Perché in Italia quello del musicista non è considerato un lavoro?

Non è facile presentarsi a sconosciuti se sei un musicista e lavori in Italia. Al momento di rivelare il proprio mestiere ci sarà sempre l’interlocutore che ti squadrerà come se fossi un appestato e che non potrà fare a meno di di porre quella domanda. Poco importa che tu ti occupi di musica classica o leggera, che tu sia un compositore, un turnista o il primo violino alla Scala, la domanda sarà sempre la stessa: “Sì, ma di lavoro che fai?”.

La pandemia di Covid-19 ha devastato i lavoratori della musica, bloccandone i concerti, penalizzando la promozione e dunque le uscite discografiche, chiudendo i luoghi sacri del loro lavoro. I media hanno dato ampio risalto alle loro difficoltà, spesso diventando il megafono delle proteste, ma hanno dimenticato un dettaglio fondamentale: in Italia il mestiere del musicista era pesantemente svilito già in passato, prima dell’emergenza sanitaria, al punto da venire spesso declassato a hobby, sfizio o capriccio a cui dedicare il tempo libero. Nell’immaginario collettivo non esistono gli anni di studio, i sacrifici, i costi per la strumentazione e per il percorso di apprendimento, o le battaglie annuali con la Siae: tutto quello che ruota intorno alla musica è fuffa. Se questa considerazione è ormai una condanna sulla pelle dei musicisti, vessati da pregiudizi e cattiva informazione, il problema si trova in larga parte nel decadimento artistico e culturale del nostro Paese. Lo stesso conosciuto nel mondo per Verdi e Puccini, per intenderci.

Se la musica nei licei, salvo eccezioni specifiche, è assente e nelle scuole elementari e medie viene studiata poco e male, usata come ora cuscinetto per far svagare gli studenti, significa che lo stesso sistema educativo la pone in secondo piano, determinando la futura concezione che ne avranno gli studenti al loro ingresso attivo nella società. A questo va aggiunto il percorso tortuoso dei Conservatori, che per decenni sono stati considerati dallo Stato alla stregua di inutili istituzioni dal valore accademico pressoché nullo. Soltanto nel gennaio 2018, con il decreto firmato dall’allora ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, sono stati equiparati i titoli del circuito Afam (Alta formazione artistica, musicale e coreutica) a quelli universitari, introducendo la suddivisione canonica del 3+2 e riconoscendo a livello ufficiale questi percorsi di studio. Fino a qualche anno fa, uno studente del conservatorio poteva avere un percorso di studio decennale (in pianoforte, per esempio), ma il titolo finale non veniva riconosciuto nemmeno come una laurea di primo livello. Adesso gli iscritti ai conservatori sono 76mila, con una crescita media dal biennio 2010-11 del 7% annuale e un aumento del 60% dei diplomati rispetto a otto anni fa. A questo successo in cifre si accompagna però una lunga serie di problemi strutturali.

Prima di tutto pesa il problema della precarietà dei professori: circa mille insegnanti dei Conservatori hanno ancora un contratto non definitivo. La macchina burocratica è ferma ancora a cavilli della legge 508 del 1999, mancando dei decreti attuativi legati a regolare il reclutamento. Per questo non esiste ancora un’abilitazione nei conservatori a livello nazionale comparabile a quella universitaria. Inoltre, migliaia di cattedre sono scoperte e l’Afam non ha una Direzione generale. Anche la ricerca è in crisi per l’assenza di fondi nazionali dedicati, mentre le biblioteche che contengono gran parte del patrimonio musicale nazionale hanno problemi di mancanza di personale e sono costrette ad aperture a orario ridotto e a gravi carenze nel livello del servizio.

Superato il periodo impegnativo degli studi e il sistema farraginoso che lo accompagna, lo scenario che si prospetta per un musicista diplomato è ancora più faticoso. Il settore lavorativo musicale sta attraversando una vera e propria crisi occupazionale, con le difficoltà degli orchestrali direttamente proporzionali a quelle dei teatri. Uno dei casi più recenti ed eclatanti è il rischio di chiusura del Teatro Bellini di Catania, un tempio della lirica sommerso da problemi finanziari e costantemente oggetto di interrogazioni parlamentari. Sono scesi in piazza i lavoratori e i membri dell’orchestra per scongiurare una chiusura che non soltanto rappresenterebbe il segno di un declino culturale e lo smantellamento di uno dei luoghi più prestigiosi d’Italia, ma anche la concretezza di lasciare a casa dei lavoratori. Perché la musica è un mestiere, e bisogna sempre ricordarlo.

