Da marzo a oggi, per prevenire l’emergenza Covid-19 nelle carceri italiane è stato fatto ben poco. Ci sono state diverse scarcerazioni dei soggetti fragili o a rischio per età, ma restano invariate le condizioni igieniche precarie dei detenuti e il grave sovraffollamento delle strutture. La situazione, a causa di questi problemi, è peggiorata in maniera drammatica ed è ormai fuori controllo. Come ha scritto il 13 novembre Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente d’onore dell’associazione Nessuno tocchi Caino: “Gli ultimi [dati] ci dicono che i casi positivi tra i detenuti sono arrivati a 537 e fra gli operatori, agenti compresi, a 737”. Per avere un’idea di quanto questi numeri crescano con allarmante rapidità, basti sapere che l’8 ottobre del 2020, le cifre ufficiali diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, DAP, e rese note pubblicamente dall’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, parlavano di 34 detenuti contagiati e di 61 operatori di polizia. Sempre l’Osapp, denuncia in una lettera indirizzata, tra gli altri, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che in due settimane i numeri delle persone contagiate, tra detenuti e personale penitenziario, sono aumentati del 600%.
In base agli ultimi dati diffusi dal DAP ai sindacati di polizia, risalenti a domenica 8 novembre, il totale di persone contagiate nelle carceri arriva a 1.274 unità. Tutto questo a fronte di una popolazione carceraria che aumenta: oggi il numero di detenuti in Italia è pari a 54.868, un numero esorbitante soprattutto se rapportato con i posti ufficiali effettivi, 47.000 – che comunque andrebbero ricalcolati a causa di quelli che sono stati dedicati all’isolamento in caso di Covid-19. E c’è di più, tanto l’Osapp quanto la Uil penitenziaria nelle persone, rispettivamente, dei Segretari Leo Beneduci e Gennarino De Fazio, esprimono perplessità sulla tempestività dei dati forniti dal Dap e lamentano una sospetta incompletezza. Un caso eclatante: non abbiamo riscontri su quanti siano gli agenti di polizia penitenziaria isolati per Covid-19, un numero che incide sul depauperamento delle già scarse forze di polizia penitenziaria andando a porre in sofferenza un organico che da anni si definisce insufficiente.
A Radio Radicale, Riccardo Arena ha ricordato le anomalie incresciose e gli effetti devastanti del totale disinteresse della politica nel porre un freno all’emergenza sanitaria negli istituti di pena: eclatante il caso di due bambini risultati positivi nel carcere di Torino dove è detenuta la loro madre e gli ultimi due suicidi per impiccagione. Il 7 novembre, a Verona, un detenuto maliano di soli 23 anni si è tolto la vita usando i lacci della sua tuta nella cella di isolamento in cui era confinato, mentre a Ivrea il 9 novembre scorso si è ucciso un detenuto rumeno di 39 anni, anche lui in isolamento precauzionale perché accusava sintomi legati al Covid-19 da alcuni giorni. Nel corso del 2020, 51 detenuti hanno volontariamente posto fine alla loro vita; altri 79, invece, sono deceduti per malattia o per cause ancora da accertare.
Se immaginiamo gli istituti di pena come l’ultima tappa di un lungo viaggio e risaliamo le sue fasi, ci accorgiamo che ogni tappa dell’iter giudiziario di un detenuto esprime l’inadeguatezza di un sistema già profondamente compromesso prima dell’emergenza sanitaria, e questo non certo per colpa della maggior parte dei magistrati e degli operatori del diritto che intervengono nel corso dello stesso. Come denunciato il 9 novembre dall’Unione Camere Penali: “Nei Palazzi di Giustizia e negli Istituti di pena, i ritardi per giungere a sentenza, dovuti all’enorme carico processuale, si sono ulteriormente aggravati per l’emergenza sanitaria, che ha ridotto il personale e ha imposto la drastica diminuzione dei fascicoli da trattare in udienza […] I tempi della Giustizia saranno, pertanto, ancora più lunghi, con gravi riflessi individuali su imputati e persone offese e conseguenze negative per la credibilità del Paese e per la sua economia”.
