Il cinque gennaio scorso, la Sogin, la società di Stato che si occupa dello smaltimento dei rifiuti nucleari in Italia, ha reso pubblica la Carta delle zone potenzialmente idonee (Cnapi), con un elenco di siti adeguati allo stoccaggio definitivo dei rifiuti radioattivi prodotti dal nostro Paese. Il documento arriva a quasi sei anni dal suo annuncio nel 2015.
I media italiani se ne erano occupati in modo approfondito l’ultima volta nel marzo 2018, quando l’allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda aveva comunicato la definitiva pubblicazione entro una settimana, annuncio poi seguito da un silenzio di quasi tre anni.
Malgrado l’apparente disinteresse della politica, la necessità di un deposito definitivo per i rifiuti radioattivi non ha mai smesso di essere una priorità per il Paese. Pur avendo spento le quattro centrali nucleari presenti sul territorio tra il 1982 e il 1990, l’Italia continua ancora oggi a produrre rifiuti di questo tipo. Secondo una stima del 2015, il 53% proviene dai reattori in dismissione, ma il rimanente è costituito da rifiuti prodotti in campo sanitario e industriale (31%) e nell’ambito della ricerca scientifica (16%) – i cosiddetti rifiuti a bassa e media attività.
In tutto, si parla di 33mila metri cubi di rifiuti, attualmente distribuiti in 19 siti provvisori sul territorio italiano. A questi si aggiungono le barre di combustibile esausto delle nostre vecchie centrali, stoccati per il momento in depositi in Francia e in Gran Bretagna – che continuiamo a pagare ancora oggi.
Le 67 aree identificate dalla Sogin sono distribuite tra Lazio, Toscana, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Basilicata e Puglia, e sono state scelte sulla base di quindici criteri di esclusione e altri tredici di approfondimento stabiliti dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) nel 2014. Tra i criteri di esclusione definiti nel documento sono presenti l’attività sismica e il livello di rischio idrogeologico, ma anche l’altitudine, la vicinanza con il mare e l’eventuale ricchezza enogastronomica della zona.
Nonostante i criteri stringenti seguiti per compilarlo, la pubblicazione della Cnapi ha già scatenato una serie di critiche e obiezioni da parte di sindaci e amministratori locali.
A Carmagnola, in Piemonte, alcuni coltivatori locali si sono dati appuntamento il 17 gennaio scorso per protestare contro l’inclusione del loro comune nella lista. La sindaca stessa, Ivana Gaveglio, si è detta assolutamente contraria alla possibilità di un deposito, sostenendo la protesta insieme ad alcuni parlamentari piemontesi.
Reazioni simili sono arrivate immediatamente anche dalla Sardegna, dalla Sicilia e dalla Basilicata. Nel caso di quest’ultima è intervenuto anche il ministro della Salute, il lucano Roberto Speranza, che ha sottolineato come le aree individuate nella sua regione sarebbero comunque a bassa idoneità per via del livello sismico della zona – cosa che ne renderebbe poco probabile la scelta rispetto ad altre più adatte.
La Basilicata, in particolare, ha un rapporto già complicato con la questione del deposito nucleare. Nel 2003, il governo Berlusconi aveva individuato in Scanzano Jonico il sito adatto al deposito, senza però coinvolgere la popolazione locale nel processo decisionale. Le manifestazioni che ne erano seguite avevano costretto il governo a rinunciare al progetto in Basilicata, ritardando per altri diciassette anni la discussione su cosa fare dei nostri rifiuti radioattivi.
Nonostante un diffuso pregiudizio sul tema del nucleare in Italia, non tutti i comuni hanno reagito allo stesso modo. Il sindaco di Trino Vercellese, in Piemonte, ha proposto fin da subito il suo comune come potenziale sito idoneo, malgrado la zona non rientrasse nella lista della Sogin. Trino Vercellese ospita già un deposito provvisorio, oltre alla centrale nucleare dismessa Enrico Fermi – cosa che secondo il sindaco Daniele Pane renderebbe la sua città la candidata idonea per l’esperienza e l’expertise necessari per la gestione del deposito nazionale.
