Nei giorni scorsi il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan, in un discorso al Parlamento, ha inviato un avviso dai toni sinistri all’Unione europea. Nel video, che è circolato molto anche in Italia, lo si sente dichiarare: “Smettete di definire la nostra operazione in Siria un’invasione, altrimenti il nostro compito sarà facile: apriremo le porte e vi rimanderemo indietro 3,6 milioni di rifugiati”. Tanti sono i profughi, in buona parte siriani, che si trovano in territorio turco. Questa presenza massiccia è dovuta all’accordo stretto nel 2016 fra Ankara e l’Unione europea, nel tentativo di arginare il massiccio flusso dei migranti che giungevano in Europa attraverso la rotta balcanica di terra o via mare, approdando sulle coste della Grecia.
L’accordo con la Turchia è stato una delle poche misure relative all’immigrazione su cui il Consiglio europeo si è trovato d’accordo negli ultimi anni, anche se molti analisti e attivisti per i diritti umani l’hanno ritenuto fortemente problematico. Molte delle clausole presenti nel suo testo violano, secondo gli esperti, alcuni dei principi fondamentali stabiliti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati o dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: in particolare, discriminano tra i richiedenti asilo siriani e quelli provenienti da altri Paesi e stabiliscono criteri collettivi per i respingimenti e i rimpatri che sono in contrasto con il diritto all’asilo come diritto inalienabile della persona. Per attuare il programma di contenimento e respingimento, l’Europa ha versato a Erdoğan sei miliardi di euro dal 2016 a oggi.
In molti definiscono fallimentari gli esiti dell’accordo con la Turchia di questi anni. Da un punto di vista umanitario, le condizioni di vita dei siriani e non solo accampati nei campi profughi sono di sostanziale abbandono. Non sono migliori quelle di chi approda in Grecia, dove gli accordi non hanno risolto l’emergenza e, a un nuovo picco di sbarchi in questi ultimi mesi del 2019, si aggiungono il sovraffollamento, l’incuria e il pericolo a cui vengono esposti i richiedenti asilo nei campi, secondo le denunce di diverse Ong e associazioni per i diritti umani.
La situazione è ancora più estrema in Libia, dove è l’Italia in particolare a essersi messa nella condizione di subire i ricatti e le condizioni di trafficanti e signori della guerra locali, come dimostrato dalle recenti inchieste giornalistiche del quotidiano Avvenire. Oggi sappiamo che nel 2017, nello stesso periodo in cui le Ong subivano una campagna di discredito senza precedenti, quelli come Bija (indagato dalla Corte penale internazionale dell’Aja) venivano accolti con tutti gli onori in Italia per negoziare con la nostra intelligence e le istituzioni nazionali e sovranazionali sui finanziamenti da ricevere in cambio di uno stop agli sbarchi di uomini, donne e bambini sulle coste italiane.
Per molti politici europei, quando si parla di migranti e profughi la giustificazione di rito è che “non possiamo accoglierli tutti”, perché l’arrivo dei migranti rappresenterebbe una “minaccia alla democrazia”. Il rischio sarebbe così grave che l’ultimo governo italiano ha approvato ben due decreti sicurezza, non ancora aboliti né modificati da quello attuale. Invece, regalare miliardi di euro a tiranni come Erdoğan o trafficanti di esseri umani come Bija, e lasciar decidere a loro quando e come poter indirizzare i flussi di arrivi nel nostro Paese è un modo per garantire la sicurezza dei cittadini. Quando in Tv, nei talk show dove sono ospiti fissi, i nostri rappresentanti politici vengono invitati a parlare di business dell’immigrazione, a nessuno viene in mente di citare i capi di Stato o i mafiosi libici. Nella loro narrazione, sono le Ong a ricoprire il ruolo del cattivo.
Questo strano concetto di sicurezza è figlio di quel razzismo irrazionale che, come un virus, si è diffuso in Europa da almeno 20 anni, risultato diretto delle classi dirigenti europee e dalle loro misure politiche e ideologiche. Le leggi razziste, di concerto con una martellante propaganda mediatica, hanno inventato nel corso di questi ultimi decenni nuovi status criminali ad hoc, come quello di “clandestino”, per coprire gli accordi stretti dai Paesi europei con i veri criminali e il fiorente business della criminalizzazione delle migrazioni, che ha arricchito organizzazioni mafiose a ogni latitudine. I rossobruni ammaliati dai discorsi di Diego Fusaro, o i sovranisti più accaniti come i sostenitori della Lega e di Fratelli d’Italia lo definiscono “business dell’accoglienza”, ma la realtà ci dice l’esatto contrario: a creare occasioni di business, spesso illegale, è la mancanza di accoglienza. Sono proprio gli impedimenti posti dagli Stati sul cammino di chi sceglie di migrare.
