Di Maio diceva di aver risolto lo sfruttamento dei rider. Oggi sono ancora senza tutele.
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Nei giorni scorsi, una lettera firmata da quasi 600 rider operanti in Italia è stata inviata al nuovo governo: “Da mesi, anzi anni ormai, siamo al centro di promesse e polemiche di ogni tipo, ma ci sembra che l’unica voce a non essere stata ascoltata sia proprio la nostra”. Il primo risultato della denuncia è che tre loro rappresentanti, appartenenti a tre generazioni diverse, verranno ricevuti al Senato per mettere sotto accusa proprio il decreto salva-rider, presentato nello scorso agosto dal governo gialloverde e ora in attesa di essere convertito in legge.

Sono diversi anni che la questione dei rider tiene banco nel dibattito politico italiano: una flotta di almeno 50mila persone pagate a cottimo, sfruttate e costrette a lavorare senza garanzie e assicurazioni da parte delle aziende di delivery che le ingaggiano, costringendole a una costante corsa contro il tempo che rende la sicurezza durante le consegne l’ultimo dei pensieri. In questi anni i rider hanno chiesto alle aziende di regolarizzare le loro assunzioni con formule di lavoro dipendente, con il contratto collettivo nazionale del settore trasporti e logistica. Questo, anche per dare stabilità lavorativa a medio e lungo termine a chi oggi si trova a operare alla giornata, come semplice collaboratore autonomo. I rider hanno anche chiesto una maggior remunerazione per gli straordinari, oltre che per il lavoro in condizioni precarie come pioggia e neve, una paga minima oraria e la copertura assicurativa.

Qualche azienda ha provato a venire incontro alle richieste dei rider: Deliveroo, per esempio, ha introdotto la paga oraria minima, senza però abbandonare il cottimo. La maggior parte non si è mossa, nell’attesa dell’introduzione di un quadro normativo. La politica si è attivata nella figura di Luigi Di Maio, per qualche tempo autoproclamato paladino dei rider italiani. A giugno 2018, quando è arrivato al governo con l’incarico di ministro del Lavoro, ha promesso che il primo dossier di cui si sarebbe occupato sarebbe stato quello dei rider, “simbolo di una generazione abbandonata”. In effetti, nella bozza del decreto dignità apparsa nelle settimane successive si parlava di divieto del cottimo per le prestazioni di lavoro svolte tramite piattaforme, applicazioni e algoritmi, ma anche di tutele previdenziali e antinfortunistiche e di salari orari minimi. “Da oggi comincia la lotta al precariato giovanile. Voglio che i giovani sappiano che c’è un ministero che sta lavorando per loro”, aveva dichiarato Di Maio in quei giorni. Nella versione definitiva, però, quella parte scomparve, probabilmente per le piattaforme che avevano minacciato di lasciare l’Italia in caso di approvazione di una normativa simile.

Nei mesi successivi Di Maio ha provato a tornare saltuariamente sull’argomento, facendo nuove promesse. A gennaio sosteneva che “entro marzo, ai lavoratori che effettuano consegne per conto delle app di food delivery, saranno assicurati tutele su malattie, infortuni e paga minima”. Davanti a un altro nulla di fatto, annunciò a marzo che all’interno del provvedimento attuativo del reddito di cittadinanza e quota 100 sarebbe stato inserito un emendamento per garantire l’estensione delle tutele dei lavoratori subordinati anche ai rider. Anche qui, nulla. “La norma sui rider è pronta. Sarà inserita nella legge sul salario minimo che è in discussione in questi giorni al Senato, proveremo a farla diventare legge anche prima, inserendola nella fase di conversione del ‘decreto crescita’”, scrisse a fine aprile, per essere di nuovo smentito dai fatti.

Altri organi hanno compensato l’inattività del passato governo ed è soltanto per questo se, in misura molto limitata, la condizione dei rider ha conosciuto alcuni miglioramenti negli ultimi mesi. La Corte di Appello di Torino, per esempio, a febbraio ha accolto il ricorso di 5 ex rider stabilendo che il loro lavoro va considerato al pari di quello dei lavoratori subordinati della logistica. A marzo la regione Lazio ha invece approvato una legge regionale (non vincolante) a tutela dei lavoratori digitali, seguita poi da Piemonte ed Emilia Romagna. Ad aprile è anche intervenuto il Parlamento europeo, con una direttiva sui diritti dei fattorini. In alcuni casi sono stati i rider stessi a mobilitarsi, raggiungendo risultati importanti come l’accordo pilota sottoscritto a Firenze o la carta dei diritti dei lavoratori delle piattaforme di Bologna, siglata dai collettivi autonomi, sindacati e comune.

Alla fine, anche Di Maio ce l’ha fatta e in estate la sua difesa dei rider italiani ha preso forma nel “decreto salva imprese”, presentato durante gli ultimi istanti di vita del governo gialloverde. Nel pacchetto di norme sono stati inseriti diversi articoli a tema gig economy che prevedono, tra le altre cose, un’assicurazione obbligatoria Inail contro infortuni e malattie, oltre a stabilire che la retribuzione sarà un mix di cottimo e paga oraria: quella in base alle consegne effettuate resta, purché non sia prevalente, mentre la retribuzione su base oraria sarà riconosciuta a patto che per ogni ora di attività il lavoratore accetti almeno una chiamata. La normativa introduce anche tutele in termini di maternità e assistenza sanitaria.

