A 40 anni dall’abolizione del delitto d’onore non abbiamo cambiato la cultura che lo ha generato - THE VISION

I conservatori sono sempre esistiti in politica e nella Storia in generale. Il loro luddismo sociale, l’allergia al progresso e la costante battaglia per mantenere lo status quo per il timore di un cambiamento, è sempre stato oggetto di ridicolizzazione con lo scorrere del tempo, soprattutto quando poi i cambiamenti sono diventati qualcosa di normale. Di solito per screditare i retrogradi si usano esempi di un passato lontanissimo o ci si riallaccia a tempi relativamente più recenti, quando negli Stati Uniti i neri non potevano salire su un autobus con i bianchi. Agli occhi di chi non ha vissuto quei periodi, tutto appare grottesco, con sentimenti che si alternano tra lo sdegno e l’incredulità.

In realtà non serve andare troppo indietro nel tempo per trovare comportamenti e leggi che adesso ci fanno esclamare: “Davvero era così?”.

Uno dei casi più eclatanti in Italia è il delitto d’onore, abolito soltanto nel 1981.

In un Paese in cui erano già garantiti il divorzio e l’aborto, in piena esplosione tecnologica, con movimenti artistici e sociali, dal punk alla new wave, in fase ascendente e con i genitori dei trentenni di oggi già maggiorenni, un marito poteva uccidere la moglie infedele cavandosela con una pena sensibilmente ridotta grazie a un’attenuante giuridica che sfociava nella reputazione sociale, o più che altro nell’astratto: l’onore violato.

L’articolo in questione, il 587 del Codice Penale, risaliva al Codice Rocco di epoca fascista e recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostante, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”.

Inizialmente lo sconto della pena era previsto solo in caso dell’adulterio della moglie, e non del marito. Non c’è da stupirsi, considerando la società patriarcale che il fascismo aveva costruito, relegando la donna al solo ruolo di madre, angelo del focolare. Intervenne la Corte Costituzionale con due sentenze nel 1968 e nel 1969 per dichiararne l’incostituzionalità ed equiparare le azioni dell’uomo e della donna e le relative pene.

In realtà l’articolo del Codice Rocco prendeva spunto dall’articolo 377 del Codice Zanardelli, in vigore dal 1890, per cui “Se il fatto sia commesso dal conjuge, ovvero da un ascendente, o dal fratello o dalla sorella, sopra la persone del conjuge della discendente, della sorella o del correo di entrambi, nell’atto in cui li sorprenda in flagrante adulterio o illegittimo concubito, la pena è ridotta a meno di un sesto, sostituita alla reclusione la detenzione, e all’ergastolo è sostituita la pena da uno a cinque anni”.

Se ora appare obsoleto, all’epoca della sua promulgazione il Codice Zanardelli era all’avanguardia per certe conquiste civili; per esempio consentì per legge la libertà di sciopero e abolì la pena di morte. Ma l’onore dell’uomo ferito non poteva essere toccato comunque. 

L’Italia ne trasse quasi un esempio di costume, con la letteratura e il cinema a trattare più volte il delitto d’onore per descrivere l’affresco di una società ancora impantanata nella ricerca di alcuni diritti, ma tentennando nell’azione per raggiungerli. Il regista Pietro Germi nel 1961 rielaborò il romanzo di Giovanni Arpino Un delitto d’onore per realizzare il film Divorzio all’italiana, nel quale il barone siciliano Fefè, interpretato da Marcello Mastroianni, si innamora della sedicenne Angela, una giovanissima Stefania Sandrelli. Essendo sposato, e non essendo ancora in vigore il divorzio, Fefè architetta un piano allacciandosi proprio all’articolo 587 del codice penale, e fa poi di tutto per trovare un amante alla moglie per poterli uccidere, scontare una brevissima pena grazie al beneficio del “motivo d’onore” e poi sposare Angela. Il piano poi non si concretizza, ma l’intento di Germi era di raffigurare un’Italia di provincia nel profondo Sud, con le sue arretratezze legislative e culturali, attraverso il sarcasmo.

