Ho 32 anni e la maggior parte delle persone coetanee che conosco non si è nemmeno ancora posta la domanda se fare un figlio o no. Perché per un decennio abbiamo avuto lavoretti precari che bastavano appena a pagare le bollette e, consapevoli del privilegio socio-economico di aver potuto studiare e di una famiglia che ci ha sostenuto e ci sostiene, abbiamo raggiunto una certa stabilità – fatta di appartamenti condivisi e stipendi sproporzionati alle ore lavorate – solo da un paio d’anni. Per questo ci fanno un effetto straniante i ristoratori e gli albergatori che, come a ogni stagione turistica, si lamentano della scarsità di personale. Come la Grecia affronta (si fa per dire) il problema della mancanza di manodopera prolungando la settimana lavorativa – in controtendenza rispetto ai Paesi che la stanno accorciando – anche da noi ci si limita alle false soluzioni. Le motivazioni del problema vanno dal becero “I giovani oggi non hanno voglia di lavorare” al sociologico “Oggi ci sono altre priorità, la società è cambiata e bisogna tenerne conto”. È vero che c’è una nuova consapevolezza, tra i più giovani, del ruolo del lavoro, non più metro di misura del valore delle persone; ma questo non spiega la mancanza di manodopera, che ha, invece, motivazioni più realistiche, ma complesse da affrontare, per cui se ne parla meno: compresa la questione demografica.
C’è ovviamente il tema degli stipendi – spesso scollati dalla realtà del costo della vita – ma anche quello dell’irregolarità delle posizioni lavorative nell’ambito dell’ospitalità e del turismo, in cui, come riportava l’Espresso a giugno, non è stato rinnovato nessuno dei contratti collettivi scaduti negli ultimi anni; inoltre, nel 2023 in Italia il 76% di 445 aziende tra turismo e pubblici esercizi (ma non solo) era irregolare a livello contrattuale e di sicurezza, con una diffusione endemica di lavoro nero e grigio. In realtà, molti di coloro che lamentano la pigrizia dei giovani non ignorano queste situazioni, ma pensano che la fatica e la “gavetta” in condizioni precarie e sgradevoli siano un rito passaggio per meritarsi il successo; come se merito e successo non fossero, a loro volta, miti marci di una società capitalista che usa la performatività per spingerci a produrre dividendoci in una perenne competizione, mentre continua a produrre ricchezza solo per i privilegiati. Il fenomeno, tra l’altro, non riguarda solo chi debutta nel mercato del lavoro: a essere precari, infatti, sono sempre più anche gli over 50.
Tra stipendi bassi e mancanza di sicurezza, tra febbraio e aprile 2024 non si trovava il 70% di fonditori, saldatori, lattonieri e carpentieri di cui c’era bisogno, come pure di meccanici, montatori, riparatori e manutentori, quasi il 63% degli operai specializzati e il 62% degli autisti, oltre a più del 56% di camerieri e baristi. E gli esempi dei lavoratori introvabili potrebbero continuare, tanto che non basta nemmeno l’immigrazione: l’Italia, infatti, non forma i circa 80mila richiedenti asilo in arrivo ogni anno e nei sistemi di prima accoglienza non sono previsti programmi di formazione professionale, oltre al fatto che molti non possono permettersi di passare attraverso percorsi di formazione, perché hanno bisogno di un impiego immediato. Non è nemmeno facile assumere lavoratori provenienti dall’estero: il Decreto del 27 settembre 2023, infatti, definisce i criteri dei flussi di ingresso in Italia di lavoratrici e lavoratori stranieri per il triennio 2023-2025, ammettendone complessivamente 452mila e stabilendo che chi vuole assumere una persona non comunitaria residente all’estero deve verificare con il centro per l’impiego la disponibilità in Italia di lavoratori con le caratteristiche desiderate, con tempi e burocrazia che si allungano.
Il dato assurdo è che in Italia a fine 2023 c’erano 1,8 milioni di persone disoccupate, ma allo stesso tempo, su 5,5 milioni di offerte di lavoro, nel 45% dei casi è stato difficile riempire le posizioni, con tempi superiori ai 4 mesi. Sulla carta, cioè, con solo un terzo di tutte le posizioni aperte si sarebbe potuto risolvere il problema della disoccupazione, mentre si assiste a un paradossale disallineamento tra aziende che non trovano forza lavoro e persone che non trovano un impiego; è un fenomeno particolarmente marcato in Italia, un po’ per le forti disparità geografiche nel settore produttivo (per esempio tra Nord e Sud) e, quindi, nelle opportunità lavorative, e un po’ per la discrepanza tra percorsi di studio ed effettive esigenze del mondo del lavoro. Sembra più comodo prendersela con i giovani pigri e spremere fino al burnout chi un lavoro ce l’ha, invece di affrontare le cause strutturali, come il problema demografico: non si trovano giovani lavoratori perché non ce ne sono.