“Ci abbiamo messo un po’”, ha riconosciuto Di Maio ad agosto, “ma da ora in poi ai rider che portano le nostre pietanze a casa, con le biciclette, a volte col motorino, verranno riconosciute le tutele assicurative, i rimborsi spese per gli strumenti del lavoro, l’assistenza sanitaria, un salario minimo che significa consentire a queste persone di non essere sfruttate e sottopagate”. Sembrava un lieto fine, ma neanche due mesi dopo i rider sono sul piede di guerra.

Nel testo mancano quelli che dovevano essere i pilastri della normativa sui rider promessa da Di Maio, ossia l’obbligo per le piattaforme di assumere i fattorini con contratti da lavoro dipendente e l’abolizione del cottimo, da sostituire con un reddito minimo stabilito. Del riconoscimento della subordinazione che caratterizza il rapporto rider piattaforme non c’è traccia. La parte sulle tutele assicurative, invece, non aggiunge nulla di nuovo perché diverse aziende già le facevano stipulare ai loro rider. Se una parte dei fattorini si è lamentata di questi punti vuoti e inconcludenti, un’altra, come i firmatari della lettera consegnata in questi giorni al Senato, accusa direttamente l’ibrido cottimo paga oraria nato grazie al decreto.

Questi sottolineano che “le norme contenute nel decreto non solo non migliorano le nostre condizioni di lavoro: le peggiorano”. L’abolizione a metà del cottimo senza la definizione di una paga oraria universale, rischia di diventare un boomerang per i lavoratori. Nel momento in cui la paga oraria dovesse essere di pochi euro, i rider finirebbero per guadagnare di più con il cottimo, che però per il nuovo decreto non può essere la parte maggiore della remunerazione. Il fatto che il cottimo e la paga oraria non presentino vincoli e siano gestiti direttamente dalle piattaforme non risolve il problema, ma crea il paradosso per cui il cottimo diventa desiderabile, ma non più accessibile. “La nuova norma determinerà una riduzione significativa dei guadagni dei rider che, secondo le nostre stime preliminari, sarà pari a circa il 40%“, ha dichiarato Matteo Sarzana, Presidente di Assodelivery. Il decreto complica ancora di più una situazione già precaria e complessa.

Matteo Sarzana

C’è un’insoddisfazione generale tra i fattorini, illusi da un anno di promesse e oggi “accontentati” con un decreto che va a beneficio soltanto del curriculum politico di Di Maio. L’eterogeneità della categoria fa sì che le rivendicazioni siano molto diverse tra loro, a volte persino in conflitto. Uno dei pochi punti di accordo è l’opinione che l’ex ministro del Lavoro abbia dato vita a una norma inadeguata, cavalcando per fini di immagine la richiesta di diritti della categoria. Non gli perdonano anche i legami economici emersi in primavera tra Deliveroo e la Casaleggio Associati, organo strutturale del M5S.

La piattaforma di delivery risulta infatti tra i donatori – con una quota tra 5 e 10mila euro – dell’annuale rapporto sull’e-commerce prodotto dalla società di Davide Casaleggio, la stessa che gestisce la piattaforma Rousseau e la comunicazione digitale M5S. “Siamo stati traditi da Di Maio per la cassaforte del movimento”, hanno denunciato i rider nel commentare questo conflitto di interessi.

Oggi la buona notizia è che Di Maio non è più ministro del Lavoro. La cattiva è che il tempo passa e la quotidianità dei rider somiglia sempre di più a un bollettino di guerra. La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per il numero eccessivo di incidenti che coinvolgono i fattorini, oltre che per le precarie condizioni lavorative in cui si trovano a operare. Solo a settembre due rider sono stati investiti a Pescara e Milano. Intanto il Corriere della Sera ha rivelato l’esistenza di un sistema di caporalato digitale, che permette di lavorare anche agli immigrati irregolari per poi estorcere buona parte dei loro guadagni.

Quella che doveva essere la grande battaglia dell’ultimo anno a favore di una “generazione dimenticata”, si è trasformata in una serie di illusioni, conflitti di interessi e compromessi al ribasso. Il decreto che si prepara a diventare legge non interverrà sul fulcro del problema, così come non è lecito aspettarselo dalla nuova ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, sempre in quota al M5S, o dall’attuale governo. Il mondo dei rider sarà costretto a puntare sulla dimensione territoriale delle sue battaglie. Per il momento, le trattative con gli enti locali  hanno permesso di raggiungere i migliori risultati, ed è sulla strada del dialogo tra rappresentanze autonome e amministrazioni locali che bisognerà proseguire, vista l’incapacità o il disinteresse ad agire di buona parte del governo.

 

Foto in copertina di Antonio Masiello

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