La proposta del sindaco di Trino non è del tutto disinteressata. Oltre al deposito nazionale, il progetto prevede infatti anche la costruzione di un parco tecnologico associato: un polo di ricerca applicata e di formazione per lo studio dello smantellamento delle installazioni nucleari, della gestione dei rifiuti radioattivi e della salvaguardia ambientale. Insieme, il deposito e il parco tecnologico garantirebbero 4mila posti di lavoro coinvolti nella costruzione delle strutture, e altre mille persone direttamente impiegate nella gestione dell’impianto e dei laboratori negli anni seguenti. Senza contare incentivi economici, indennizzi per le aree occupate e il coinvolgimento delle aziende locali nel progetto.
In ogni caso, candidature come quella di Trino e critiche a priori come quello di Carmagnola sono entrambe premature, dato che la Cnapi non è un documento vincolante, ma solo preliminare. Sul piano pratico non è stato ancora deciso niente.
Nei prossimi mesi è prevista una fase di consultazione pubblica tra il governo e i cittadini, che porterà poi a un seminario nazionale in cui saranno coinvolte associazioni di categoria, enti locali, istituzioni legate alla ricerca e sindacati. Al termine del seminario, sarà compilata la Carta nazionale delle aree idonee (Cnai), il documento definitivo su cui si baserà la scelta finale per la sede del deposito. A quel punto, i lavori di costruzione dovranno avere inizio entro il 2025, in modo da non incorrere in ulteriori sanzioni da parte dell’Europa.
Secondo la direttiva Euratom del 2011, i Paesi dell’Unione sono infatti obbligati a dotarsi di una politica nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi, cosa che li vincola anche a dotarsi di un deposito nazionale unico per lo smaltimento definitivo. Il fatto che l’Italia in dieci anni non si sia ancora dotata di una strategia a lungo termine per la gestione di questi rifiuti ha causato nel 2019 l’inizio di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea, di recente confermata anche dalla Corte di Giustizia Ue.
La questione va oltre la semplice violazione delle normative comunitarie: gli attuali depositi provvisori, infatti, non sono stati progettati per ospitare questi materiali per periodi prolungati, né per smaltirli definitivamente in un secondo momento. Di fatto, i nostri rifiuti nucleari sono per ora stoccati in strutture temporanee che non rispondono alle specifiche minime di sicurezza richieste nel lungo periodo.
Opporsi al progetto del Deposito e del Parco Tecnologico senza proporre soluzioni alternative adeguate rischia quindi di prolungare la permanenza dei rifiuti radioattivi in luoghi temporanei, con conseguenti pericoli per l’ambiente e la salute pubblica.
Secondo il Comitato Nucleare e Ragione – un’associazione che si occupa della divulgazione dei temi legati all’energia – questo atteggiamento costituirebbe paradossalmente una vanificazione delle ragioni che hanno portato alla chiusura delle centrali oltre 30 anni fa: “Nel 1987 e nel 2011 sono stati fatti due referendum contro la produzione di elettricità da centrali nucleari in Italia – e questo è un fatto. […] Ciò non toglie che oggi le centrali ci sono ancora […] e che i rifiuti vanno gestiti. Quindi, un sindaco che dice di no a priori è un po’ come se non stesse tenendo fede a quella scelta. Inoltre, il deposito serve a gestire tutti i rifiuti radioattivi […] anche quelli che vengono prodotti in ambito ospedaliero e dalla ricerca. Quelli esistono e vengono prodotti quotidianamente – a prescindere dagli esiti referendari. Si tratta di una questione etica”.
Se il governo gestirà con trasparenza questa fase delicata, l’Italia si doterà finalmente – come la maggior parte degli altri Paesi europei – di un deposito dove contenere in totale sicurezza i rifiuti radioattivi prodotti sul suo territorio. L’alternativa è ritardare ancora una volta un progetto necessario per garantire la tutela dell’ambiente e soprattutto la sicurezza di tutti i cittadini, negando un problema che prima o poi dovremo comunque accettare di gestire.