Divorzio all’italiaa (1961)

Il tema del delitto d’onore torna con sfumature diverse in Pasqualino Settebellezze, film di Lina Wertmüller del 1975 che la consacrò come prima donna a essere candidata agli Oscar come miglior regista. Qui il protagonista, Giancarlo Giannini, si affida al delitto d’onore per vendicarsi del fidanzato della sorella, che l’ha ingannata e costretta a prostituirsi in un bordello.

Per arrivare alla legge 442 del 1981, e quindi all’abolizione del delitto d’onore, i passaggi sono stati diversi. La prima proposta di abolizione arrivò nel 1968 dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Oronzo Reale, ma il Parlamento non approfondì il tema. Come ricorda Angela Maria Bottari, prima relatrice della legge 442 e all’epoca deputata del Partito Comunista Italiano, “Il delitto d’onore era considerato una faccenda intima fra coniugi, permaneva la cultura dei diritti delle donne subordinati a quelli maschili. Si reputava che la violenza in famiglia andasse risolta in famiglia, senza che altri ci mettessero il naso”. Inutile dirlo, la destra era contraria all’abolizione, e per anni anche la Democrazia Cristiana si oppose. Insieme a Bottari lottarono per questa legge donne come Tullia Carettoni Romagnoli, Romana Bianchi, Carla Ravaioli e altre figure di spicco di quella sinistra post 1974, quando in seguito alle battaglie per il divorzio diverse giovani donne decisero di entrare attivamente in politica, arrivando in Parlamento con le elezioni del 1976. Servivano però i voti di una parte della DC per far passare la legge, e la figura ponte fu quella di Maria Pia Garavaglia, democristiana che fece pressioni interne al partito per approvare la 442/1981.

Tullia Carettoni Romagnoli
Maria Pia Garavaglia

All’interno di quel quadro normativo non si aboliva soltanto il delitto d’onore, ma anche l’abbandono di un neonato per onore e soprattutto il matrimonio riparatore. Se una ragazza, anche minorenne, veniva stuprata da un uomo, quest’ultimo poteva proporre infatti alla famiglia della vittima di sposarla per “restituire l’onore violato”, e il reato veniva estinto. L’articolo 544 del Codice Penale recitava infatti che “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

La figura chiave che diede il via alle battaglie per mettere fine a questa prassi è  Franca Viola. Nel 1965, quando aveva sedici anni, la ragazza di Alcamo, in provincia di Trapani, fu rapita dall’ex fidanzato Filippo Melodia. L’uomo era stato arrestato in precedenza per reati associati a una banda mafiosa, costringendo il padre di Franca a rompere il fidanzamento. Prima del rapimento, la famiglia Viola aveva subito diverse minacce, fino alla distruzione del casolare di campagna e del vigneto. Una volta rapita, Franca venne tenuta otto giorni segregata prima in un casolare e poi a casa della sorella di Melodia, subendo violenze sessuali e percosse. Quando la polizia intervenne e si andò a processo, Franca Viola rifiutò il matrimonio riparatore sostenendo che “Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”.

Franca Viola

Oggi l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore è vista come una conquista sociale di fondamentale importanza, ma fa riflettere sui decenni necessari per raggiungere un tale traguardo, a causa di quei conservatori che vedevano la famiglia come un nucleo estraneo alla società, immutabile ed ermetico, con una sorta di sacralità che trascendeva le leggi e i progressi civili. 

Nonostante la svolta del 1981, ci sono ancora troppi casi di femminicidi in cui la pena per il colpevole viene ridotta attraverso attenuanti che non sono troppo distanti da quello che un tempo era il delitto d’onore. Quando una Corte d’appello dimezza la pena a chi ha strangolato la fidanzata con la giustificazione che il colpevole “Era in preda a tempesta emotiva e passionale”, viene da chiedersi se certi meccanismi siano davvero cambiati. A livello culturale non sembra valere per tutto il Paese, visto che i femminicidi sono all’ordine del giorno e in troppi cercano ancora giustificazioni all’azione criminale degli omicidi e alla cultura che li spinge a questi gesti.

Per questo è ancora più importante ricordare la dedizione e la fatica che richiede cambiare non solo una legge, ma la mentalità che l’ha nutrita per decenni se non secoli. Un ricordo che deve trasformarsi in azione per tutte le leggi ancora ingiuste da cambiare e quelle che invece devono ancora essere scritte.

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