La coscienza politica va insegnata a scuola. O la nostra società non sarà mai libera.
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Il governo italiano non ha nessuna intenzione reale di impegnarsi in modo efficace per risolvere i problemi che caratterizzano il nostro sistema scolastico. L’innovazione della formazione, come ha dimostrato la gestione durante e post epidemia di Covid, non sembra essere una priorità per il nostro Paese. E il motivo è che alla classe dirigente, e in particolare a quella rappresentata dagli esponenti di estrema destra (ma non solo), fa comodo così. La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina in balia di diverse forze si è mossa in modo ambiguo, cercando di trovare soluzioni temporanee a un sistema che sembrava sgretolarsi su se stesso, tra insufficienza di cattedre, competenze informatiche inadeguate, endemica inadeguatezza delle infrastrutture, emersa in modo ancora più evidente a causa della necessità di distanziamento sociale e ultima ma non ultima l’enorme disparità sociale tra gli allievi, che però si continua non solo a ignorare ma a giustificare attraverso una fantomatica meritocrazia – simile a quella che usano gli oppositori dei femministi per sostenere ingiustizie strutturali del sistema. Come nella migliore tradizione italiana, anche l’operato della ministra Azzolina (che ricordiamo si fa ispirare da Diego Fusaro), è stato caratterizzato dal solito gattopardismo: cambiare tutto – in questo caso qualche piccola cosa – affinché nulla cambi. Questi problemi apparentemente contingenti, seppur connaturati, però, non riguardano solo il sistema scolastico, e chi lo frequenta, ma anche noi che ne siamo il diretto risultato – essendo o essendo stati studenti – e di conseguenza la forma mentis della società. La scuola, infatti, è tutt’altro dall’essere un mondo a sé, ma è un mondo nel mondo.

In Italia in molti sostengono a gran voce che la scuola debba essere apolitica. Peccato che questa sia una classica mossa di retorica negativa, simile al “razzismo al contrario”, all’eterofobia, o a chi sostiene che gli uomini e le donne sono uguali e che quindi le seconde non sono discriminate, semplicemente non si battono abbastanza per ottenere le cose, o non se lo meritano. Queste retoriche sono molto violente perché semplicemente rendono invisibile un problema esistente e sistematico. Non a caso tra i sostenitori dell’apoliticità della scuola troviamo Matteo Salvini. Sotto un manto di imparzialità, però, si nasconde una forte polarizzazione strutturale. Il rifiuto della politica infatti è il rifiuto di mettere in discussione le idee e la realtà date, la maggioranza rappresentata dallo status, ciò che è dato. Il rifiuto della politica a scuola annichilisce la capacità di dubitare e quindi di immaginare nuove possibili realtà. E qualsiasi cambiamento sociale nasce da questa capacità di immaginare, dall’esercizio della fantasia, come diceva Gianni Rodari. Questo quindi finisce per creare studenti la cui mente è statica, è come un baule da riempire con le nozioni selezionate, senza lo strumento critico per sfruttarle e farle crescere. E in questa assenza di discorso, e quindi di ascolto, e di dibattito costruttivo fondano proprio le basi la destra e i vari movimenti populisti, le cui file sono occupate dagli urlatori e dagli incitatori all’odio, sostanzialmente persone che non hanno mai esercitato, e da giovani non sono mai state invitate a esercitare l’arte politica. La capacità di politicare infatti, non dovrebbe essere propria, come il sistema invita con costanza a credere, dei politici, ma nella democrazia dovrebbe essere prima di tutto uno strumento dei cittadini.

Rivendicare l’apoliticità della scuola, in seconda battuta, fa sì che non vengano mai trattate tematiche fondamentali che interessano il dibattito politico attuale, come ad esempio l’immigrazione e l’integrazione, la cultura di genere e la parità, oltre che l’educazione sessuale, su cui sarebbe fondamentale che fin da giovani gli allievi accumulassero le conoscenze necessarie per sviluppare una posizione consapevole, per evitare di discriminare o di essere discriminati. Eppure è inutile dire che agli inventori della teoria del gender e a coloro che cercano di ostacolare in ogni modo contraccezione e IVG questo non può che far comodo. Ovvero cittadini ignoranti e di conseguenza confusi, che però vengono sollecitati ad ogni modo a dire la loro, prendendo inevitabilmente nella maggior parte dei casi posizioni violente e intolleranti, dettate dalla paura di ciò che non si conosce e da quella di perdere – non si sa come – i propri privilegi, per quanto minimi. È su questo che fanno leva i sovranismi e i populismi. E dovrebbe bastare questo a farci capire quanto sia fondamentale e urgente un cambiamento del sistema scolastico, che si appoggia ancora alle teorie di Giovanni Gentile.