Chi pensa che la musica leggera si trovi in uno stato di salute migliore rispetto a quella classica, si sbaglia. La crisi dell’industria discografica ha creato un appiattimento nel livello di qualità e di opportunità. I supporti fisici non si vendono più e le principali entrate degli artisti derivano dai concerti. Se questo non è un problema grave per i musicisti affermati, è uno dei più gravi per gli aspiranti, costretti a una gavetta fatta di esibizioni in locali che prediligono le cover band e che pretendono di pagarti “in visibilità”. Al limite i più fortunati ricevono una cinquantina di euro (spesso neanche sufficienti a coprire i costi del carburante e le spese), una birra e una pacca sulla spalla. Chi osa portare del materiale inedito e autoprodotto è costretto a sfoggiare un sorriso di circostanza alla solita domanda: “Sei bravo, perché non partecipi a un talent?”.

I talent show, infatti, sono diventati un mezzo usato dalla maggior parte delle case discografiche per trovare nuovi artisti, non prima di averli sacrificati nel tritacarne mediatico: televoto, giudizi su cover, prodotti fatti con lo stampino e poi lo scontro finale in stile “ne resterà soltanto uno” di Highlander , in una competizione che svilisce ogni aspetto artistico. Anche quelli che riescono a emergere non sono in realtà dei privilegiati: spesso durano l’arco di qualche mese, per poi essere eclissati dalla nuova leva sfornata dall’edizione successiva dei talent, in una logica che sembra più vicina a quella industriale che artistica. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano e persino chi riesce a sfondare deve fare i conti con la crisi dell’intero sistema musicale.

the-vision-talentshow

Qualche mese fa Enrico Ruggeri ha rilasciato un’intervista diventata virale per questa frase: “Mahmood guadagna meno della mia babysitter”. Andando oltre la frase provocatoria, Ruggeri spiega le falle dell’industria discografica, crollata dall’avvento di Internet in poi e che ha ricevuto il colpo di grazia con la generazione Spotify. “Lo scenario di adesso è quello della musica digitale, dove guadagnano solo le case discografiche e non gli artisti. Se arriva un ragazzino dal paesino e vince il talent, non puoi chiedergli di fare la rivoluzione. Quello a mala pena deve sperare che la radio gli passi il pezzo e di rimanere un po’ lì, mantenere la famiglia, avere il riscatto sociale”.

Il discorso su Mahmood è legato agli introiti ottenuti con Spotify, che sono una percentuale minima su ogni ascolto. Questo non vuol dire che Mahmood in questo anno non abbia guadagnato bene: la vetrina di Sanremo gli ha garantito uno status che gli permette di avere un cachet decisamente alto per i suoi concerti. Ma questo è solo un altro esempio del fatto che nel mondo della musica si si guadagna soltanto con i live, tagliando fuori i musicisti che non hanno visibilità.

Gran parte degli artisti sono costretti ad arrotondare con altro, principalmente con lezioni private di musica o l’ambita posizione come professore di ruolo. È in questo passaggio che si rimane incagliati nell’iter del sistema di insegnamento in Italia e nei suoi meccanismi. Quindi il musicista, per potersi permettere l’affitto di una sala prove e tutte le spese, deve necessariamente trovare un lavoro fuori dal suo campo. Se un violoncellista lavora in un call center e un batterista frigge patatine in un fast food, non lo fa perché non considera quello del musicista un mestiere, ma perché è la realtà sociale ed economica che lo circonda a non permettergli di farlo. È una forzatura, non una scelta.

La diretta conseguenza è cercare fortuna altrove, in Paesi dove i musicisti vengono ancora rispettati, non solo a parole, ma soprattutto con offerte lavorative che premino il loro percorso formativo e talento. Anche questa, d’altronde, è una “fuga di cervelli”, dato che riguarda in molti casi la migrazione di cittadini talentuosi che l’Italia non ha saputo valorizzare. Sono numerosi gli esempi di artisti che hanno deciso di abbandonare la realtà del nostro Paese dopo anni di tentativi infruttuosi per vivere di musica, trovando altrove le opportunità per emergere. Non c’è più da stupirsi se in Portogallo un trentenne italiano diventa insegnante di conservatorio, viene pagato bene, fa il pianista e consiglia ai suoi coetanei di fare le valigie e andare via da quella che un tempo era una delle culle della musica occidentale. Un tempo, appunto.

Se l’Italia è ormai un Paese in agonia è in larga parte dovuto all’umiliazione che la cultura subisce da decenni. È necessario tutelare le proprie eccellenze, incentivare i giovani artisti e riconoscere le professioni che non sono più considerate tali. Secoli fa nessuno avrebbe mai chiesto a Vivaldi “Cosa fai di mestiere?”. Dobbiamo cambiare la mentalità dell’intero Paese e tornare alle nostre vere radici, che non coincidono solo con quello che serviamo in tavola durante il Cenone di Natale. Non fare nulla significa che i teatri continueranno a chiudere, le orchestre di professionisti vivranno nell’ansia di un contratto da rinnovare ogni pochi mesi e i musicisti resteranno per sempre degli individui che strimpellano uno strumento per hobby. E alla lunga, quella culturale coinciderà con la morte definitiva di questo Paese.

Segui Mattia su The Vision | Facebook