Parlare del Venezuela è facile, se vuoi deprimerti. Bastano alcune statistiche prese a caso: la più celebre di questi giorni è l’iperinflazione, che secondo alcuni tecnici del Fondo Monetario dovrebbe toccare il milione per cento (non è un errore di stampa) entro fine anno. Potrebbe essere un’esagerazione, come spiega Forbes, che comunque calcola l’inflazione per il 2018 al 33mila per cento: in ordine di grandezza, il 23esimo dato più alto mai registrato nell’ultimo secolo. Poi ci sono: una recessione del Pil che va avanti senza tregua dal 2013, e che nel 2018 potrebbe chiudersi in doppia cifra negativa per il terzo anno di fila (-15%); importazioni calate di oltre il 60% dal 2012; mancanza cronica di cibo, beni primari, e medicine.
Alla miseria materiale segue poi quella politica: le forze di sicurezza hanno ucciso dozzine di persone, almeno 46 in esecuzioni extra-giudiziali nel solo 2017. Aumentano la repressione e l’autoritarismo. Nello stesso anno si registrano quasi 14mila detenzioni arbitrarie, la stragrande maggioranza avvenuta dopo operazioni anticrimine negli slum più poveri. “La morte violenta è divenuta una caratteristica tipica della vita venezuelana”: riporta The Nation, usualmente solidale col Paese sudamericano. Ogni giorno i quotidiani riportano i bilanci degli scontri a fuoco tra diseredati e polizia. Aumentano la repressione e l’autoritarismo: “Le prigioni sono un inferno dantesco,” scrive il reporter (vicino alla causa socialista) Greg Grandin: le condizioni di vita disumane, le rivolte sono la norma, con decine di cadaveri squartati e decapitati in regolamenti di conti tra gang rivali, e le guardie che lasciano fare. Tutto questo fa del Venezuela una delle storie economiche e politiche più gravi e drammatiche dei giorni nostri.
Di certo non mancano i sermoni pastorali che raccontano quanto avviene a Caracas con toni squallidamente apocalittici, prendendo come verità rivelate le veline dell’opposizione e dipingendo il governo di Nicolás Maduro come una specie di Gheddafi, mentre il Brasile per mesi è stato sul baratro di un golpe e la vicina Colombia ha visto tornare la violenza della destra paramilitare, con dozzine di attivisti uccisi negli ultimi due anni nell’indifferenza generale. È anche vero che, dal lato opposto, nella sinistra terzomondista, non mancano dispacci retorici, come quelli di Geraldina Colotti (ex reporter del Manifesto, ora passata ad Antidiplomatico, noto sito bufalaro). Non ci vorrebbe molto a elencare tutte le distorsioni che il Venezuela sta subendo, da una parte o dall’altra, grazie all’informazione più dozzinale. Ma è innegabile che centinaia di migliaia di venezuelani vivano oggi nella disperazione, e che il socialismo ispirato all’utopia di Simón José Antonio de la Santísima Trinidad Bolívarà, di cui il Venezuela era fino alla metà degli anni Duemila la culla, sia ormai in rovina.
Quando due anni fa chiesi un parere a Paco Ignacio Taibo II, lo scrittore marxista da sempre vicino all’ex presidente Hugo Chávez, la risposta fu desolante ed evasiva: “Il presidente Maduro non possiede né l’ingegno politico né il surplus di petrodollari del suo predecessore, e la sua strada è segnata.” In realtà, è difficile distinguere i fattori politici, finanziari, ideologici e tecnici che influiscono dall’esterno sulla crisi. Per il governo e i suoi sostenitori, tutti i guai del Venezuela sarebbero causati dalla guerra economica scatenata dagli Stati Uniti e dalle élite locali. Le cose non stanno proprio così, ma non è tutta propaganda. Nel 2015 il Congresso americano approvò, per acclamazione, un ordine esecutivo che sottopose il Venezuela a sanzioni per via del “rischio straordinario” che il Paese avrebbe rappresentato per gli Usa; sanzioni confermate ed estese da Trump nel luglio del 2017. L’impatto negativo è stato in questi anni sia diretto che indiretto, con sempre meno aziende o banche straniere, incluse le europee, disposte e investire in una nazione presa di mira dagli Stati Uniti.
