanto sia fondamentale per evolverci riconoscerle e prenderne consapevolezza. Dimostra anche quanto sia potenzialmente sovversivo mutuare il concetto di eteronormatività in altri ambiti per palesare strutture “normative” ed escludenti, che non riguardano solo il genere ma spesso si inseriscono anche nelle dinamiche di lavoro e nelle relazioni di classe. Dovremmo cominciare a farlo davvero, lottando per una società più giusta, su tutti i livelli.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 7 giugno 2021.