È dunque necessario scavalcare questa falsa neutralità per reinserire l’arte politica nella formazione, anche per far capire agli studenti che per stare al mondo in modo costruttivo e necessario è fondamentale confrontarsi con gli altri, anche con chi la pensa diversamente, e sviluppare la capacità di costruirsi idee che non nascano dalla pancia, dalla rabbia e dalla paura, comunicarle e portarle avanti in modo efficace ma rispettoso – cosa che peraltro neanche gli esponenti di sinistra degli ultimi decenni hanno mai imparato a fare. “D’Alema di’ qualcosa di sinistra, di’ qualcosa anche non di sinistra, di’ qualcosa”, diceva Nanni Moretti in Aprile, e “Noi non dobbiamo reagire, dobbiamo rassicurare i cittadini”, ed è forse per questo che il Pd ha appena approvato votando insieme alla Lega un finanziamento da 300 milioni alle scuole paritarie, che tra le altre cose rendono più difficile l’integrazione. È proprio durante gli anni di formazione – della cosiddetta scuola dell’obbligo, quando più che un dovere dovrebbe essere considerata un diritto, uguale per tutti – che si dovrebbero apprendere e soprattutto esercitare (dato che la politica è soprattutto pratica, prima che teoria) questi strumenti, al di là delle posizioni personali del singolo insegnante, della singola famiglia o del singolo allievo. Anzi, andrebbero sfruttate come occasione di dibattito democratico ed esercizio.

Pretendere e far finta che la scuola non sia politica è ipocrita, anche perché la scuola è diretta manifestazione dello Stato: la scuola non deve essere partitica, che è ben altra cosa. Chi prende le decisioni rispetto alla struttura e al futuro della scuola sono i politici, ed è quindi inevitabile che la scuola che di volta in volta prende forma rispecchi le posizioni e i valori del gruppo che la definisce. Paradossalmente questa apoliticità di facciata porta al non-coinvolgimento degli alunni in primis, ma anche dei professori o dei dirigenti (che incarnano una figura molto simile a quella dei primari negli ospedali). Sulle massime decisioni in campo scolastico, infatti, finiscono per avere più influenza le linee guida europee rispetto alle posizioni nate dall’esperienza di chi la scuola la vive ogni giorno e sostanzialmente la scuola la fa. Gli studenti, in particolare, invece che attivi interlocutori, nella maggior parte dei casi finiscono per risultare semplici occupanti di spazi angusti e stritolati da un sistema soffocante, che non possono in alcun modo modificare ma solo subire. È in questo modo che la scuola crea cittadini sottomessi, abituati a rispettare le regole e garanti dell’ordine costituito, perché inesperti nel politicare, nell’opporsi e nel proporre decisioni in seguito al confronto delle proprie idee e della realtà.

Sembra che i nostri politici, infatti, si siano dimenticati, che politica viene dal greco antico politiké (ovvero che attiene alla pólis, la città-stato greca), con sottinteso téchnē, “arte”, “tecnica”. Quindi, per estensione, arte che attiene alla città-stato, ovvero tecnica di governo. Niente quindi che abbia a che fare con l’ideologia, la propaganda politica, o l’indottrinamento dei futuri elettori, come temono reazionari (o forse dovremmo dire conservatori), dichiarati e non, bloccando così qualsiasi spinta di rinnovo progressista della scuola. Dalla stessa radice poi deriva anche il sostantivo políteēs, cittadino e l’aggettivo polītikós, politico. Tra i compiti fondamentali della scuola ci sarebbe quello di formare i cittadini di domani, farli crescere e maturare. Dunque dovrebbe essere politica, nel senso più originale e profondo del termine.

A scuola bisognerebbe parlare di crisi ambientale ed economica, di ineguaglianza e inclusività, di intercultura, femminismo e coscienza di genere, di sessualità, di razzismo e immigrazione, dato che i cittadini, una volta “maturati” si troveranno a dover eleggere i loro rappresentati facendo riferimento a questi problemi su cui davvero si gioca il loro futuro e quello del mondo. E invece non si arriva nemmeno a studiare, se non in casi eccezionali, la storia e la filosofia recente – ma non più così recente – del nostro Paese e del mondo, sempre a causa dei programmi ministeriali antidiluviani che non vengono aggiornati e dello spauracchio della propaganda politica. Come se i dirigenti degli istituti e i professori che ci lavorano non avessero preferenze politiche e non le manifestassero quotidianamente attraverso il loro operato (e guarda caso di solito queste posizioni emergono discriminando i più deboli e svantaggiati). In questo modo le ultime generazioni non hanno idea di chi siano Craxi e Andreotti, per citarne due tra i tanti, e non si può riversare sul singolo studente o sulla sua famiglia la responsabilità di formarsi autonomamente sulla storia degli ultimi settant’anni di eventi e di pensiero. Questa è una lacuna enorme che impedisce qualsiasi presa di posizione ponderata. In questo contesto il fatto che da settembre 2020 – se tutto va bene – verrà inserita nelle scuole come nuova materia Educazione civica, invece che una cosa normale come dovrebbe essere, sembra una grande conquista. Il problema è che per come ormai stanno le cose per far prendere sul serio una disciplina devi dare dei voti.