Ma la preoccupazione per quanto stava accadendo a Caracas ha spinto persino una sua alleata storica, la Cuba di Castro, a collaborare segretamente con gli Stati Uniti per evitare una catastrofe. Nel luglio del 2017 un prestigioso think tank militare ha aperto alla possibilità che il regime di Maduro potesse essere vittima di un colpo di Stato: gli alti gradi militari erano ormai troppo coinvolti nel narcotraffico per accettare di perdere il potere e l’opposizione troppo debole per rovesciarli. “Il governo sta restando rapidamente senza denaro,” avvertiva lo studio.
Ma nella guerra economica in corso c’è anche un’altra componente: quella dell’accumulazione di cibo e prodotti basilari – come carta igienica, farina, dentifricio – da parte di commercianti, produttori e contoterzisti ostili al governo, con lo scopo evidente di creare malcontento popolare. Era già successo nel 2002, quando Chávez stava per essere deposto da un golpe militare, e non è detto che non si stia ripetendo oggi. Come se non bastasse, l’opposizione scende in piazza con tattiche incredibilmente distruttive: prendendo di mira edifici pubblici, bloccando le arterie più trafficate, incendiando cliniche statali. Già nel marzo del 2014 il governo dichiarava che queste jacquerie erano costate la riduzione del 60% del commercio al dettaglio: verifiche accurate non ce ne sono, ma secondo il ricercatore indipendente Gabriel Hetland si tratta di una stima credibile.
Sempre più isolato a livello internazionale, venuti meno gli amici sudamericani che ancora dieci anni fa parlavano di un’alleanza continentale – l’Argentina di Cristina Kirchner, il Brasile di Luiz Inácio Lula, la Cuba di Fidel Castro, la Bolivia di Evo Morales (tuttora in carica) – il Venezuela è un Paese tecnicamente in bancarotta per i suoi debiti contratti in dollari, con Washington che gli fa la guerra appoggiando l’opposizione e sottraendogli tutti i salvagenti finanziari possibili. Si respira di nuovo l’atmosfera degli anni Settanta, quando Richard Nixon ed Henry Kissinger si impegnarono attivamente per “far urlare l’economia” del Cile e abbattere il presidente socialista Salvador Allende. Il problema è che, in Venezuela, i socialisti stanno facendo di tutto per giustificare questa strategia.
Il primo, e più clamoroso, errore del mitico Chávez è stato quello di imbrigliare il Paese nella dipendenza dal petrolio. Il Venezuela non sarà il primo né l’ultimo Stato a ridursi alla fame nonostante poggi su risorse naturali infinite, ma in questo caso fa davvero male, perché tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila l’economia stava andando piuttosto bene: il Pil era in crescita mediamente del 3,2% durante i quattordici anni di presidenza Chávez. Poi il disastro: la percentuale di nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà, che secondo la Banca Mondiale nel 2011 era a un minimo del 21%, oggi supera l’80%. Cosa è successo? Chávez, una volta preso il potere nel 1999, aveva fatto di tutto per diventare un partner ubbidiente dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. A quei tempi il prezzo stava salendo enormemente, per raggiungere un picco massimo di 147 dollari al barile nel luglio del 2008. Qualcuno ricordava l’ammonimento che uno dei fondatori dell’Opec, Juan Pablo Pérez Alfonso, scriveva nel 1975: “Io chiamo il petrolio lo sterco del Diavolo. […] Da qui a dieci, venti anni ci porterà alla rovina, vedrete.” Eppure, ancora un decennio dopo la sua salita al potere, con quei soldi Chávez stava facendo cose favolose: più investimenti nell’istruzione, nelle comunità rurali, nelle infrastrutture, nella sanità pubblica; più sussidi agli agricoltori, specie per quelli appartenenti alle minoranze etniche, da sempre diseredati. L’analfabetismo crollava, e così la mortalità infantile. Che fretta c’era di diversificare l’economia?
