Questi giorni di quarantena stanno mettendo a dura prova l’equilibrio psicologico di molti cittadini, tanto che l’Ordine nazionale degli psicologi ha diffuso un vademecum che non sostituisce il lavoro dei professionisti, ma è utile per dare linee guida che possano aiutare la popolazione ad affrontare la paura, l’ansia e gli effetti del distanziamento sociale. Il Coordinamento nazionale conferenza salute mentale ha chiesto che il governo dia “disposizioni chiare valide su tutto il territorio nazionale per contenere l’allarme e prevenire l’abbandono [delle terapie], chiarendo che i servizi territoriali devono garantire le attività terapeutiche e riabilitative ovunque in Italia, e indicando esplicitamente le tipologie di attività da garantire”, tenuto conto dei gravi effetti che comporta la brusca interruzione del trattamento.
Si provi ora a immaginare come sia vivere la paura della diffusione di un virus sconosciuto, per cui non esiste ancora una cura, in un cella di un Paese come l’Italia, in cui il tasso di sovraffollamento carcerario arriva anche al 190%, a discapito delle più elementari norme igieniche e di cura della salute mentale. A questa “normalità” si sono ora aggiunti gli effetti di un momento storico in cui, per ovvi motivi anche se non adeguatamente gestiti, tutte le attività cliniche non emergenziali sono state sospese. Anche quel minimo servizio garantito – un solo medico di base ogni 315 pazienti, 930 assistenti sociali e 999 educatori per più 60mila detenuti – non è pienamente attivo.
La diffusione della COVID-19 sta presentando il conto, nel peggiore dei modi possibili, di quel vergognoso esercizio di rimozione collettiva che si è fatto sul tema della sanità penitenziaria. Consideriamo che, in base agli ultimi dati registrati a fine 2019 dall’associazione Antigone, un detenuto su quattro fa uso di psicofarmaci e il 27% viene sottoposto a terapia psichiatrica. Una pratica in alcuni casi tollerata dai dirigenti degli istituti, come emerso grazie a diverse inchieste giornalistiche, per calmare gli animi dei detenuti, costretti a dividere spazi angusti con molte altre persone e con la prospettiva di poche, o nessuna, attività preordinate al reinserimento sociale. In questo modo si trovano a vivere in uno stato di alienazione costante che, secondo l’osservatorio promosso da Ristretti orizzonti, solo nel corso del 2019 ha portato a 53 suicidi su un totale di 143 morti, con una media di un decesso ogni tre giorni, decine di tentativi non riusciti e migliaia di atti di autolesionismo.
A questo si aggiunge che la perizia richiesta dai giudici, nei casi previsti dalla legge, per appurare la compatibilità alla custodia cautelare in carcere è complicata di molto dalla limitata tempistica concessa agli psichiatri per dare un responso: appena cinque giorni, con possibilità di brevi proroghe.
Nel 2018 il professore Marco Pelissero, docente di diritto penale presso l’Università degli studi di Torino, ha scritto che “La sanità penitenziaria costituisce oggi un nervo scoperto del mondo carcerario […]. Il carcere deforma sempre, in modo più o meno significativo, i diritti individuali fondamentali, e tra questi il diritto alla salute che dovrebbe avere valore preminente, perché la privazione della libertà personale non può comportare anche privazione del diritto alla salute. In particolare, è la salute mentale a risultare fortemente compromessa dalle condizioni di vita detentiva, specie in contesti – come l’attuale – connotati da sovraffollamento carcerario. Così il carcere diventa collettore, amplificatore e produttore di forme più o meno gravi di disagio psichico”.
Anche l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha affrontato più volte la questione a chiare lettere: “Il carcere danneggia la salute mentale. Sovraffollamento, varie forme di violenza, solitudine forzata, mancanza di privacy, mancanza di attività significative, isolamento dai social network, insicurezza riguardo alle prospettive future […]. I disturbi mentali tra i detenuti sono considerevolmente più numerosi rispetto al resto della comunità e studi in tutto il mondo hanno dimostrato che i tassi di suicidio nelle carceri sono fino a dieci volte superiori a quelli del resto della popolazione”, è scritto nella sezione del loro sito che raggruppa i diversi studi internazionali sulla questione.