I nostalgici della scuola tradizionale dovrebbero ammettere che è proprio a causa loro se ci troviamo in questa crisi scolastica, sociale e politica. Il mondo in cui viviamo è inevitabilmente il risultato di quello che ci ha preceduti, e questo dovrebbe essere sufficiente a stroncare qualsiasi sentimento nostalgico verso il passato, dato che è semplicemente un nonsense. Le posizioni dei conservatori-reazionari in materia scolastica partono da un’idea di fondo profondamente sbagliata, che vede  nel bambino e nel ragazzo un individuo incapace di far uso personale e sociale delle conoscenze, e per questo debole, e soggetto al pericoloso rischio di essere manipolato da quella che chiamano ideologia progressista. Ma questo è l’ennesimo gioco retorico, dato che in realtà la scuola, come abbiamo detto, è più spesso il luogo dell’ideologia dominante di Stato, anche perché non è una scuola antica, ma vecchia. La tradizione infatti non è buona per definizione, soprattutto se si rifà a una storia ingiusta.

L’articolo 33 della Costituzione ci ricorda che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Questa frase sottolinea la scissione tra il potere e la forma stessa dell’insegnamento. Eppure a oggi, nella sostanza, risulta un’affermazione svuotata di qualsiasi efficacia, puramente retorica. Il filosofo, storico e pedagogista austriaco Ivan Illich – che sviluppò una delle riflessioni più forti, interessanti e sovversive sulla scuola in Descolarizzare la società – sosteneva che ormai fossimo entrati nell’età (o nell’ontologia) dei sistemi. L’epoca precedente era stata dominata dall’idea di strumentalità – dall’uso di mezzi strumentali, come la scolarizzazione o la medicina, per raggiungere un certo fine o bene. Nell’età dei sistemi, la distinzione tra soggetto e oggetto, mezzo e fine, strumento e utente si è invece esaurita. Un sistema, in un orizzonte cibernetico, è un tutto avvolgente, semplicemente non ammette un esterno. Se chi un tempo usava uno strumento, lo dominava per raggiungere un risultato, oggi gli utenti di un sistema si trovano all’interno del sistema stesso e adeguano costantemente il loro stato – e il loro modo di pensare e agire – al sistema, mentre il sistema a sua volta si regola su di essi. La scuola è uno di questi sistemi, che a loro volta seguono le leggi dei poteri, del controllo e dell’esclusione di chiunque non si adatti alla loro forzata armonia. In questo mondo si impara a uniformarsi fin dall’infanzia, eliminando sul nascere il contraddittorio, e quindi la dialettica, e la capacità di pensare e di sostenere posizioni che si oppongano alla maggioranza. Di fatto, eliminando in toto certi argomenti questa libertà si annulla.

In questo scenario, la capacità di immaginare sembra davvero l’unico talento sovversivo che abbiamo a disposizione per cambiare il mondo, mantenendo i confini della nostra esperienza materiale e sottile i più ampi e agili possibile. Serve un’enorme immaginazione per figurarsi com’è il mondo, diceva anche il fisico Richard Feynman, è infatti  un’abilità fondamentale anche per chi si occupa di ricerca scientifica. Da sempre gli esseri umani usano l’immaginazione per vedere il mondo, nella sua infinitezza macro e microscopica, dato che “la fantasia della natura supera di gran lunga quella dell’essere umano”. La scienza avanza dimostrando di volta in volta una fantasia, la capacità visionaria di qualcuno. E forse è anche per questo che la nostra scuola dell’obbligo è così debole rispetto alle materie scientifiche.

Eppure, sia a destra che a sinistra, si temono non solo le rivoluzioni, ma anche qualsiasi piccolo cambiamento. Come ha recentemente ricordato la storica Vanessa Roghi – che negli ultimi anni si è occupata attentamente di scuola – Franco Basaglia, in una delle sue conferenze brasiliane, disse “Dobbiamo stare attenti a ciò che consideriamo rivoluzionario, che non è creare ideologie ma riflettere sulle cose che in pratica trasformiamo”. Illich chiamava questo stesso fenomeno “l’ideologia celebrata religiosamente”. L’effettiva rivoluzione nel mondo di oggi – ma forse già dai tempi di Buddha – sta prima di tutto nel modificare il modo che abbiamo di esperire la realtà attraverso la pratica, di percepire le relazioni e le corrispondenze che lo compongono, e così di costruire il nostro senso del Sé e la nostra identità, e di conseguenza la nostra visione del mondo. Altrimenti la rivoluzione – a cui oggi spesso si appellano a gran voce proprio i movimenti alt-right, complottisti e populisti – sarà solo apparente, retorica, e non porterà ad alcuna nuova libertà, e a ben vedere “il nuovo modo di vedere le cose”, sarà identico a quello vecchio.

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