C’era stato, certo, un primo tonfo dei prezzi del greggio nel 2008, ma poi erano tornati a salire. Dopo il 2014, purtroppo, sono crollati per non rialzarsi più. Un disastro: un Paese in cui il petrolio rappresentava ormai il 96% delle esportazioni (nel 1998 erano il 68%) veniva impoverito dai famigerati mercati mondiali, mentre i produttori agricoli erano troppo poco incentivati ad aumentare la produttività e il governo era sommerso dai debiti in valuta straniera, che non riusciva più a pagare. Ma la crisi non viene sono da questo. Anche se gli incassi dall’oro nero sono venuti meno a partire dal 2014, e le sanzioni sono iniziate nel 2017, l’economia era in declino fortissimo già nel 2012, come raccontato dal New York Times.
La dipendenza dal petrolio – la maledizione di Pérez Alfonso che si è avverata – rappresenta il sostrato di arretratezza del Venezuela, ma è stata la svalutazione della moneta negli ultimi tre anni a mandarlo definitivamente in corto circuito. La spiegazione semplice è che a Caracas hanno speso per troppo tempo senza pensare alle conseguenze. E quando i soldi sono finiti – perché gli investitori stranieri se ne sono scappati, gli introiti fiscali erano bassi, i ricavi petroliferi erano crollati, e soprattutto nessuno voleva più prestare soldi al governo ribelle (nemmeno la Cina) – il governo ha iniziato a stampare nuova moneta: da qui la svalutazione del Bolivar, che ormai vale meno della carta igienica, e l’iperinflazione. Maduro potrà pure annunciare solenni aumenti del salario minimo (per decine di volte) e introdurre addirittura una criptomoneta, il Petro, legata allo stesso stato venezuelano (attraverso le rendite petrolifere, e dunque non “dematerializzata” come tutte le altre monete di questo tipo). Ma servirà a poco, nel momento in cui la valuta nazionale fa così ribrezzo che nemmeno il governo l’accetta: i Petro infatti si possono comprare solo con altre criptomonete. Una sovranità monetaria invidiabile, insomma, ma che non serve a nulla.
Una spiegazione più elaborata è che questi errori madornali si inseriscono nell’assurdo sistema valutario locale, che ha tre diversi tassi di cambio: uno ufficiale usato per l’importazione di alimenti, medicinali e materie prime; un altro fluttuante, usato per coprire tutte le transazioni non coperte dal primo; e infine il mercato nero, dove il bolivar vale migliaia di volte il dollaro. Un sistema arzigogolato che era stato implementato nel 2003 per difendere il potere d’acquisto dei poveri e frenare la fuga di capitali. Il problema è che molti imprenditori si sono attrezzati per aggirare queste misure, grazie all’aiuto di cavilli tecnici, e gli unici a essersi arricchiti sono gli alti burocrati e le gerarchie militari che spesso lavorano alla frontiera, a contatto con i contrabbandieri, e per questo sono contrari all’abolizione del triplo cambio.
Qualunque siano le origini dell’inflazione, Maduro ha provato a rispondere nel modo tipico dei Paesi comunisti degli anni Settanta: con il blocco dei prezzi. Ma questo ha mandato in rosso i conti delle aziende private, facendole fallire. In quel momento, però, il governo ha proceduto spedito con le nazionalizzazioni di massa e con l’arresto di numerosi imprenditori: una mossa da regime piuttosto goffo, più che da attenti pianificatori in stile sovietico. Il futuro, insomma, appare tragico, con il Venezuela avviato sempre più verso il caos inflazionistico di uno Zimbabwe, o di una Repubblica di Weimar.