In particolare, nel rapporto dell’Oms del 2014 Prisons and health, stilato da esperti di tutto il mondo per fornire linee guida per migliorare le condizioni di salute mentale della popolazione carceraria, viene identificato un presupposto tanto semplice quanto di difficile comprensione per società, come la nostra, che equiparano le pene detentive alla punizione anziché al reinserimento sociale: “I detenuti hanno meno probabilità di riconoscere le loro esigenze di salute mentale e di ricevere assistenza o cure psichiatriche. Sono più sensibili durante il periodo di custodia in carcere”. Alcune delle soluzioni sono da ricercarsi, come suggerisce l’Oms, nell’ascolto delle esigenze dei detenuti e nel dotare gli istituti carcerari di personale adeguatamente preparato alla gestione delle specifiche patologie che si sviluppano in quest’ambito. Inoltre, non bisognerebbe mai interrompere i contatti tra i carcerati e le loro famiglie per assicurare il loro benessere mentale e un futuro, corretto, reinserimento nella società.
L’attuale governo deve sapere che non è sufficiente correre ai ripari in un momento di crisi con le norme del Decreto legge 18 del 17 marzo 2020, o Cura Italia. Se la riforma del sistema carcerario del 2018 voluta dal governo Gentiloni a trazione Pd non si era concretizzata, pur avendo coinvolto oltre 200 esperti per un parere tecnico, è andata peggio con il primo governo Conte. Nell’esecutivo gialloverde il grillino Alfonso Bonafede ha iniziato la sua carriera come ministro della Giustizia cancellando ogni previsione relativa alle pene alternative al carcere, anche per i malati di mente. Il risultato è stato caricare con uno stress ulteriore la sanità penitenziaria in tema di infermità psichiche.
Le proteste in carcere esplose in tutta Italia dopo l’emanazione del decreto emergenziale dell’8 marzo, che ha posto pesanti restrizioni ai colloqui e alle attività formative dei detenuti per contrastare la diffusione del coronavirus, sono da condannare quando violente ma vanno ascoltate per la sicurezza dei detenuti e degli operatori carcerari. Anche questi ultimi, infatti, sono costretti a sopportare livelli di stress altissimi con implicazioni sulla loro salute mentale e fisica, come evidenziato dall’Oms. Invece, le rivolte hanno dato vita a tiepide riflessioni sul sistema e molto disappunto di parte dell’opinione pubblica. Nessuno ha voglia di occuparsi delle condizioni igieniche e sanitarie nei penitenziari, o del malessere di persone che hanno infranto il patto sociale e che quindi meriterebbero di “marcire in carcere” o che venisse “buttata via la chiave” della loro cella. Tutte espressioni popolari che i politici italiani di diversi schieramenti hanno ribadito più volte.
Le pessime condizioni sanitarie e sociali in cui vivono i detenuti non sono una realtà emersa adesso a causa del nuovo coronavirus: in Italia, l’Unione camere penali con l’Osservatorio carcere ha denunciato più volte nel corso degli ultimi anni che la forzata convivenza di più persone in piccoli ambienti umidi, malsani e con pessime condizioni igieniche avrebbe favorito il diffondersi di virus e malattie.
Inoltre, il Dpcm 8 marzo 2020 si sta rivelando non adeguato perché, come appurato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il 17 marzo, già dieci detenuti sono risultati positivi a COVID-19. Un problema a cui si dovrà provvedere con la messa in quarantena dei compagni di cella dei detenuti contagiati e degli operatori carcerari che hanno interagito con loro. Proprio in merito a questo, è notizia di questi giorni che il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ha diffidato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini per aver emanato una circolare che obbliga a prestare servizio con persone contagiate o sospette.
La disastrosa situazione della sanità penitenziaria è il simbolo del totale disinteresse che i vari governi hanno dimostrato nei confronti della popolazione carceraria italiana e degli operatori che lavorano in quell’ambito. Quella che stiamo vivendo è una crisi sanitaria, ma anche culturale e di sistema. È complicato, mentre siamo preoccupati per la nostra salute e per quella dei nostri cari, porci il problema di come le istituzioni stiano provvedendo alla cura e alla messa in sicurezza di coloro che sono da molti considerati come estranei alla società civile. Eppure proprio per questo, a volte, sono i più deboli. La civiltà di un popolo si vede dal modo in cui tratta gli ultimi: in Italia non abbiamo mai affrontato con serietà la questione del sovraffollamento delle carceri e della salute fisica e mentale dei detenuti. Questo momento di crisi potrebbe tramutarsi nell’occasione adatta per ripensare l’intero sistema e acquisire la consapevolezza che il regime detentivo non può e non deve mai corrispondere alla privazione del diritto alla salute. Almeno in un Paese che voglia continuare a considerarsi democratico e rispettoso dei trattati internazionali sui diritti umani.