Gli ultimi due secoli si contraddistinguono, oltre che per elevato progresso scientifico, tecnologico ed economico, per tassi di incremento di popolazione mai visti nella storia dell’umanità. L’avvento di tecniche e strumenti medici moderni hanno permesso una riduzione consistente di mortalità infantile e una conseguente estensione della vita media in tutte le regioni del pianeta. In meno di duecento anni, le statistiche di censimento della popolazione mondiale hanno registrato un aumento esponenziale da un miliardo di inizio Ottocento ai circa otto di oggi.
La portata del fenomeno ha condotto rapidamente alla nascita di una serie di timori nei confronti dell’ipotesi di una vicina sovrappopolazione ormai inevitabile. Verso la fine degli anni Sessanta, nel pieno del periodo del cosiddetto “baby boom” demografico, il biologo Statunitense Paul Ehrlich pubblicò un libro destinato a diventare un best seller per gli anni successivi: The Population Bomb definì con toni apocalittici l’imminente crisi ambientale e sociale dovuta al problema del sovraffollamento che avrebbe causato, a detta dell’autore, migliaia di morti all’anno per carestie e mancanza di risorse già a partire dagli anni Settanta.
Nulla di quanto predetto tuttavia si è avverato e la casa editrice del saggio dovette modificare prontamente il periodo di previsione dal 1970 al 1980. A partire da quegli stessi anni, infatti, ciò che sembrò essere la nuova emergenza con cui il mondo avrebbe dovuto confrontarsi nel futuro prossimo si ribaltò presto nel suo opposto. È dal 1960 circa che la popolazione mondiale, seppur registrando ancora livelli mai visti in passato, sta crescendo sempre meno. In gran parte del pianeta, gli alti tassi di crescita demografica a cui eravamo abituati sono scomparsi e la fertilità media è crollata contemporaneamente ai progressi visti in istruzione e contraccezione. Il fenomeno non è circoscritto ma riguarda proprio i Paesi che hanno visto tassi di crescita a livelli record nei decenni passati. Non solo Italia, ma anche Regno Unito, Europa in generale e, negli ultimi tempi, Cina, India e Stati Uniti. Laddove il saldo demografico, ovvero la differenza tra nati e morti in un periodo di un anno, risulti ancora positivo, si riscontrano comunque tassi di crescita più bassi degli ultimi cinquanta anni. Unitamente all’estensione della lunghezza della vita media e all’evoluzione della medicina, ne consegue un contesto d’allarme rappresentato da popolazione più vecchia e stagnante, se non già in diminuzione.
Se da un lato il fenomeno potrebbe rappresentare una naturale via d’uscita dalle problematiche ambientali legate all’aumento esponenziale di popolazione, dall’altro sono numerosi i timori sorti per un necessario ripensamento del sistema socioeconomico. Maggiori spese mediche e assistenziali richiederanno un aumento di contributi che andranno a gravare su una sempre minore proporzione di giovani adulti in età lavorativa. Il risultato: spesa statale, e debito pubblico, generalmente in aumento e conseguente contrazione economica dovuta al decremento di forza lavoro e produttività disponibili. L’Italia, insieme a Grecia, penisola Iberica e Giappone, è uno dei paesi in cui il fenomeno è già in atto. L’ultimo report Istat pubblicato il 14 marzo 2022 parla di una diminuzione delle nascite del 1.3% rispetto all’anno precedente, per la prima volta sotto quota quattrocento mila. Il saldo demografico rimane negativo: la popolazione residente è in calo costante dal 2014 e si prevede che il 2048 sarà l’anno in cui i decessi raddoppieranno le nascite. Economicamente e socialmente parlando, lo scenario prospettato è “un quadro di potenziale crisi”, come lo definisce l’Istat stessa all’interno del documento.
Non tutto il male, però, viene per nuocere. Non è ancora chiaro, infatti, se i costi economici di un’ipotetica crisi demografica siano in assoluto maggiori rispetto ai benefici derivanti dall’idea di una transizione ambientale ed economica volta al concetto di decrescita sostenibile. Nella maggior parte dei Paesi in cui attualmente i decessi superano le nascite, infatti, si riscontrano livelli di Pil pro capite e qualità della vita in aumento. Il Giappone – Paese più anziano al mondo e con la più alta proporzione di abitanti che hanno superato i 65 anni, considerato da tempo il caso studio demografico per antonomasia – ha sempre mantenuto livelli di educazione, sicurezza e stabilità ampiamente al di sopra della media mondiale.
A partire dalla crisi finanziaria e immobiliare del 1990, il Paese entrò in un periodo di stagnazione economica battezzato come “decennio perduto”, ancora oggi presente, ma nonostante ciò mantenne indicatori di sviluppo economico in linea con Paesi dal demografico positivo. L’indice di sviluppo umano (HDI) giapponese, una metrica macroeconomica alternativa al semplice Pil elaborata negli anni Novanta dagli economisti Mahbub ul Haq ed Amartya Sen, si posiziona nel 2019 su un valore di 0.91 su 1; più alto rispetto a quelli di giganti economici come India e Cina, rispettivamente pari a 0.645 e 0.761. L’indicatore in questione non tiene solo conto del reddito pro capite, ma aggiunge al calcolo finale fattori maggiormente legati alla qualità della vita come il livello d’istruzione, il tasso di mortalità e l’aspettativa di vita media.