Secondo i dati provvisori Istat, infatti, il tasso di natalità è del 6,4 per mille, in calo sul 6,7 per mille del 2022, anno in cui l’età media italiana era 46,2 anni, in aumento rispetto ai 41,9 anni del 2000; oggi il 30,5% della popolazione ha almeno 60 anni e il 7,5% ne ha più di 80. Facciamo sempre meno figli, e per dei validi motivi, a partire dalle difficoltà nel trovare un lavoro stabile e dagli ostacoli e dai costi che una famiglia oggi comporta, nonostante la ministra per le Pari opportunità, la famiglia e la natalità Eugenia Roccella sembri suggerire che non figliamo perché stiamo troppo bene, economicamente e socialmente. Intanto, nel 2023 la popolazione italiana è diminuita di oltre 253mila unità rispetto all’anno prima, per il settimo anno consecutivo, e si prevede che i fenomeni attuali proseguiranno: secondo l’Istat fino al 2040 la popolazione calerà ogni anno dello 0,2-0,3%, mentre tra il 2040 e il 2050 il tasso sarà tra lo 0,3% e lo 0,5%, arrivando a punte dello 0,7% intorno al 2060, per poi continuare a diminuire, anche se a ritmo inferiore.
Quindi, se già oggi ci sono pochi giovani, nei prossimi decenni ce ne saranno sempre meno. E allora ci si preoccupa, come Guido Bertolaso, oggi assessore al welfare della Regione Lombardia, che ha parlato di inverno demografico che farà scomparire la “razza italica” (sic), nonostante i dati dicano che il calo della natalità riguarda anche i nati di cittadinanza straniera, che nel 2023 erano 50mila – 3mila in meno rispetto all’anno prima. Il governo si attrezza a modo suo: cioè opponendosi al diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, come dimostrano iniziative come l’approvazione della modifica al Pnrr che introduce i volontari pro-vita (leggi: antiabortisti) nei consultori, presidi territoriali storicamente al fianco della libera scelta delle donne e della gestione consapevole di contraccezione, gravidanza e post-parto, oggi sempre più in difficoltà su tutto il territorio nazionale. O, ancora, le proposte francamente ridicole come quella di Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato, che vuole introdurre un reddito di maternità per chi scelga di non abortire, da un lato facendo leva sulle difficoltà economiche per ricattare le donne che non vogliono un figlio, e dall’altro non preoccupandosi di come determinare se una donna stia davvero prendendo in considerazione l’aborto, né tantomeno per quali ragioni.
Il problema demografico è politico. E, mentre da noi il governo finge di affrontarlo strizzando l’occhio al Vaticano e al sistema patriarcale, a dare qualche idea concreta e più efficace su come approcciarlo sono altri, come sottolinea l’esperta di politiche sociali e di genere Barbara Leda Kenny, che ha analizzato le misure applicate da quattro Paesi europei che in questi anni sono riusciti a invertire la tendenza demografica: Francia, Germania, Repubblica Ceca e Finlandia. Questi Paesi, pur con approcci tra loro diversi, presentano tratti comuni tra cui il sostegno dello Stato a una pluralità di modelli di famiglia, contrariamente all’Italia, dove l’unico modello legittimato e sostenuto dal welfare statale è quello promosso come “tradizionale”, che, tra le altre cose, criminalizza la gestazione per altri. Inoltre, le politiche di supporto alla natalità di Francia, Germania, Repubblica Ceca e Finlandia seguono una linea coerente e continuativa, non funzionano per bonus a spot di anno in anno sottoposti ad approvazioni e modifiche, come da noi; e hanno, un approccio onnicomprensivo, che non si concentra sulla fecondità delle donne, ma include – tra le altre cose – la distribuzione più equa dei ruoli di cura – compreso il caregiving verso le persone anziane – o il tema del diritto alla casa. Kenny suggerisce anche altre opzioni: investimenti in politiche culturali ed economiche che attraggano giovani dall’estero, sia stranieri, che dovrebbero essere facilitati, anche con strategie non discriminatorie di integrazione, e non ostacolati nella loro decisione di stabilirsi in Italia; sia italiani che hanno lasciato il Paese, che a partire dalla crisi del 2008 sono stati 420mila in 10 anni e ancora in questi ultimi anni sono oltre 130mila all’anno.
L’invecchiamento, la denatalità e la diminuzione complessiva della popolazione preoccupano sia l’Istat che l’ONU, che sottolineano come questo andamento comporterà gravi contraccolpi su nodi centrali come la spesa sanitaria e pensionistica, perché meno persone lavorano meno sono quelle che pagano le tasse, il che significa tasse più alte per chi le paga e vuoti da colmare nel nostro affaticato welfare, oltre ai danni al dinamismo dell’economia. Meno persone vogliono dire meno lavoratori e non c’entrano le questioni morali, come sembrerebbe suggerire chi rimpiange i tempi in cui le donne non avevano scelta sulla propria vita, sul proprio ruolo e sul proprio corpo: c’entra, invece, il nostro futuro collettivo. Se vogliamo evitare il collasso economico e sociale dobbiamo cominciare ad affrontare sul serio la questione.