L’Associazione nazionale magistrati già a marzo avvertiva “[è] assolutamente necessario che siano adottati interventi urgenti e realmente incisivi che, senza abdicare alla fondamentale funzione dello Stato di garantire la sicurezza della collettività, tengano realmente conto del fatto che le carceri sono pericolosissimi luoghi di diffusione del contagio che espongono a rischio intere comunità, costituite dai detenuti e da tutti coloro che continuano a prestarvi servizio”. Pochi giorni prima di questo comunicato, tra il 7 e il 9 marzo, parte della popolazione carceraria era insorta contro le limitazioni imposte a causa dell’emergenza sanitaria, tra cui la sospensione dei colloqui con i famigliari. All’epoca il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede reagì con un provvedimento, molto discutibile, contenuto all’interno del decreto “Cura Italia” che non solo non mise freno al problema dei contagi crescenti in carcere, ma salì agli onori della cronaca per aver favorito – prevedendo gli arresti domiciliari per i detenuti ai quali restavano da scontare non più di 18 mesi – le decisioni dei magistrati di sorveglianza atte ad accordare tale beneficio, ma anche in questo caso il quadro normativo disciplinato presentava numerose incongruenze.
Al giorno d’oggi, le risposte del Governo si sono ripresentate altrettanto inadeguate e insufficienti e, se possibile, più blande di quelle di marzo. Anche il “Decreto ristori” non prevede misure efficaci, funzionali a contrastare il reale e sistematico problema delle carceri, tra le altre cose principale causa di diffusione del virus: il sovraffollamento. “L’indifferibile esigenza di prevenire ed evitare una massiva diffusione del contagio tra la popolazione carceraria può essere soddisfatta solo con una significativa diminuzione della stessa, in misura tale da eliminare il sovraffollamento cronico rispetto ai posti disponibili e assicurare, anche all’interno degli istituti penitenziari, la praticabilità delle misure di prevenzione del contagio che lo stesso Governo impone ai cittadini liberi”, scrivono dall’Unione Camere penali, “i provvedimenti adottati sino ad ora appaiono totalmente inadeguati ad affrontare la nuova ondata del virus, che si presenta molto più pericolosa e cruenta della prima. Non a caso il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, con una sua circolare, ha rinnovato l’invito – già espresso nell’aprile scorso -– di ridurre la richiesta di misura cautelari in carcere e di procrastinare l’esecuzione delle misure già emesse”.
La diminuzione effettiva della popolazione carceraria per evitare ulteriori rischi di contagio non è una decisione che si può delegare ai giudici – i quali non possono fare molto di più in base agli strumenti normativi che hanno a disposizione – ma una decisione politica. È arduo trovare soluzioni che accontentino tutti, ma chi conosce profondamente la vita negli istituti di pena ne suggerisce alcune in merito alle quali andrebbe intavolato un serio dibattito tra istituzioni, politica e operatori del settore: depenalizzazione, liberazione anticipata speciale, rafforzamento della disastrata sanità penitenziaria, acquisto e utilizzo massiccio dei braccialetti elettronici, e infine i più contrastati: amnistia e indulto.
Il Governo è l’espressione del sentire comune della nostra società e alla nostra società che spesso si mostra purtroppo insensibile rispetto alle rivendicazioni dei più elementari diritti umani da parte dei detenuti e delle loro famiglie. Oggi, i detenuti e le loro famiglie invocano da più parti, come nel caso delle proteste annunciate e poi attuate nel carcere di Poggioreale, la tutela del loro diritto alla salute che in questo caso si esprime attraverso l’attuazione di serie misure per prevenire il dilagare dei contagi. La legge sancisce il principio della proporzionalità della pena in relazione al delitto compiuto, ma per la maggior parte dell’opinione pubblica aver commesso un reato è ragione necessaria e sufficiente per mettere colui che ha sbagliato nella condizione di dover subire a sua volta qualsiasi ingiustizia, anche quelle che ledono i diritti più elementari, come una sorta di punizione ulteriore.
Nel 1890, lo scrittore russo Anton Čechov si recò sull’isola di Sachalin, luogo di deportazione zarista di detenuti comuni e politici: voleva andare lì per testimoniare con i suoi occhi quali fossero le condizioni di vita dei reietti della società. In una lettera al suo editore, Aleksej Suvorin, scrisse: “Sachalin è il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo, libero o prigioniero che sia […] è chiaro che abbiamo fatto marcire in prigione milioni di uomini, li abbiamo fatti marcire invano, senza criterio, barbaramente; […] li abbiamo contagiati con la sifilide, li abbiamo corrotti, abbiamo moltiplicato i delinquenti […] Sachalin […] è un inammissibile luogo di sofferenze […] l’intera Europa colta sa chi sono i responsabili: non i carcerieri, ma ognuno di noi”. Sono passati più di cento anni, ma le cose non sembrano essere cambiate: questa indifferenza nei confronti degli ultimi continua a martoriare le nostre società.