Un secondo caso esemplare è rappresentato dalla storia recente del Costa Rica. La nazione sudamericana, sessant’anni fa, vide tra i tassi di crescita demografica più alti al mondo e si trovò in breve tempo al centro di un’emergenza ambientale senza precedenti. La velocità di deforestazione crebbe parallelamente fino a costituire uno dei valori più alti riscontrati al tempo in America Latina: alla fine degli anni Ottanta, la foresta rappresentava solo il 17% della superficie totale del Paese. Successivamente, complice anche la crisi sanitaria e politica innescata da una così rapida espansione demografica, il tasso di fecondità nel Paese si ristabilì al di sotto della media di due figli per donna e le conseguenze furono per la maggior parte positive. Unitamente a un cambio di paradigma politico che diede alla questione ambientale maggior importanza e priorità, il Paese intraprese un percorso di riforestazione tra i più importanti e consistenti mai visti nella storia contemporanea. Nell’arco di venticinque anni, infatti, la superficie boschiva è tornata oggi a coprire più del 60% dell’area complessiva dello Stato e il World Happiness Report del 2019 indica la Costa Rica come il Paese più felice della macroregione sudamericana. Tra i criteri principalmente utilizzati si trovano il reddito pro capite, l’aspettativa di vita media, l’efficienza dell’apparato assistenziale e la libertà individuale percepita.
L’assunto tautologico e di derivazione puramente capitalistica che ci porta a immaginare il rallentamento demografico come causa certa di indiscutibile declino economico andrebbe quindi ponderato attraverso un’analisi più ampia e variegata. Come è vero che qualsiasi forma di allarmismo legato a un pericolo di imminente sovrappopolazione mondiale non è sufficientemente supportato dalla realtà dei fatti, bisogna riconoscere che vale anche il discorso contrario. Gli esempi citati precedentemente dimostrano l’inconsistenza di un’equazione meccanica che leghi la diminuzione di fecondità e l’estensione della vita media a eventuali periodi di recessione economica. Al momento, l’unica relazione causa-effetto sufficientemente sostanziata e verificata sarebbe proprio la tendenza nei Paesi sviluppati a ricorrere maggiormente a metodi contraccettivi e di riduzione del numero medio di figli partoriti. All’interno di società i cui tassi di istruzione, di libertà e di benessere percepiti sono in aumento, i tradizionali incentivi dovuti alla necessità di concepire più figli per supportare direttamente il nucleo familiare, e di vederli quindi come capitale umano, sono pressoché assenti. Considerando gli Stati Uniti: nel 1900 una donna partoriva mediamente 3.85 figli (con un tasso di mortalità infantile vicino al 20%); nel 2020 la stessa statistica è di 1.9 figli in media. Ad oggi, circa la metà del totale dei Paesi nel mondo registra un tasso di fertilità al di sotto di 2.1, ovvero la soglia definita dalle Nazioni Unite come necessaria a garantire un ricambio generazionale positivo, e quindi un numero maggiore di nascite rispetto ai decessi. Se la tendenza dovesse perdurare nel lungo termine e investire le ultime regioni in cui la crescita demografica è ancora in forte aumento, ovvero Africa e Medio Oriente, il fenomeno diverrà allora globale e l’intera umanità sarà chiamata a porsi un quesito radicale sul suo stesso funzionamento.
Lo status quo socio-economico ci ha abituati, e in parte assuefatti, al concetto persistente della crescita quantitativa di beni e servizi in un determinato lasso di tempo, marginalizzando tutto ciò che ha a che fare con le qualità umane. Allo stesso tempo, le scienze del clima e dell’ambiente ci avvertono sulle conseguenze presenti e future di tale forma mentis che è intrinsecamente e per definizione in conflitto con la natura limitata degli elementi materiali a disposizione. Non è perciò possibile prefigurare un futuro remoto basandosi su sistemi il cui unico scopo è l’aumento quantitativo indeterminato a spese di un deterioramento della qualità generale. Già nel 1812, Friedrich Hegel nella Scienza della logica esponeva un ragionamento tanto semplice quanto premonitore per i tempi a venire: quando un fenomeno cresce da un punto di vista quantitativo non si ha solo un aumento in ordine della quantità, ma si ha una variazione qualitativa radicale.
Fintanto che i beni presi in considerazione dalle statistiche economiche saranno esclusivamente misurati in termini monetari, il processo continuerà inesorabilmente a concentrare sé stesso in un ciclo autoalimentato di consumo e produzione, che vede come unica realizzazione collettiva la crescita fine a sé stessa. In questa prospettiva, il fenomeno della decrescita demografica risulta un impedimento, un guasto tecnico all’interno della grande macchina economica di cui l’uomo – insieme alla tecnologia – è materia prima essenziale e necessaria alla produzione di reddito nazionale. Più auspicabile, e necessario, sarebbe un ripensamento generale sdoganato dai dettami della logica del breve termine: la transizione demografica, al pari di quella ecologica, andrà affrontata attraverso un rinnovamento politico e ideologico radicale. Anche volendo prediligere l’indubbia rilevanza del discorso economico, l’automazione dei lavori manuali e il progresso tecnologico sono due fattori sui quali maggiori investimenti potranno tradursi in aumento di produttività pro capite parallelamente a una diminuzione di numero di persone in età lavorativa. In entrambi i casi, la via d’uscita dagli scenari sopra ipotizzati coinciderà con una visione più umanistica della società, e ciò non potrà mai essere considerato un esito catastrofico.