Anche in questo campo a fare scuola per primo nel nostro Paese è stato Silvio Berlusconi. La prima normativa che ha permesso di finanziare in Paesi terzi la realizzazione di strutture per impedire le migrazioni risale al 2004 e fu, già allora, pesantemente criticata da associazioni come quella dei Giuristi Democratici. Su pressione dei suoi alleati Lega e Alleanza Nazionale, Berlusconi diede il via a una serie di misure che inasprivano ulteriormente la legge Bossi-Fini e inauguravano il futuro business della criminalizzazione. Il primo ad approfittarne fu il dittatore Muammar Gheddafi, che in quel momento regnava ancora incontrastato sulla Libia. I centri che Gheddafi poté aprire grazie al denaro italiano vennero subito denunciati da associazioni come Amnesty International e Human Rights Watch per le violazioni sistematiche dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali che avvenivano al loro interno. Nel loro rapporto del 2006 si legge “l’Italia, Paese maggiormente interessato dalla migrazione proveniente dalla Libia, si è fatto beffe nel modo più eclatante delle leggi internazionali designate a proteggere migranti, richiedenti asilo e rifugiati.”
L’aggravante è che le politiche restrittive sull’immigrazione gradualmente implementate dall’Italia seguivano fedelmente le linee guida europee, finalizzate a erigere la nuova “Fortezza Europa” contro gli immigrati. La collaborazione con un dittatore come Gheddafi, inaugurata da Berlusconi, fu poi imitata da altri Paesi europei: già nel 2008, l’analista Fulvio Vassallo Paleologo notava che “Da una parte all’altra del mondo, si continua a puntare su regimi privi di una qualsiasi legittimazione democratica, per ‘garantire la pace’ nelle relazioni internazionali e la sicurezza interna, oltre, naturalmente, i profitti delle multinazionali. Con quali risultati è possibile per tutti, oggi, verificare.”
Tra i risultati di queste politiche che a distanza di molti anni possiamo riscontrare c’è stata una recrudescenza razzista sempre più diffusa ed estrema che oggi ha la forza di minacciare la sopravvivenza stessa dell’Unione europea, spingendo molti Stati, tra cui la Gran Bretagna della Brexit, a dare più importanza alla propaganda nazionalistica locale che non agli interessi reali delle popolazioni. In Italia la criminalizzazione degli immigrati, avvenuta anche grazie al martellamento dei media, ha contribuito in modo determinante all’ascesa di figure politiche come Giorgia Meloni e Matteo Salvini, a spese dello stesso Berlusconi che oggi si lamenta dell’ingratitudine dei suoi alleati, ricordando di essere stato il primo a sdoganare i fascisti e i razzisti in Parlamento. Ha ragione: la Lega Nord era un’entità quasi insignificante sul piano dei consensi, prima della legittimazione arrivata con l’alleanza con Forza Italia nel 1994. Più si è stretto il sodalizio con l’allora premier, più è cresciuta, arrivando a cannibalizzare una parte importante dei consensi di Berlusconi, come si è visto alle ultime elezioni europee.
Proprio in questi giorni, il Consiglio europeo dovrà ridiscutere il versamento di ulteriori 3 miliardi di euro nelle casse turche per continuare con la sua politica di contenimento profughi. Per gli Stati europei sarebbe un’occasione preziosa per affrancarsi dai ricatti del regime di Erdoğan e sancire con un atto concreto, andando oltre alle dichiarazioni formali, la contrarietà all’operazione “Fonte di pace” nel nord della Siria che sta mettendo a rischio la popolazione civile e la sicurezza globale, visto il rischio di evasione di migliaia di militanti dell’Isis oggi prigionieri nei territori controllati dai combattenti curdi. Già nelle ultime ore, 800 tra terroristi dell’Isis e i loro familiari sono riusciti a fuggire da uno dei campi di detenzione.
Proprio ieri il Consiglio Europeo ha approvato un documento di condanna per l’invasione siriana. È un comunicato per lo più simbolico, anche se votato all’unanimità, in quanto conferma i fondi che la comunità versa al Paese di Recep Tayyip Erdoğan per le politiche di vicinato, e, soprattutto, non promuove alcun divieto di vendere armi al governo turco. In questi giorni molti Stati europei – Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Finlandia hanno annunciato il blocco della vendita di armi alla Turchia. Nelle ultime ore, anche l’Italia si è determinata in questo senso, seguendo una decisione assunta dall’intero Consiglio europeo. Il nostro Paese è un fornitore importante della Turchia per quanto riguarda tecnologia pesante e software da impiegare nell’iniziativa bellica. Nel 2018 l’export di armi verso Ankara ha raggiunto la cifra di oltre 360 milioni di euro. Tuttavia, le leggi italiane impediscono al nostro Paese di vendere armi ai Paesi in guerra, per questo alcuni esponenti del Partito Democratico avevano presentato nei giorni scorsi un’interrogazione chiedendo di bloccare l’esportazione delle ultime forniture.
Il blocco delle forniture belliche è un’azione importante, ma non rinnovare l’accordo economico con la Turchia in relazione allo sbarramento nei confronti dei profughi avrebbe un valore politico ancora più grande. Significherebbe infatti, per l’Europa, assumere finalmente una posizione coraggiosa sul fenomeno migratorio, svincolarsi dall’abbraccio mortale stretto in questi anni con tiranni e criminali e dare un segnale di democrazia e della sua forza ai cittadini. Non è chi scappa dalla guerra a rappresentare un pericolo per le popolazioni europee, ma chi guadagna dalla guerra stessa.