Potrebbe sembrare che sia tutta colpa del socialismo. Eppure, per quanto possa suonare paradossale, il Venezuela rimane un Paese decisamente capitalista: tra il 1999 e il 2011, la quota dell’economia nelle mani dei privati è addirittura aumentata – dal 65% al 71%. Il petrolio è gestito dallo Stato, imprenditori autonomi controllano l’industria farmaceutica e gran parte delle importazioni; i mezzi di produzione non sono certo affidati in massa ai lavoratori e la carta costituzionale del 1999 è estremamente garantista nei confronti della proprietà privata; e inoltre – anche se al momento nessuno sembra più interessarsi di questo aspetto – il Venezuela non è un Paese più autoritario di quanto lo siano l’Arabia Saudita, l’Honduras o la Birmania: tutti alleati dell’Occidente. Le elezioni del 2015 hanno rappresentato una sconfitta per il governo, che non ha esitato ad ammetterlo e che sembra impantanato più nei suoi intrallazzi con gli speculatori, nella corruzione di bassa lega e nella porosità estrema dell’esecutivo che non in un eccesso di autoritarismo – anche se la repressione è ormai innegabile.
Secondo Atenea Jiménez Lemon, una sociologa che fa parte della Red Nacional de Comuneras y Comuneros, il Paese è sull’orlo di una guerra civile: il famoso “poder popular” – l’ideale bolivarista di incorporare i movimenti sociali nel governo delle istituzioni – ristagna e bisogna prendere atto che una parte significativa della popolazione, l’establishment, vuole essere coinvolta di più. “Il governo sbaglia a descrivere ogni oppositore come un terrorista,” dice Lemon, “Bisogna evitare di finire come una seconda Siria.” Secondo Mark Weisbrot, condirettore del Center for Economic and Policy Research di Washington, è “Cento o mille volte più pericoloso essere un attivista dei diritti umani in paesi alleati degli Stati Uniti come il Messico, la Colombia o l’Honduras che in Venezuela.” Se l’opposizione si sente rafforzata dalla copertura internazionale della crisi, ancora non riesce a conquistare la maggioranza della popolazione, che percepisce dietro le invocazioni di trasparenza, meritocrazia e diritti umani il viatico per restaurare insopportabili privilegi di classe e di razza.
La crisi venezuelana è dunque una crisi compiutamente socialista, e l’ennesima dimostrazione dell’inapplicabilità delle teorie marxiste nella vita quotidiana? Di sicuro, quanto visto in questi anni, a partire dall’ampliamento della democrazia diretta o il rafforzamento del welfare, può essere definito tipico di una socialdemocrazia, più che di un regime socialista. Una socialdemocrazia incompiuta, certo, raffazzonata, corrotta in mille punti; caratterizzata da una forte componente autoritaria, da ancestrali divisioni castali e da interessi di classe contrapposti. Una socialdemocrazia dove hanno continuato a pesare, sull’economia, più i vecchi burocrati, i politici senza scrupoli e gli imprenditori con gli agganci giusti che l’inesperienza del “popolo” messo alla prova.
Ma il caso del Venezuela è interessante anche perché dimostra, che nel momento in cui si dispone di una rendita interna preziosissima come il petrolio, si possono esibire credenziali socialiste e comprare consenso, mantenendo il potere per via parlamentare tramite elezioni più o meno libere, e sperimentare persino soluzioni radicali per quel contesto. Il problema è che i bolivaristi non hanno tenuto conto di una variabile chiave come il tempo, che chiede sempre il suo conto. E oggi, una fine negoziata della crisi richiederebbe un livello di solidarietà e coordinamento molto maggiori di quelli disponibili finora. Qualunque siano stati i motivi, questo esperimento sembra fallito e non sembra più recuperabile: tifare per il sogno romantico che ci faccia apparire il mondo più libero e colorato? È ancora possibile, ma a questo punto il prezzo sembra inconcepibile. Il numero di sfollati venezuelani ha già raggiunto i quattro milioni, superando quello dei rifugiati siriani. Nell’ultimo anno potrebbero esserci più giovani emigrati dal Paese che tutti gli africani subsahariani richiedenti asilo in Europa nello stesso periodo. La rivoluzione sembra finita in un tunnel senza ritorno, e nessuno ha interesse a tirarla fuori. Da soli – questa è la lezione – non ce la si può cavare troppo a lungo.